(Foto di Cascina Bosco)
Dopo l’ultimo tragico e macabro episodio di morte sul lavoro si sono, al solito, scatenate le polemiche e le rivendicazioni sulla piaga del caporalato, con scioperi e proposte giuste che però temo non affrontino i problemi di fondo che questa organizzazione della società, così indiscutibile, inesorabilmente produce.
Così nel tentativo di analizzare l’essenza del problema ho riportato la mente a quando, studente, sono stato anche io bracciante per qualche mese alla mercé di un caporale.
Erano gli anni ’70 in Sicilia dalle parti di Canicattì, a raccogliere a raccina che cresce in modo sistematico e continuativo in un raggio di trenta chilometri dal centro del paese, in filari alti, quasi interamente dedicati all’uva da tavola Italia. Un residuo della trasformazione della Sicilia nel granaio d’Italia di mussoliniana memoria, un lucido esempio di devastazione del territorio in nome del progresso, dell’autarchia e della gloria nazionalistica.
Si stava seduti sul muretto della piazza principale verso le 6 di mattina aspettando i caporali che cercavano uperari per la giornata. Questa cosa di chiamarci operai era una cosa che lo studente del Classico non capiva perché i suoi professori gli avevano insegnato che gli operai sono quelli della fabbrica, quelli che lavorano i campi sono contadini.
La successiva esperienza mi fece capire che la parola era quella giusta: nella vigna vigeva una struttura industriale, operai semplici, operai specializzati, capireparto, padroni e padroncini che nulla avevano a che vedere con la visione comunitaria della vecchia agricoltura.
Questa esperienza e la sua comprensione mi fanno pensare che sia la struttura industriale che l’agricoltura ha intrapreso dalla fine dell’800 a oggi, contemporaneamente all’industrializzazione di tutta la società, sia il nocciolo della questione.
Il capitalismo massimizza ed efficentizza la produzione con l’obiettivo di ottenere il massimo profitto con il minimo sforzo. In questo il progresso tecnologico dà una mano ma solo il progresso sociale può garantire che le condizioni di lavoro siano migliori. E se su questo la tremenda forza dei lavoratori organizzati ha prodotto grandi avanzamenti dobbiamo però riconoscere che questa lotta è lontana da essere finita perché anche in una società sostanzialmente terziarizzata, dove gli operai sono diventati esigua minoranza, ancora sussistono tassi intollerabili di morti sul lavoro, situazioni indecenti di sfruttamento, ora basato essenzialmente sulla mano d’opera proveniente dal Sud del mondo, quel sud a cui son state derubate le materie prime, dove la cultura industriale ha prodotto le devastanti monoculture che hanno fatto a pezzi l’economia di sussistenza che esisteva precedentemente.
Una volta di più parliamo di un modello di “sviluppo” che ha sviluppato profitti ma non ricchezze umane, distribuite. E’ lo stesso modello che ha violentato la Terra e che mette a rischio l’abitabilità del pianeta per gli Esseri Umani (le lucertole non paiono essere preoccupate e da tempo che se la cavano nelle peggiori condizioni…).
Ragionevolmente molti Esseri Umani stanno mettendo in discussione questo modello e sperimentando, per esempio nel campo agroalimentare, nuove forme di coltivazione e di organizzazione sociale, ben sapendo che le due cose vanno di pari passo, perché i cambiamenti esterni e interni camminano insieme.
Qualcuno lo chiamerà un ritorno al passato ma non è così perché la maggior parte di questi esperimenti attingono anche a tecnologie moderne e rivisitano in chiavi nuove vecchi saperi.
Per esempio i nostri amici che coltivano riso in pianura padana lo fanno con sistemi ingegnosi di rigenerazione naturale del terreno, senza usare pesticidi ma con una ricerca altamente tecnologica degli antagonisti naturali di certi parassiti; e la resa finale del prodotto è del 90% di quello industriale, per rispondere subito alla critica di chi dice che usando metodi più rispettosi dell’assetto idrogeologico si perde in quantità in modo importante.
Così, una volta di più, vogliamo sottolineare che il problema centrale, urgente ed attuale, è quello di cambiare radicalmente gli elementi di fondo: il modo di produzione, le relazioni lavorative, le relazioni umane.
Non ci possiamo aspettare che questo avvenga da una classe politica e industriale preoccupata di altro e ormai insensibile. Men che mai possiamo attenderlo dalle banche e dalla speculazione finanziaria che tesse le sue trame dietro i politici e gli industriali. Dobbiamo giustamente rivendicare diritti e denunciare ingiustizie ma lavorare per costruire dal basso, fin da subito, un nuovo mondo possibile: ecologista, umanista, basato sul bene comune e la solidarietà. Ogni passo che facciamo in questa direzione è un passo verso il Nuovo Mondo necessario che si sta delineando dietro la caduta di questo decadente, antiumano, insensibile e gretto.