Non ha mosso rilievi di costituzionalità, non ha mandato messaggi direttamente al Parlamento. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha scelto una via più diretta ancora per parlare di democrazia e di equilibrio dei poteri tanto alla maggioranza che governa quanto alle opposizioni e alla Nazione nella sua interezza.

Lo ha fatto dopo un lungo silenzio, oltrepassando il voto per le europee e lasciando alle meditazioni estive di tutte e tutti le riflessioni sui tentativi di modificazione della Costituzione in senso premieristico, nella più generale considerazione di un principio di esclusività della maggioranza che avrebbe, a quel punto, tutti i diritti legali per farsi valere come prima depositaria, quasi esclusiva, dell’intera volontà popolare.

Mattarella bacchetta le forze politiche su un punto per niente secondario rispetto al più ampio spettro delle ipotesi di controriforma tanto delle istituzioni democratiche quanto di leggi elettorali e di nuove intersezioni tra queste e l’equipollenza del voto di ogni singolo cittadini: nel nome della governabilità, dice il Presidente, non è pensabile l’instaurazione di un decisionismo di maggioranza che, per quanto possa stabilizzare l’azione dell’esecutivo, sarebbe una anomalia.

Nel corso degli ultimi anni, dalla crisi della Covid-19 in avanti, ma anche precedentemente, il ruolo delle Camere è stato spesso marginalizzato da un interventismo governativo che ha decretato certamente con una più che comprensibile urgenza, ma che ha anche abusato di questo potere di intervento diretto nelle leggi del Paese e, quindi, nella vita dei cittadini.

Sommandosi ai precedenti, voluti, tentativi renziani di mettere Palazzo Chigi al centro dell’agire della politica nazionale, i contraccolpi si sono fatti sentire nel rapporto di sempre meno fiducia tra popolazione e palazzi istituzionali.

La crisi economica e poi l’aprirsi degli scenari di guerra hanno messo un carico pesantissimo sull’ipoteca delle vite di ognuno nella prospettiva di un futuro sempre più incerto: tra precarietà lavorativa, disoccupazione, impossibilità di curarsi, dimagrimento salariale e licenziamenti a tutto spiano in grandi settori produttivi, la facile retorica populista e conservatrice delle destre ha veleggiato sull’onda del nemico, non di classe, ma etnico-culturale da individuare.

Una delle leve per estendere la propria base di consenso è stata, per l’appunto, prima con il salvinismo e poi con il melonismo, l’attacco al fenomeno migratorio, il paventare la “sostituzione etnica“, l’”invasione” da fermare prima con il blocco navale e l’affondamento delle navi e dei barconi; poi, una volta passati dal ruolo di opposizione a quello di maggioranza di governo, con decreti che hanno costretto le ONG a traghettare i profughi in porti sempre più disagevolmente lontani dal primo punto di sbarco utile e sicuro.

La destra, una volta ottenuto il governo del Paese, emancipatasi dal berlusconismo grazie al berlusconismo stesso, avendo imparato la lezione del fallimento salviniano, ha puntato tutto su una politica ambivalente: arrivare ai propri punti di programma, che includono da sempre securitarismo, ruolo centrale del governo rispetto al Parlamento, presidenzialismo, proibizionismi vari e leggi speciali, mediante gli strumenti democratici.

Esaurendo così in parte il ruolo a tutto tondo di un regime repubblicano che, per quanto claudicante, si autotutelava da tentativi eversivi.

Se si sommano tutte le azioni del governo Meloni, da due anni a questa parte, il peggioramento dello standard di vita degli italiani è sotto gli occhi di tutti: dal potere di acquisto al diritto all’informazione libera e plurale; dalla sanità alla scuola pubblica; dalla tutela del patrimonio ecosistemico, naturale e artistico della Nazione alle privatizzazioni incentivate pur contro il parere della stessa Unione Europea. Il caso dei balneari è qualcosa di davvero tristemente spettacolare…

Non c’è stata, in due anni, una sola espressione di riforma strutturale concertata con l’opposizione che, invece, è descritta come un insieme di forze che si esprimono con «toni da guerra civile».

Chi governa l’Italia dovrebbe avere una doppia forma di rispetto che sia, quindi, nella pratica la sostanza di una vicendevole, seppure aspra, dialettica: quello per le persone che sono state delegate a rappresentare le comunità locali e l’intero Paese nel consesso parlamentare; quello per le figure istituzionali in rapporto all’interesse pubblico e non privato.

Su questo piano la maggioranza copiosamente incespica, zoppica, traballa ma non molla. Perché boia chi molla rimane pur sempre, anche se vissuto nell’ancestrale interiorità dei bei tempi che furono, il grido di battaglia.

E la battaglia oggi i postfascisti la fanno sapendo di trovarsi in una occasione storicamente unica: il governo del paese. Non sono i comprimari del berlusconismo, come un tempo. Sono loro a dettare l’agenda e a ricattare in qualche modo gli alleati di governo indeboliti dalle tornate elettorali.

Tanto è vero che il ricorso alle urne viene fatto velineggiare tra le stanze dei palazzi governativi e ministeriali: caso mai qualcuno tentasse sempre di prendere posizioni oltranziste che mettano in imbarazzo la premier e la “sua” maggioranza, il ricorso alle urne non è per niente escluso.

Indubbiamente questo metterebbe indietro il conto alla rovescia su quella madre di tutte le riforme che, per Giorgia Meloni e il suo partito, è e rimane il premierato. Si azzererebbe tutto? Si ripartirebbe daccapo?

Forse è fantapolitica. O forse no.

Sta di fatto che il monito di Mattarella sembra essere arrivato nel momento in cui si apre un periodo estivo caratterizzato dalla raccolte delle firme contro la Legge Calderoli sull’autonomia differenziata e, quindi, prenderà il via anche la costituzione dei comitati contro il premierato e il tentativo di trasformare la Repubblica in una autocrazia dissimile dal semipresidenzialismo alla francese, con tratti polacco-ungheresi, ma che rimarrebbe sempre e comunque un vero e proprio caso isolato al mondo.

Il richiamo del Presidente della Repubblica è una sottolineatura critica che rimane al di qua dell’ingerenza nei confronti dell’azione di governo, che una parte della destra rimprovera al Quirinale, seppure vantandosi di possedere di un certo garbo all’altezza del ruolo istituzionale che hanno assunto a Palazzo Chigi. Del resto Mattarella è il garante dell’unità nazionale proprio perché è il laico nume tutelare della Costituzione.

Se nota una stortura, opportunamente deve richiamare l’attenzione con messaggi che, anche indirettamente, parlando a tutti mostrano chiaramente dove e perché il Capo dello Stato è intervenuto.

Lo ha fatto ad un convegno in cui si parlava del cuore della democrazia e, allo stesso tempo, della democrazia che sta a cuore, mettendo in evidenza i “limiti” del potere, contrapponendoli quindi ad una preservazione della sostanza dello stato di diritto e della Legge come strumento di inclusione e non di pelosa circoscpezione.

Elevando per un attimo il concetto stesso di “democrazia” dalla moderna interpretazione che ne è stata data da almeno quattrocento anni a questa parte, il Presidente Mattarella ha esteso il discorso alla formulazione di una idea complessiva di società che non si esaurisce nelle istituzioni, per quanto democratiche possano essere e possano dirsi. Non è sufficiente una forma di governo diversa dalle autocrazie e dalle dittature a fare di un popolo quello che potrebbe chiamarsi una “nazione libera e indipendente“.

Per quanto il voto premi sempre una coalizione elettorale piuttosto che un’altra, un partito rispetto ad altri, e per quanto il risultato ottenuto possa dirsi “maggioranza“, sarà sempre e soltanto la maggioranza di una minoranza.

A meno che non ci si trovi davanti a cifre da partito unico, fasciste per il primo tempo del Novecento, bulgare – si diceva – per la seconda parte del Secolo breve. Il messaggio è cristallino: nessuno può dirsi rappresentante della volontà di tutto un popolo. Può affermare di aver vinto le elezioni e di avere, quindi, la delega, con voto di fiducia del Parlamento, per amministrare il Paese.

Ma non ha un mandato per agire come se l’opposizione fosse un accidente, evitando il confronto con la carta stampata e le tv che non sono direttamente schierate con l’esecutivo e la sua maggioranza; così come non ha il diritto di irridere chi la pensa in modo diametralmente opposto e, quindi, difende il valore fondante della Repubblcia: l’antifascismo che è sinonimo, questo sì, di democrazia.

Mattarella non bizantinizza le sue parole e va diretto ai punti che intende evidenziare: l’assolutismo, come autorità senza un limite, è di per sé una prevaricazione. Serve una “coscienza dei limiti” che viene invocata proprio perché la politica di maggioranza sembra aver smarrito questo preambolo di vita comune, di condivisione dei valori.

O forse non l’ha mai veramente avuta, se ci si riferisce al passato della storia missina che, in qualche modo, ritorna simbologicamente nella fiamma che sta alla base del contrassegno elettorale di Fratelli d’Italia e che richiama l’estraneità di quella forza politica dall’”arco costituzionale” fondante la Repubblica Italiana. La gravità in cui versa la politica italiana è data anche dal fatto che tocca sempre ritornare su concetti che dovrebbero essere banalmente elementari per un popolo come il nostro.

La nostra storia nazionale è lì a suggerirci ogni giorno pregi, difetti, gravi infamie e nuove redenzioni attraverso cui lo Stivale è passato nel corso di due secoli e mezzo, dai primi anni del Risorgimento fino ad oggi. Ma la lezione della Storia è insegnabile se – come ha opportunamente detto Alessandro Barbero – ci sono scolari che la vogliono apprendere. Altrimenti somiglia ad una sorta di iconografia che viene utilizzata quasi sempre agiograficamente.

Per alibizzarci, per farci sentire mondi e netti, privi di qualunque peccato originale o contemporaneo che riguardi la coazione a ripetere comportamenti da cui, per l’appunto, scopriamo di continuo di non avere imparato niente. Non solo – avverte Mattarella – la democrazia non può dirsi una “conquista per sempre” ma, aggiungiamo noi, nessuna conquista può dirsi al sicuro se non se ne preservano i presupposti fondamentali.

Ed i fondamentali per la nostra Repubblica si chiamano: antifascismo, uguaglianza, giustizia sociale. Perché non è sufficiente votare per sentirsi ed essere liberi. Bisogna anche essere liberi dai bisogni materiali e poter vivere dignitosamente e non, per fare un esempio davvero terribile ma emblematico, morire stritolati da un macchinario ed essere abbandonati come pezzi di un ingranaggio ormai inservibili ai bordi della propria casa.

Lasciati lì, agonizzanti, a morire nell’atrocità di una crudeltà e di una indifferenza che, per fortuna, non rappresenta la maggioranza degli italiani. Così come non la può rappresentare qualunque politica che tenti di giustificare quel caporalato che non è repubblica, ma nemico del mondo lavoro e quindi incostituzionale, immorale, incivile.

Ecco dove inizia la democrazia: dal rispetto delle fondamenta sociali. Ed ecco anche dove può finire: nell’esatto contrario…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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