Alcuni giorni fa, appena terminata la manifestazione romana unitaria delle opposizioni in risposta all’approvazione alla Camera dei Deputati della Legge sull’Autonomia differenziata, a breve distanza di tempo dalle violenze esplose in Parlamento contro il deputato Cinquestelle Donno, a seguito di tutta una serie di aggressioni verbali che si sono verificate in molti comuni italiani da parte di esponenti delle destre contro le forze progressiste, un gruppo di neofascisti ha preso a calci e pugni alcuni giovani che tornavano a casa dalla libera piazza democratica.

Botte e insulti, strattonamenti, tentativi di rubare le bandiere e strapparle. Tutto registrato dai telefonini e, quindi, almeno oggi facilmente portabile alla conoscenza del maggior numero di persone possibili.

Ma il salto di qualità dalla presa visione delle immagini ad un rigurgito antifascista di massa, che coinvolga soprattutto coloro che si sono fatti prendere dalla foga del voto di protesta e hanno preferito la fiamma alle forze democratiche, oppure coloro che non sono proprio andati ai seggi, è un passaggio di riqualificazione socio-civile che ancora deve maturare.

Non si tratta più di un clima che monta sulla scorta dell’ascesa a Palazzo Chigi di Fratelli d’Italia, della Lega e di Forza Italia, perché dietro a questi che, troppo benevolmente ed eufemisticamente, vengono definiti come “episodi” c’è una riemersione di un sentimento represso per tanto tempo, appartenente ad una minoranza del Paese, pure numericamente importante, che oggi ha trovato la sua interlocuzione politico-rappresentativa nella destra di governo.

Poco importa che i picchiatori nelle strade siano di altra provenienza, marcatamente extraparlamentare.

Perché quella galassia nera, quel mondo fintamente patriottico, ferocemente ancorato a disvalori novecenteschi che stabiliscono il predominio del forte sul debole, del nazionalismo sul liberal-popolarismo e sul socialismo, dell’autoctonia sull’estraneità e l’allogenia degli altri esseri umani, è fatta di giovani generazioni che sono state imbevute di pregiudizi, odio e disprezzo verso i dissimili da tre fattori che finiscono inevitabilmente col convergere: l’origine socio-culturale della famiglia, il revisionismo veicolato dai media e la rabbia per l’incedente povertà.

L’inchiesta di Fanpage sulle interconnessioni culturali e politiche tra vecchia generazione pseudo post-fascista e giovani neofascisti di oggi, rivela esattamente la saldatura che c’è, oltre le divisioni temporali dettate dalle trasformazioni istituzionali del dopoguerra, e che si è oggi rinvigorita.

Il successo elettorale della nuova destra di governo guidata da Giorgia Meloni, dal volto pubblico rispettabile e moderato, è la conseguenza di uno stanco peregrinare tanto delle classi medie quanto di quelle più disagiate delle periferie urbane e del dei tanti “sud” italiani.

Delusi da una sinistra che ha abbandonato pure il riformismo socialdemocratico per abbracciare il governismo dal chiaro sapore liberista, abbandonati dietro alla predominante logica del privato e del profitto, tanto i quarantenni di oggi quanto i giovanissimi si sono, in buona misura, creati una dimensione socio-politica del tutto nuova che prescinde dal consolidamento di una visione concreta e ideale al tempo stesso dell’Italia, dell’Europa e del mondo.

In questo senso, la “resilienza” dell’anti-ideologismo, come emblema di un individualismo esasperato da un rampantismo berlusconiano ultraventennale, ha superato i confini della credibilità.

Corruttele vastissime, utilizzo delle istituzioni per fini privati e societari, abusi ed usi delle leggi secondo convenienze del tutto particolari e sbeffeggiamento del senso e del bene comune ridotto a variabile dipendente dalle logiche mercatiste delle politiche dei governi soprattutto di centrodestra, ma non meno di centrosinistra, hanno completamente svuotato di significato l’essenza valoriale contenuta nella Costituzione, facendo apparire la Carta come un orpello, una contraddizione con una realtà dei fatti che andava in tutt’altra direzione.

Il contrasto tra l’enunciazione dei princìpi e la loro messa in pratica ha disegnato una fisiognomica della politica altra da sé stessa.

E per questo, dal berlusconismo al populismo grillino prima e renziano poi, per passare al salvinismo e al melonismo in ultima battuta, il salto è divenuto fin troppo breve. Intimamente una buona parte di coloro che sono al governo dell’Italia oggi sono fascisti, carezzano ancora l’esaltazione della disciplina ferrea, dell’ordine, del libro e del moschetto, della patria che deve risorgere dai colli fatali di Roma, di una idea di nazione che è tutto tranne che espressione di una simbiosi tra sovranità popolare e delega istituzionale.

Pubblicamente, per poter governare e rapportarsi col resto del mondo, devono mostrare l’altro volto: quello ufficioso, quello dell’accettazione di una ormai sempre più sottile formalità fatta tanto di galateo rappresentativo delle cariche che ricoprono quanto della concretezza delle norme che tocca loro rispettare perché non hanno, almeno non ancora, la forza per sovvertire completamente l’impianto costituzionale della Repubblica.

E tuttavia ci stanno provando alacremente. Cosa altro è il “premierato” se non l’esaltazione del ruolo del potere esecutivo a discapito di quello legislativo del Parlamento e della terzietà del Quirinale?

Per poterlo realizzare, Giorgia Meloni ha bisogno dell’apporto di una Lega che oggi festeggia l’approvazione della calderoliana legge sull’Autonomia differenziata, per cui le regioni più benestanti potranno dare ai loro cittadini una qualità della vita migliore e quelle centro-meridionali, oggettivamente meno virtuose dal punto di vista delle prestazioni essenziali. Una divisione oggettiva del Paese dentro una cornice di unità ispirata ad un presidenzialismo rinchiuso nell’unicum mondiale del premierato.

Il potere di scioglimento delle Camere, che non dovessero dare la fiducia al governo per due volte o che minacciassero di sfiduciare l’esecutivo, passa direttamente dalla Presidenza della Repubblica a Palazzo Chigi e pone quindi il Parlamento sotto il ricatto diretto del premier eletto dai cittadini.

Un premier che, quindi, non sarà più sotto il controllo delle assemblee legislative ma solo di sé stesso e che, forte dell’investitura popolare, potrà rivendicarne in qualunque momento la primazia rispetto alle rimostranze degli altri rappresentanti della Nazione.

Giorgia Meloni, del resto, sa che questa è forse l’unica occasione che le si presenta, come leader di una formazione politica nata dal post-fascismo e che ha rimesso la fiamma tricolore del MSI nel suo simbolo per rivendicarne apertamente una continuità (“non rinnegare, non restaurare“, diceva Almirante un tempo…), per arrivare il più vicino possibile a quel progetto di trasformazione dello Stato repubblicano nato dalla Resistenza che allontani lo stesso dai valori, dalle fondamenta costituzionali.

Imprigionata nei doveri del suo ruolo di capo del governo italiano, consapevole del fatto che, se le istituzioni europee vogliono, la caduta in disgrazia dell’esecutivo di destra-destra è pressoché certa, Meloni istruisce tutti i suoi ad un doppio ruolo: vizi privati e pubbliche virtù. I complimenti alla sua gioventù nazionale sono l’accoglienza di un nuovo corso che ispira al vecchio ciarpame fascista e che non è solamente folklore cameratesco, bisogno di identitarismo e sfogo da campo Hobbit.

Chi ci governa ha la convinzione che si vivrebbe meglio in una Italia con soltanto gli italiani. Ma non si può fare. Ed ancora: che si vivrebbe meglio se i froci (così li pensano e li chiamano i post-neofascisti privatamente – e qualche volta anche pubblicamente) e tutti gli altri invertiti facessero le loro porcherie chiusi in casa o in qualche motel a ore e poi tornassero alla loro vita quotidiana da perfetti finti eterosessuali.

Ed ancora: che si vivrebbe meglio se ci fosse più ordine, disciplina e se si potesse controllare ancora di più l’informazione che, quindi, passerebbe dall’essere tale ad essere un bollettino di governo. Quindi, quattro begli schiaffoni ai manifestanti che tornano dal rendez-vous delle opposizioni, insomma, ci stanno. Così come ci stanno i busti di Mussolini in case private o, a volte, in uffici di dirigenti scolastici o di polizia.

Così come ci sta la candidatura di un personaggio che sostiene algoritmicamente, seguendo delle logiche sillogistiche che farebbero rabbrividire Aristotele in persona, che la statistica è la misura di un po’ tutte le cose e che, quindi si può tramite il concetto di maggioranza stabilire ciò che è italiano e ciò che non lo è oggi; domani magari anche ciò che è giusto possa essere e ciò che invece deve essere proibito.

Non è concesso abituarsi a questa deriva politico-inculturale e antisociale. Perché la sottovalutazione della convergenza di fattori che possono apparire eterogenetici, quindi profondamente slegati tra loro e impossibili da sommare, è ciò che può produrre le condizioni formali su cui la sostanzialità del disagio economico e antisociale costruisce una sempre maggiore vicinanza al bisogno dell’uomo/donna forte al comando, con delega popolare e riduzione delle discussioni parlamentari.

La necessità di obbedire all’urgenza delle problematiche create dalle stesse forze conservatrici e liberiste un po’ di vari colori, crea le premesse per l’accettazione della restrizione degli spazi di libertà di opinione, di manifestazione, di civiltà in senso stretto e largo del termine: una compressione del diritto di cittadinanza attiva compensato con l’illusione – veramente tipica dei regimi autoritari e delle democrature – dell’elezione diretta del premier.

L’allucinazione rischia di diventare collettiva, anche se non totale, perché si assottiglia sempre di più la percentuale dei votati e, tra coloro che si recano alle urne (meno della metà degli elettori aventi diritto), la maggioranza è oggettivamente di destra e centrodestra.

Nella difficile campagna elettorale per le europee che si è appena conclusa, e i cui postumi si percepiscono tutti quanti proprio nell’accelerazione dei progetti eversivi delle forze conservatrici e reazionarie al governo del Paese, uno dei concetti maggiormente snobbati è stato quello di riportare al voto chi non vota da tempo o ha smesso di votare recentemente.

La logica dell’alternanza qui non vale più, anche se l’indirizzo dei votanti è polarizzato su due grandi blocchi: maggioranza da un lato e opposizioni di centrosinistra dall’altro (discorso a parte per l’esiguità del centro-centro renziano e calendiano). Se occorre, come è necessario, recuperare alla vera libertà democratica la partecipazione popolare, dovremmo ragionare oltre lo schema bipolare.

Difficile, certo, poterlo fare mentre si ripresenta di elezione in elezione il fantasma delle destre compatte e, soprattutto, con leggi elettorali che, se non impongono, comunque invitano caldamente all’amalgama piuttosto che alla valorizzazione delle differenze e delle minoranze.

In questa torsione antidemocratica la possibilità di diventare maggioranza politica è anche possibile, come dimostra il caso di Fratelli d’Italia, ma comunque sempre relativa e comunque sempre in coalizione precostituita e preconfezionata da offrire agli elettori.

Il rovesciamento dell’attuale stato di cose, la cacciata del governo delle destre passa indubbiamente dal voto, ma la preparazione politica di questo viatico non può non poggiare su un consenso popolare che si ricompatta attraverso una proposta di salvezza nazionale che deve poter includere diritti sociali, diritti civili e diritti umani.

Senza la convergenza dei diritti, anche il dovere che si richiede ai cittadini, di esprimersi col voto per cambiare le cose, per salvare la Repubblica dall’aggressione antiparlamentare, premieristica ed esclusivistico-regionalista delle destre, sembra un mero rito che si conclude dopo i risultati usciti dalle urne.

Oggi è necessario unire le diversità anche più grandi e compattare le opposizioni politiche, sociali, sindacali, culturali in un grande fronte popolare che ponga un argine oggi e si prepari ad una offensiva democratica già domani. Fino a che i post-neofascisti avranno ancora qualche remora, subiranno ancora qualche inibizione dal complesso della Costituzione e dal ruolo del Presidente Mattarella, nonché dall’internità al contesto europeo, avremo anche noi margine di manovra.

Quando salteranno questi paletti, pure la possibilità di reagire socio-politicamente alla regressione illiberale e antidemocratica si farà più debole e fragile. Dal canto nostro, come comunisti, possiamo sviluppare una narrazione alternativa a quella del melonismo sulla retorica dell’interesse nazionale.

Ve ne è soltanto uno: quello pubblico. Non quello privato. Quello che guarda alla giustizia sociale e non alle garanzie per la grande impresa da maggiori tassazioni di profitti ed extraprofitti. Se non è possibile radunare tutte le opposizioni al governo sotto queste bandiere rosse e rosso-verdi, è certamente possibile fare la strada insieme. Per il momento.

Per archiviare quanto prima l’era Meloni e ridare alla Repubblica il suo vero significato: parlamentare, democratica, antifascista, fondata sul lavoro di tutti e non prigioniera dei privilegi di pochi.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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