Massimo Bussandri

La Legge Calderoli non nasce come un fungo nel deserto, si colloca dentro una precisa idea di Paese del Governo Meloni e delle forze politiche che lo sostengono. Un disegno di Paese chiarissimo: non solo anti-costituzionale, cioè antitetico ai principi e ai valori della nostra Costituzione, ma “pre-costituzionale”, perché ispirato alla considerazione della Costituzione Repubblicana come un accidente della storia. D’altra parte la Presidente Meloni lo aveva dichiarato in trasparenza al Congresso nazionale della Cgil di quasi un anno e mezzo fa, davanti a una platea di mille delegati: nel suo universo valoriale la data fondativa e fondamentale del nostro Paese è il 17 marzo 1861, data di costituzione ufficiale del Regno d’Italia. Al netto della contraddizione (forse solo apparente) con lo sponsorizzare adesso un’idea di Italia delle piccole patrie, con quell’affermazione Meloni ha voluto lanciare due messaggi molto chiari: primo, tutto ciò che è venuto dopo il 17 marzo 1861 ha piena legittimità nella storia del Paese, compreso il ventennio fascista; secondo, la Costituzione Repubblicana non è la carta fondamentale della nostra Repubblica ma rappresenta la vittoria momentanea di una parte e di un pensiero politico (o di un insieme di pensieri politici), e come tale può essere messa in discussione, stravolta, mandata in soffitta.

Se non partiamo da questa premessa non riusciamo a comprendere fino in fondo il pericolo rappresentato dalla Legge Calderoli, purtroppo già approvata, e dal disegno di legge sul “premierato forte” il cui iter parlamentare è già avviato. E se mettiamo in fila gli altri provvedimenti più importanti finora adottati dal Governo Meloni (le due leggi di bilancio e i due DEF messi in campo, la delega fiscale, il cosiddetto “decreto Cutro”, il cosiddetto “decreto primo maggio”, il decreto su salari e contrattazione) il progetto di Paese che emerge e si articola in tre o quattro punti è esattamente questo: 1) le politiche economiche e sociali affidate al mercato e ai grandi players privati, in ossequio all’assunto neo-tatcherista con cui la Presidente del Consiglio ha caratterizzato il suo discorso d’insediamento: “non disturbare chi produce” (non un messaggio di sano pragmatismo, ma l’idea di consegnare il Paese “mani e piedi” alle imprese, tanto che le risorse del PNRR che il Governo non è riuscito a spendere le ha infilate direttamente in quelle tasche); 2) al Governo e allo Stato il compito di definire il tratto identitario della “nazione” (come la chiamano), sempre più in chiave di “sangue e terra”; ciò che consente di esternalizzare facilmente le responsabilità (se le cose non vanno è colpa dell’Europa, è colpa dei migranti…); 3) il lavoro ridotto a fattore della produzione se non a merce (non solo l’autonomia differenziata apre il campo a venti contratti collettivi diversi per ogni settore, ma nella delega su salari e contrattazione c’è un’allusione esplicita alla contrattazione “adattiva”, la versione moderna e aggiornata delle gabbie salariali); 4) lavoratori e pensionati non soggetti titolari di diritti ma destinatari di politiche paternalistiche.

La sintesi di questo progetto è proprio il disegno di grande riforma istituzionale, e in parte costituzionale, che tiene insieme premierato forte e autonomia differenziata. Una grande riforma che da un lato vuole un esecutivo plenipotenziario, svincolato da ogni controllo parlamentare, titolare esclusivo del rapporto con le Regioni, con un premier che a quel punto sconfina nel cesarismo, e dall’altro Regioni formalmente dotate di maggiore autonomia e di più poteri decisionali, ma in realtà nella sostanza schiacciate dentro un rapporto tutto verticalizzato con il Governo e prive delle competenze e delle risorse per poter davvero gestire quel pacchetto complesso di materie. Prive delle competenze perché, con tutto il rispetto per le amministrazioni regionali, nessuna ha il know-how per affrontare in autonomia questioni, come alcune contenute nelle 23 materie delegabili, che hanno una complessità addirittura globale (pensiamo alla crisi climatica). E prive delle risorse perché la riforma del fisco contenuta nella delega fiscale e nei decreti attuativi finora messi in campo è tutta incentrata sulla riduzione della leva fiscale a esclusivo beneficio dell’impresa e del lavoro autonomo, riduzione che addirittura parte proprio dalle addizionali regionali e dall’imposta più tipicamente regionale che è l’Irap. E dietro questa riforma, dunque, si cela un ulteriore indebolimento politico e finanziario delle autonomie locali, dei comuni, delle città metropolitane, delle province, che sono il livello di democrazia più vicino ai bisogni dei cittadini.

Ecco allora che emerge il vero obiettivo che tiene insieme premierato forte e autonomia differenziata: lo smantellamento del perimetro pubblico del Paese, perché alla fine, in quel contesto, le grandi politiche pubbliche, le politiche sanitarie, le politiche dell’istruzione, le politiche dell’ambiente e dell’energia, perfino le politiche dello sviluppo urbano, non le determineranno certo le Regioni, le determinerà il mercato, le determineranno i grandi players privati. E anche qui riemerge, come nella delega fiscale, il grande patto politico e sociale su cui si fonda questo Governo: il patto che tiene insieme il “blocco sociale” più direttamente rappresentato dalla Meloni, quello della piccola impresa e di quella parte del lavoro autonomo uscito politicamente incarognito dalle grandi emergenze degli ultimi anni, in una specie di santa alleanza col grande capitale, con chi ha le leve di comando del potere economico e finanziario. E il patto ha più o meno esattamente questi contenuti: agli uni – il lavoro autonomo e la piccola impresa – la garanzia di pagare pochissime tasse o addirittura la garanzia dell’impunità fiscale; agli altri – il grande capitale – la prospettiva di fagocitare la sanità pubblica dentro il sistema delle assicurazioni private, la prospettiva di avere una scuola totalmente asservita alle esigenze dell’impresa e formatrice di soldatini obbedienti utili solo a produrre, la prospettiva di determinare in piena libertà il modello di sviluppo del Paese.

Non pensiamo che autonomia differenziata e premierato siano poi così confliggenti (come dicono alcuni anche nel fronte dei contrari). Certo nei due provvedimenti c’è un elemento di spartizione propagandistica tra Fratelli d’Italia e Lega, ma a ben vedere entrambi sono funzionali a un unico disegno, quello di una destra economica agguerrita che vuole distruggere il perimetro pubblico e fare a meno della democrazia. Un certo capitalismo, purtroppo dominante, ha bisogno tanto dell’autonomia differenziata quanto del premierato per inghiottirsi la sanità e la scuola e per indebolire sempre più il fronte del lavoro, mentre il cane che fa la guardia è un cane feroce. Quindi, mai come in questo caso è evidente come dietro una riforma istituzionale si nasconda in realtà una profonda riforma sociale di stampo reazionario; mai come in questo caso è evidente come modificare gli assetti istituzionali delineati nella Costituzione serva in realtà a cancellarne i principi ispiratori fondamentali. Ecco perché questa riforma è la sintesi del progetto di Paese “pre-costituzionale” di questo Governo: perché punta a costruire una nuova costituzione materiale di un Paese non più fondato sulla coesione geografica, sulla democrazia partecipativa, sulla centralità del lavoro e sull’impegno a realizzare l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini a partire dalla scuola, ma di un Paese fondato sulla divisione della società in padroni e subalterni. Esattamente in questo, anche se non indossano la camicia nera, le forze politiche che sostengono il progetto sono intrinsecamente fasciste. E se qualcuno pensa che la legge Calderoli sia un problema per il Sud, meno per il Nord, sbaglia di grosso; se qualcuno pensa che l’autonomia differenziata rappresenti la secessione delle Regioni del Nord, sbaglia di grosso. La Calderoli non è la secessione delle regioni del Nord, è la secessione fiscale e civile dei ricchi delle regioni del Nord e sarà una sciagura per lavoratori e pensionati anche nelle Regioni del Nord: perché lavoratori e pensionati continueranno a sostenere da soli il sistema fiscale e avranno in cambio meno diritti sociali e meno diritti di cittadinanza.

Ecco perché dobbiamo impegnare tutte le nostre forze per smontare quel progetto, e raccogliere sul quesito referendario abrogativo della Calderoli, già depositato, più di 500.000 firme valide e certificate di qui al 20 settembre (per essere pronti alla consegna in Cassazione entro il 30). È un impegno titanico, ma se ci arriveremo in fondo la prossima primavera avremo un’occasione unica: chiamare al voto i cittadini insieme sui quattro quesiti referendari sul lavoro proposti dalla Cgil (già in cassaforte) e sull’autonomia differenziata; cioè chiamare i cittadini a difendere e rilanciare il valore del lavoro, della democrazia, della coesione sociale e della solidarietà che sono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Sarebbe anche una bella risposta alla provocazione della Presidente Meloni, che volutamente al Congresso Cgil dimenticò l’altra data costitutiva del nostro Paese: il 25 aprile 1945, la data della rinascita morale e civile in antitesi a chi aveva gettato il Paese nell’abisso della guerra; la data che ci ha consegnato un Paese in cui la libertà e la democrazia si fondano sul lavoro, e sulla fatica e sulla dignità di chi per vivere deve lavorare. Se ci riusciamo la primavera del 2025 lancerà un ponte ideale con la primavera del 1945: lo dobbiamo a noi ma anche alla memoria di chi 80 anni fa ci ha permesso di vivere in pace e in democrazia, sognando un Paese di liberi e uguali.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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