16. La sinistra antipatica
Ricordiamo tutti lo storico manuale di Berlusconi per i candidati di Forza Italia. Senza voler rievocare ora in dettaglio i suoi consigli, scrupolosi al punto da spingersi fino al corretto uso dei bagni, l’obiettivo era quello di rendere il candidato il più possibile simpatico agli occhi degli elettori. Obiettivo che fu pienamente raggiunto. A vedere le performance dei rappresentanti del PD, si direbbe che anch’essi seguano un manuale, seppur invisibile, il cui obiettivo però è esattamente il contrario di quello berlusconiano. Anche in questo caso, conseguendolo pienamente.
La sinistra oggi è antipatica. Questo è un dato di fatto. Soprattutto tra le fasce socialmente e/o culturalmente più deboli. Tra costoro, l’essere di sinistra viene immediatamente identificato con l’appartenenza a un’élite di privilegiati, e quindi lontani e spesso ostili al popolo.
Prima di metterne a fuoco i motivi, però, è interessante notare il paradosso insito in questo fenomeno. Il discredito che grava sulla sinistra è originato dalla linea politica del PD, un partito che a ben vedere non può essere considerato di sinistra, come se della gente travestita da pompiere andasse in giro ad appiccare incendi, facendo così a lungo andare diffondere la convinzione che i pompieri facciano il contrario di ciò che dovrebbero fare. Per conseguenza, se qualcuno dice «ho idee di sinistra», anche se è effettivamente di sinistra, viene comunque bollato come difensore degli interessi di un’élite.
Tornando all’antipatia, abbiamo visto come ormai le politiche economiche siano dettate dai mercati e dalle grandi istituzioni finanziarie, e come esse si possano sostanzialmente definire di destra moderata. Anche se, come detto, in misura minore rispetto alla sinistra, anche la destra radicale vive un problema di rappresentatività analogo, come sta sperimentando bene il partito della premier una volta pervenuto al governo. Si chiama governo Meloni, ma lo si potrebbe tranquillamente chiamare Draghi-bis, tanta e tale la continuità tra i due, quanto grande era la distanza che li separava stando all’opposizione.[1]
La destra radicale, tuttavia, è predisposta meglio ad affrontare questo fenomeno, come dimostrano i sondaggi, che a dispetto di un’azione di governo in perfetta continuità con quella del precedente (contro il quale veemente era stata l’opposizione), non registrano variazioni di rilievo.
Come mai, allora, non succede alla destra radicale la stessa cosa che succede al PD, il cui elettorato manifesta apertamente la delusione per la mancata realizzazione delle istanze per cui l’aveva votato?
L’abbiamo accennato nel capitolo dedicato all’immigrazione e in quello sul politicamente corretto. La destra resiste meglio al fenomeno dell’omologazione in virtù di un’efficace strategia comunicativa, una strategia che affonda le radici nella sua storia.
«Il nazionalsocialismo […] non si isolava dalla gente comune», scrive Vasilij Grossman, «le sue battute erano quelle di tutti e tutti ne ridevano; era plebeo e come tale si comportava, conosceva perfettamente la lingua, l’anima e i pensieri di coloro ai quali aveva tolto la libertà».[2]
La stessa natura plebea che ritroviamo tra le componenti della cultura fascista, per esempio in movimenti come Strapaese, interpreti del sentimento tradizionale popolare, con particolare accento sulla sua diffidenza verso ogni forma di contaminazione e di cambiamento, visti come minacce all’identità nazionale.
Questa sintonia della destra con gli umori popolari ha conosciuto un periodo di appannamento nel corso della Prima Repubblica. In un contesto storico dominato dalla cultura democristiana, la destra era piuttosto espressione del perbenismo borghese. Difficile immaginare una foto di Almirante con due meloni, e non soltanto per una questione di nome. Non sarebbe mai successo nemmeno se anziché chiamarsi Almirante, si fosse chiamato Cocomero o Ficosecco.
La deregulation morale, intervenuta sul finire del secolo scorso e proceduta di pari passo con quella economica, è stata il terreno propizio per riallacciare il feeling con la gente comune, permettendole di ritornare ad essere movimento di massa. Le modalità di comunicazione berlusconiane, infarcite di barzellette di bassa lega e di slogan iperbolici, segnano l’inizio di questo ritorno agli antichi splendori. I due leader odierni hanno saputo fare anche meglio, scendendo un ulteriore gradino fino a porsi allo stesso livello dell’uomo della strada, annullando ogni frattura tra governante e popolo. Basta osservare i loro profili social per rendersene conto. Sono quelli dell’uomo qualunque, dove in un unico calderone gorgogliano buoni sentimenti, toni sguaiati, frasi mielose, beceri apprezzamenti, ecc.
La sinistra, al contrario, è storicamente pedagogica. Da Marx a Gramsci affida all’intellettuale il ruolo di guida e di educatore delle masse. Ma se negli anni della Prima Repubblica, in una società culturalmente classista, ha avuto gioco facile nell’intercettare gli umori degli strati popolari ed ha potuto quindi prosperare, con l’avvento dell’illusorio interclassismo berlusconiano si è venuta a trovare a mal partito, staccandosi rapidamente dal sentire popolare. Se Berlusconi ha potuto contare sulle sue tv, la sinistra avrebbe potuto tutt’al più puntare sulla scuola, essendo una platea istruita e/o rispettosa della cultura quella a lei più congeniale. Senonché, i ministri di sinistra che si sono succeduti a Viale Trastevere, lungi dal porre un freno al processo di smantellamento della scuola italiana, lo hanno accelerato, spesso in maniera più decisiva dei colleghi di destra. Ennesima dimostrazione, ove ce ne fosse bisogno, della lungimiranza del Partito Democratico e dei suoi esponenti di spicco.
Così, man mano che la cultura veniva sempre più svalutata, l’intellettuale, figura storica di riferimento della sinistra, è diventato sempre più estraneo alle fasce popolari. Il suo linguaggio risulta oggi escludente, idoneo a far presa solo su persone di istruzione medio-alta, e sostanzialmente privo di empatia verso il sentire popolare. Finisce dunque per essere visto come simbolo di un’élite estranea alla gente comune, alla sua quotidianità e ai suoi problemi. Simbolo della sinistra, insomma. Non solo. È andato incontro al rischio nel quale possono incorrere tutti gli educatori: è diventato noioso. E, non rendendosene conto, pure fastidioso. Niente di sorprendente, dunque, se il termine stesso abbia assunto una connotazione quasi dispregiativa. Gli intellettuali dell’area progressista sono diventati intellettualoni, oggetto di dileggio sui social, accusati di disquisire dei massimi sistemi senza avere alcuna conoscenza concreta di quale sia la quotidianità della vita nelle aree più disagiate.
Quindi, in un contesto nel quale i governi sono obbligati a muoversi in un solco tracciato altrove, col confronto ormai spostatosi interamente sul terreno della comunicazione, ognuno dei due schieramenti sventola le bandierine nelle quali si dovrebbe riconoscere il proprio elettorato. Ma nel gioco delle bandierine, lo abbiamo detto e ripetuto, la sinistra non ha alcuna speranza di prevalere. Non ci vuole Machiavelli per capire quale avrà più successo tra lo ius soli e il degrado accentuato dall’immigrazione, tra i diritti LGBT e i valori della tradizione.
(16. continua)
[1] Si veda nota n.22.
[2] Grossman, Vita e destino.