La Commissione europea ha avviato la procedura per deficit eccessivo nei confronti di sette paesi, tra cui l’Italia, rievocando così il fantasma dell’austerity. Tuttavia, nelle condizioni attuali, la ricomparsa di politiche orientate al contenimento della spesa pubblica è qualcosa di più di un semplice ritorno: questo si confronterà con lo spostamento a destra del baricentro politico in Europa e con il regime di guerra globale

di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi

Il ritorno della logica dell’austerity nel quadro della politica economica europea era atteso. La Commissione europea il 19 giugno ha reso nota la lista dei sette paesi (Italia, Francia, Belgio, Malta, Polonia, Slovacchia e Ungheria) il cui il rapporto deficit/PIL nell’anno in corso supererà la soglia del 3% prevista dal Trattato di Maastricht e per i quali si attiverà la nuova procedura per “deficit eccessivo”. Se la decisione è risultata per molti versi prevedibile, non si può dire altrettanto delle implicazioni politiche future, soprattutto dopo il voto europeo. Siamo ancora in attesa di comprendere i nuovi equilibri della maggioranza di Bruxelles e la composizione politica della nuova Commissione, ma crediamo si possa iniziare a dire che questo atto segna un ulteriore passo nella direzione della convergenza tra neoliberalismo e conservatorismo post-fascista.

Il ritorno della logica dell’austerity, infatti – in questa congiuntura e con alle spalle la stagione politica pandemica – non può semplicisticamente essere trattato come una sorta di déja vu, nient’altro che il ritorno a una generalizzata politica fiscale restrittiva del pre-Covid. C’è molto di nuovo, che interroga la nuova costituzione materiale europea nel regime di guerra globale.

La decisione della Commissione rappresenta la prima attuazione delle nuove regole fiscali comunitarie entrate in vigore ad aprile. Regole che hanno modificato il Patto di Stabilità e Crescita introdotto nel 1997, più volte oggetto di revisioni nel corso degli anni, fino all’ “eccezionale” sospensione tra il 2020-23 nel contesto pandemico e della crisi energetica, contemporaneamente alla promozione del Next Generation EU. Qualcuno lo aveva entusiasticamente definito come un “momento hamiltoniano” della politica economica europea: la materializzazione di una “giuntura critica” e la rottura definitiva della continuità. Più realisticamente, invece, “rottura” e “continuità” sono stati due aspetti della crisi del neoliberalismo che hanno convissuto sin dall’inizio anche nel progetto politico di un green new deal europeo, oramai in crisi.

Secondo le nuove regole fiscali i paesi che violano i parametri su deficit e debito pubblico sono adesso tenuti a elaborare (sotto il controllo della Commissione) piani di rientro pluriennali di quattro o sette anni, a differenza dei piani con obiettivi annuali di disavanzo previsti dalle vecchie regole, oramai riconosciuti anche dal FMI come “acceleratori” della recessione. Questa modifica, come evidenziato da più parti, non risolve certo il problema della natura pro-ciclica delle politiche fondate sulla logica della disciplina di bilancio.

In un contesto segnato dal rallentamento dell’economia tedesca, l’applicazione concomitante di sette piani di rientro non potrà che produrre un ulteriore rallentamento dell’economia, anche a causa di effetti di spillover: il rallentamento francese, impatta su quello italiano, che si ripercuote su altri paesi e così via.

A ciò va aggiunto che in un quadro già segnato da alti tassi di interesse, non è escluso che i piani di recupero potranno favorire logiche speculative sui mercati dei titoli pubblici emessi dai paesi sotto controllo della Commissione. Ciò potrà comportare un nuovo aumento degli spread, ma soprattutto l’ulteriore incremento dei tassi di interesse collegati ai bond di questi paesi non farà altro che accentuare la disciplina di bilancio, richiedendo nuovi tagli alla spesa pubblica per far fronte alla spesa per interessi.

Secondo le stime fatte circolare informalmente dalla Commissione l’aggiustamento “selettivo” richiesto all’Italia corrisponderà a una contrazione complessiva della spesa molto elevata, pari a 13 miliardi annui. C’è molta attenzione da parte della Commissione a far passare le nuove regole “selettive” come meno dure rispetto a quelle sperimentate nel decennio 2009-2019. Lo si deduce dalle parole dello stesso Commissario Gentiloni quando afferma: «Non dobbiamo confondere la cautela nella spesa con l’austerità». Il principale motivo addotto dal Commissario europeo è la compresenza del richiamo alla riduzione della spesa per i paesi con debito e deficit alti e al contempo il massiccio piano di investimenti pubblici provenienti dall’Ue: «Serve, da un lato cautela della spesa, e dall’altro moltiplicare gli impegni per gli investimenti del PNRR. […] Gli investimenti pubblici in Europa non stanno diminuendo. […] E questa non è austerità». Seppure sia innegabile tale novità, occorre però ricordare, da un lato, che buona parte dei fondi del PNRR sono a debito (122,6 miliardi circa, pari al 64% del totale del piano). Inoltre, che il piano di investimenti determini una crescita tale da ripagare il nuovo debito contratto è tutt’altro che scontato. Dall’altra parte, quello del PNRR è un piano di investimenti di carattere infrastrutturale che, soprattutto nei settori della sanità e del Welfare, non comporta un corrispondente piano di assunzioni nel settore pubblico (di fatto impossibile).

Nelle condizioni di un nuovo impulso alla riduzione della spesa pubblica ordinaria questa contraddizione si tradurrà in una privatizzazione secca di parti del sistema sanitario e del Welfare, devolvendo ulteriormente sfere di competenza statuale al settore privato chiamato ora a gestire intere funzioni pubbliche.

Come si può facilmente intuire una delle conseguenze della logica “selettiva” impressa nelle nuove regole fiscali è quella di riuscire a combinare l’austerità, soprattutto sulla spesa per Welfare, con una spesa pubblica espansiva su altri capitoli, come sugli investimenti tecnologici e soprattutto il finanziamento dei sistemi di difesa, le cui spese sono completamente escluse dai calcoli adottati per misurare il rispetto dei parametri. Non a caso il Ministro delle Finanze Giorgetti, in una recente intervista, ha immediatamente chiarito che, «se la Commissione Europea mi dice che le spese per la difesa sono escluse dall’aggregato di spesa sotto controllo nella governance, allora lo possiamo fare. C’è una guerra in corso». Il regime di guerra che ha investito il continente europeo si tradurrà in altri termini in una vera e propria “economia di guerra” con un riorientamento della spesa pubblica al fine bellico.

Non è affatto indifferente che questa decisione della Commissione avvenga in un contesto politico nel quale gli equilibri di governo nei singoli paesi dell’Unione ha visto l’affermazione di formazioni della destra estrema. Questa novità non va sottovalutata. Occorre ricordare che la destra – dopo la sconfitta del ciclo di lotte negli anni Dieci e delle ipotesi politiche di sinistra – è cresciuta nel decennio austeritario attraverso la proposizione di un discorso politico sia anti-establishment che fortemente antieuropeo.

Oggi, l’affermazione del discorso neo-sovranista ha però quasi completamente abbandonato il suo originario euro-scetticismo. Dopo il fallimento della Brexit i più importanti partiti dell’estrema destra europea – ad eccezione forse della tedesca AfD – hanno infatti dismesso l’opzione dell’uscita dall’Ue. Nella necessità di stabilire una nuova istanza di ordine dentro il perimetro e le compatibilità dell’Unione e a condizione (almeno per una buona parte della sua compagine) di mostrare lealtà con l’asse atlantico, si apre l’effettiva possibilità di una ricomposizione tra conservatori e liberali nella governance europea.

Mentre gli uni possono trovare una garanzia per la propria assimilazione e legittimazione nello spazio politico europeo, gli altri possono contare su forze capaci di imporre l’economia di guerra in un frame ideologico non più tecnocratico, ma decisamente sciovinista ed etno-nazionalista. In questo quadro non va neppure sottovalutato un aspetto drammatico della storia europea. Come ha mostrato Clara Mattei in un suo recente libro intitolato Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, dopo la Prima guerra mondiale l’austerità che definì la politica economica negli stati dell’Europa come strumento per disciplinare le classi lavoratrici fu una base essenziale per la legittimazione delle formazioni fasciste di fronte al liberalismo in crisi.

In Italia, il Governo Meloni è consapevole che dovrà passare per la strettoia delle nuove regole fiscali imposte dall’Ue e che da lì passerà la sfida più grande per la conservazione del consenso. Eppure, quando a settembre dovrà concordare con la Commissione le misure da adottare per il piano di rientro, la tensione contraddittoria tra l’aumento delle spese militari e la restrizione per quelle sociali, ambientali e sanitarie diventerà più lampante e stridente. Da quella contraddizione se ne potrà uscire solo contestando quel nesso che lega strettamente la logica austeritaria a quella della guerra.

Immagine di copertina wikimedia commons

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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