di Luca Celada

Comincia oggi una rubrica settimanale verso le elezioni statunitensi, tra processi, candidati anziani e malandati, identitarismo, paranoia e la sempre più complessa situazione geopolitica mondiale. Come ne usciranno gli Stati Uniti? Cronache da una democrazia solo parzialmente operativa

Mancano cinque mesi alle elezioni che potrebbero pronunciare un verdetto sul trumpismo e forse sul futuro della combustibile stagione del populismo americano. La concitata cronaca della campagna che vede affrontarsi nuovamente due anziani politici invisi alla maggioranza dell’elettorato, ha ora registrato la condanna penale di uno dei due candidati, la prima di un ex-presidente nella storia della nazione. 

Non di un candidato normale, si intende, ma di Donald Trump, la cui meteorica ascesa di “normale” non ha nulla, se non di incarnare il new normal della post-politica globale, quella sfera amorfa di demagogia, manipolazione emozionale, crisi valoriale e collettivo esaurimento psichico che sembra in Occidente aver innescato una recrudescenza di destre che recuperano identitarismo, paranoia, recriminazione e prevaricazione come pratica politica.  

Il processo e la condanna di Donald Trump per falsificazione di atti nella commissione di un reato contro il finanziamento elettorale (i soldi pagati per mettere a tacere una storia con la pornostar Stormy Daniels nel 2015) sono i minori dei vari (quattro) procedimenti legali che lo riguardano. Il processo di New York era il meno “istituzionale”, incapsulando soprattutto il problematico rapporto con la legalità “white collar” dell’ex-presidente, coltivato in mezzo secolo di carriera da palazzinaro newyorchese.

Ma, essendo l’unico procedimento che potrà venire completato prima delle elezioni (almeno nel primo grado, con la sentenza che verrà emessa l’11 luglio), rappresenta anche il processo-palliativo per un ordinamento giuridico che non è stato capace di elaborare la carica eversiva di un politico che ha già una volta portato il paese sull’orlo del colpo di stato. Il fallimento dell’impeachment, sabotato dai repubblicani, continua a gravare come un macigno sull’integrità di una democrazia in cui uno dei partiti rifiuta tuttora ufficialmente di accettare gli esiti di elezioni sfavorevoli.

Mentre rimangono da definirsi i processi per le imputazioni più gravi, quelle per la sovversione dell’ordine democratico, la condanna della scorsa settimana ha aperto la giostra di pronostici sugli effetti che potrà avere sulle elezioni. Con i sondaggi bloccati su una sostanziale parità, si tenta di valutare se una condanna potrà far la differenza per una frazione di ipotetici elettori a cui non sarebbero bastati gli ultimi sette anni di escandescenze per formulare un giudizio su Trump. O se viceversa servirà ad infiammare ancor più gli animi, compresi quelli di un novero non già compreso nella base infervorata di sostenitori Maga (cioè Make America Great Again, come vengono comunemente chiamati i sostenitori più estremisti di Trump).

Su quest’ultimo teorema punta Trump, che ha prontamente inglobato “la persecuzione politica” nel copione elettorale preconfezionato che spera lo riconduca allo studio ovale: il verdetto è frutto di un complotto ordito da Biden per punire gli Americani patriottici attraverso il loro rappresentante.  

Al di là del messianesimo da cartoon (peraltro sempre efficace col suo target) l’attacco alla magistratura “asservita a Biden” è speculare alla denigrazione sistematica dell’integrità elettorale andata in scena quattro anni fa con le accuse dei “vasti brogli” e delle “elezioni rubate.” Quella strategia ebbe la logica conclusione nell’assalto al Parlamento. La decisione di estremizzare anche l’attuale confronto come battaglia fra bene e male che esclude ogni mediazione rischia di avere simili effetti distruttivi. L’ex- presidente ha già cominciato ad infondere la campagna con insinuazioni di violenza: «io andrei anche in prigione, ma non posso assicurare che i miei sostenitori rimangano pacifici».  

La galera, per ora, rimane prospettiva distante ma per Trump la posta in gioco si è chiaramente alzata. Una sconfitta questa volta lo lascerebbe vulnerabile all’iter, pur lento, della giustizia.  E un Trump per cui la vittoria a novembre diventi l’unica opzione per evitare la galera non è certo una prospettiva di stabilità.

I margini di elettori dissuadibili o convincibili, sia per Trump che per Biden, sono millimetrici e imprevedibili nel mix di post-ideologia, disinformazione e apatia che caratterizzeranno queste presidenziali. L’esito finale sarà verosimilmente determinato dai risultati nella solita manciata di swing states (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Arizona, Nevada, Georgia) dove, in regime di collegio elettorale, poche decine di migliaia di preferenze potrebbero bastare a fare la differenza – più difficile immaginare che Trump possa ottenere il voto popolare che non ha mai vinto. 

A ogni buon conto Trump ha già telegrafato il progetto di una sua seconda presidenza.  Nel Project 2025, il documento programmatico stilato da un consorzio di strateghi conservatori, promette di muoversi più decisamente per appropriarsi delle leve del potere. Fra i passi specificamente citati: grazia per (gli 800 circa) condannati per l’insurrezione del 6 gennaio, discrezionalità assoluta agli stati per le normative sull’aborto (compreso monitoraggio statale delle gravidanze), mobilitazione della guardia nazionale in stati “inadempienti”, deportazione di massa degli (11 milioni) di immigrati non autorizzati, finanziamenti trattenuti per la Nato«finché gli altri non pagano» e generale celodurismo per riportare l’America all’«antica grandezza».

Un’anticipazione, insomma, di una presidenza carburata dal rancore accumulato negli ultimi quattro anni e di rappresaglie contro una schiera di nemici che si è ingrossata a dismisura – un modello, in pratica, per le presidenze imperiali e premierati forti che sono progetto comune delle destre globali.

È scarsa consolazione la consapevolezza che l’alternativa sia la continuità di un neoliberismo che non ha voluto attenuare le logiche del capitale e di proiezione egemonica neocoloniale nel mondo. O che Biden prometta l’esacerbazione di una conflittualità con Russia e Cina e un militarismo che getta benzina su di un mondo in fiamme.

Quei dati promettono infatti di rimanere sostanzialmente invariati in un regime Trump che in più incentiverebbe un sodalizio di stampo putiniano con una plutocrazia che lo sostiene sempre più apertamente. Policy e governance sono però ridotte quasi a note di margine mentre in America si consuma uno dei confronti determinanti fra nazional- populismo fondato su fanatismi strumentalmente coltivati e il restante simulacro di democrazia. Se in questo chiaroscuro il nuovo mondo «tarda a comparire» si indovinano fin troppo chiaramente i contorni di un futuro dai tratti fin troppo familiari nel nazionalismo la xenofobia e l’invocazione delle guerre che accomuna sempre più l’Occidente.

Comunque vada a finire la campagna presidenziale del 2024, anche se il conflitto non dovesse sfociare in scontro aperto, difficilmente sarà la fine di una conflittualità cui il paese stenta a trovare una soluzione e che ha reso gli USA una democrazia solo parzialmente operativa, pur nel momento in cui le sorti del mondo in gran parte dipendono, che ci piaccia o meno dalle sue azioni.

Nell’articolo, i risultati elettorali delle ultime elezioni statunitensi, autunno 2020 (Wikimedia commons); l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, fotografia di Tyler Merbler, Wikimedia commons.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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