La “carta von der Leyen” è, più che altro, quella che, nel mazzo delle deputate e dei deputati, dei gruppi parlamentari di Strasburgo e dei partiti che vi sono rappresentati, risulta meno debole rispetto alle altre entro il gioco baro di una politica europea che si ripresenta per niente cambiata rispetto alla legislatura precedente.

Se non fosse per la titubanza di Fratelli d’Italia sull’appoggio o meno alla ex e forse nuova presidente della della Commissione continentale, grandi novità non si registrerebbero affatto tanto sul piano della programmazione quanto su quello degli schieramenti di maggioranza.

Quel “tenersi in contatto” con la pupilla di Angela Merkel sta costando a Giorgia Meloni una parte della sua credibilità presso il suo stesso gruppo politico di conservatori, riformisti e, in special modo, con i patrioti appena costituiti.

Ed è anche il segnale di una debolezza davvero strutturale di una Unione Europea che si affida al gioco delle alleanze spurie pur di far sopravvivere la feroce economia di guerra unitamente alla promessa di una riedizione di quel gioco cinico e baro al risanamento ecologico che oggi prende un altro nome: “aziende pulite“.

I soliti quindici, venti anni per poterlo attuare e poi, tra qualche tempo, la smentita in corso d’opera e il gioco dell’oca ricomincia dall’inizio. Sempre dall’inizio, passando per qualche prigione, come a Monopoli, per non arrivare mai alla fine del traguardo.

Il resto sono, a partire dalla problematica epocale delle migrazioni, rafforzamenti energici dei trinceramenti dietro politiche che fanno dell’Europa la solita fortezza tutt’altro che impenetrabile. Condiscendente verso la circolazione globale delle merci, chiusa (o quasi) alla disperazione dei popoli.

Sulla guerra in Ucraina si ripete, ed anzi si accentua, il sostegno pieno alla politica imperialista nordatlantica e si approvano risoluzioni (votate anche dal PD) che auspicano attacchi di Kiev in pieno territorio russo. Se non è un modo per aumentare il rischio di guerra mondiale, di che cos’altro si tratta?

Nemmeno il terremoto delle elezioni transalpine ha dato una scossa su questo versante in chiave prettamente europea. Sembra che l’armata von der Leyen prosegua la sua marcia bellicista senza curarsi degli equilibri interni ad una Unione davvero precarissima.

Per tenere insieme una maggioranza che vada dai fascisti conservatori fino ai verdi ed agli ecologisti tedeschi ed italiani, le acrobazie parlamentari si dovranno sprecare: tenendo conto che i franchi tiratori sono sempre in agguato e che, già la volta precedente, Ursula von der Leyen se la cavò per soli sei voti.

Oggi si potrebbe ripetere quello scenario di compromesso ma, senza dubbio, con il peggiorativo della presenza di almeno una delle ali “estreme” che la presidente della Commissione dice di voler marginalizzare e tenere fuori dalla sua condotta di governo, dalla sua maggioranza.

Non è un mistero, poi, che all’interno dello stesso gruppo della famiglia popolare, cui appartiene il partito di von der Leyen, la CDU tedesca, vi siano parecchi malumori sulla sua permanenza ai vertici di Bruxelles.

Per primi i gollisti francesi hanno dichiarato di non volerla sostenere; mentre, paradosso dei paradossi, la sosterranno persino i deputati facenti riferimento da Europa Verde italiana. Come tutto ciò possa conciliarsi col programma con cui Alleanza Verdi e Sinistra si è presentata al voto di giugno, è una sorta di cavernoso mistero indecifrabile.

Ma le vie dei compromessi sono purtroppo infinite e i trasformismi politici sono, del resto, il riflesso condizionato di una serie di mutamenti economici e sociali che descrivono minuziosamente i cambiamenti profondi in senso alle nazioni che conservano rispettivi e singolari profili in questi frangenti: da qui, infatti, proviene la costruzione di una Unione Europea priva di una vera politica interna che sia il frutto di una condivisione tra i Ventisette, ma sopravvivente su un piano di sintesi che ha un carattere emergenziale.

E l’emergenza, si guardi un po’, ha sempre il carattere della stabilità della moneta, dell’Euro, e quasi mai quello della diminuzione delle grandi differenze disegualitarie tra i popoli del Vecchio continente.

La Storia avrebbe dovuto insegnare, almeno fino dal XVIII secolo, che tutto ciò che accade in Gran Bretagna, prima o poi, si ripercuote nell’intera Europa. Le disparità tra capitale pubblico e privato che si sono toccate oltremanica nella seconda metà del Novecento, per fare un esempio non trascurabile, sono state ugualmente registrate anche in Francia ed in Germania.

Oggi l’Europa della tanto declamata “programmazione economica” sul lungo termine, è in grado di stabilire su quanti capitali pubblici può contare e su quanti privati?

La Commissione guidata da von der Leyen ha eseguito, di concerto con la Banca Centrale Europea, una pianificazione che ha, con soldi pubblici, ipotecato le economie dei singoli Stati, vincolandoli a recuperi e pareggi di bilancio che hanno costretto ad un regime di austerità che, oggi, con le premesse che si leggono e si ascoltano avanti la probabile nuova nomina della presidente tedesca, non sembrano voler essere superate.

La crisi del 2008/2009, una vera e propria crisi finanziaria mondiale, ha sconquassato il capitalismo globale e ha posto i governi e le banche centrali davanti al dilemma già propostosi nel 1929: affrontare una nuova “grande depressione“, che questa volta avrebbe pregiudicato l’esistenza stessa del sistema, oppure creare quelle liquidità necessarie per tamponare le ferite ed evitare i tracolli continentali di interi blocchi strutturali?

Ciò che allora si considerò importante fu, con qualche cenno marxiano, un “ritorno allo Stato“, quindi una conversione pubblica di molti settori strategici dell’economia e della partecipazione quindi politica alla stessa.

Non c’è dubbio sul fatto che un dibattito di questa portata è stato anche solo possibile da accennare per la ragione data dall’importanza che gli Stati hanno nella complessità della modernità. Dalle relazioni interne tra i comparti economici in concorrenza tra loro, fino, ovviamente, alle grandi esportazioni e alle dinamiche di interdipendenza che si vanno a creare tra i differenti poli capitalistico-liberisti-finanziari.

La questione, ad esempio, dei dazi doganali da imporre a Cina e Russia (quest’ultima entrata nella lista nera per via della guerra), è un tema proposto nazionalisticamente da conservatori e patrioti, ma non è del tutto disdegnato nemmeno dai liberali.

Il freno maggiore viene dal fatto che è oggettivo il riconoscimento dell’importanza, sulla bilancia commerciale mondiale, del gigante cinese rispetto alla mediocrità europea e che, quindi, in sostanza, pur facendo la parte del potente continente che rinverdisce la sua millenaria Storia di conquiste nel mondo, l’Europa si ritroverebbe a vivere sotto l’effetto di un clamoroso boomerang.

E le sanzioni inflitte alla Russia, da questo punto di vista, parlano chiaramente: l’economia di Mosca non ha subito praticamente scalfitture, mentre l’Ucraina, per quanto armata fino ai denti e sostenuta dalla NATO per intero, è alle soglie di una sconfitta storica.

Per essere più concisi, il “ritorno allo Stato” non è nei programmi di Ursula von der Leyen, nonostante i socialisti e i progressisti di mezza Europa si apprestino a rivotarla come compromesso tra le parti, come perno di una stabilità continentale quanto meno nella stipula delle cosiddette “decisioni comuni“. Non esiste una vera politica ecologica senza una presa in considerazione di una svolta nel ruolo del potere pubblico sul terreno del rapporto con una economia che sia orientata nuovamente all’interesse comune.

Quali forme, poi, potrebbe oggi prendere una nuova stagione di “stato sociale” in Europa è quasi imprevedibile poterlo dire: le forze della sinistra che potrebbero ispirare un tentativo in questa direzione sono una minoranza, seppure non trascurabile.

Le forze socialiste sono compromesse col centro liberal-liberista e questo è ormai afferente ad una destra moderata che richiama la Commissione ad un ruolo di subalternità all’occidentalismo economico, finanziario, culturale e politico. Come possano i verdi italiani (ed anche quelli tedeschi…) sostenere un impianto liberista di questa fatta rimane un enigma.

Lo rimane nella misura in cui si considera progressista la lotta per il miglioramento delle condizioni eco-esistenziali di tutti gli esseri viventi e della Natura nel suo complesso.

Se invece il piano della compromissione prende il posto di quello del confronto, mediante un compromesso che non lascia ben sperare da nessun punto di vista, non soltanto si vanno smarrendo le ragioni di un ecologismo inseparabile dalle questioni sociali, ma si porta in dote al liberismo una lotta che, nelle comunità locali, è vera e propria preservazione di interi piccoli ecosistemi e, nel contempo, di contrasto a grandi opere che sono ecomostri particolarmente lucrosi per chi li approva e per chi li mette in essere.

I piani di gestione politico-economica dell’Unione Europea formulati da Ursula von der Leyen non ci parlano di una moderna redistribuzione delle risorse mediante una finanziamento maggiore dei servizi pubblici, dei redditi minori, dei settori essenziali dell’istruzione, della salute e delle pensioni. La centralità di tutto rimane l’impresa, il mondo imprenditoriale, piuttosto che quello del lavoro.

E se anche il suo programma contenesse un rimaneggiamento positivo del “new green deal” (il nome è altisonante e inversamente proporzionale nella sua applicazione rispetto alle speranze che esprime), ciò sarebbe sufficiente a far approvare una serie di politiche antisociali dettate dall’alta finanza e dalla BCE?

Ciò che questi liberal-liberisti fingono di non capire, perché sanno molto bene dove vogliono andare a parare, è che lo Stato sociale modernamente inteso è riconsiderabile, grazie agli esempi del passato, su un piano attuale senza che questo debba necessariamente entrare in netto, aperto contrasto con il sistema nella sua interezza.

Il superamento del capitalismo – dovremmo esserne tutti consapevoli – non può avvenire dall’oggi al domani grazie ad una situazione empirica di fatto. Si tratta di un processo lento ma sempre più necessario (se non irreversibile, se si guardano attentamente gli sconvolgimenti naturali).

Per poter arrivare ad un compromesso che indirizzi verso un mutamento progressivo, è ovvio che si deve fare una scelta: dalla parte della grande massa dei salariati e dei più deboli e sfruttati oppure dalla parte delle imprese, della finanza e del capitale?

L’Europa di von der Leyen ha già scelto da che parte stare. Ed è per questo che la lotta delle sinistre e dei sindacati non può che essere altrettanto radicale e, vogliamo dirlo?: “rivoluzionaria“. Nel senso che deve stravolgere e capovolgere ciò che oggi è l’asse liberista e conservatore di una Europa che riesce a catturare il consenso delle sinistre moderate e degli ecologisti.

L’anticapitalismo dovrebbe, anche e soprattutto sul terreno di confronto delle politiche europee, essere letto non come l’antitesi di qualcosa, ma come la proposta necessaria, evolutiva e liberatoria delle energie e delle potenzialità sociali, economiche, culturali e umane dei popoli che, invece, devono sottostare ai dettami di una finanziarizzazione dei bisogni secondo le variabili dipendenti dalle grandi concentrazioni bancarie e del mercato.

A von der Leyen e alla sua maggioranza “Ursula“, nuova o vecchia che sia, si può soltanto dire chiaro e tondo un deciso, irreprensibile e forte: NO.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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