Ciò che appare non sempre corrisponde a ciò che realmente è, ma nel caso di Joe Biden, purtroppo, i segnali di una inadeguatezza a ricoprire ancora il ruolo di Presidente degli Stati Uniti d’America erano ben visibili e non certo dalle sole ultime settimane. Se qualche inciampo, e non solo lessicale o concettuale, poteva essere stato interpretato come un disagio tipico di un uomo che stava per raggiungere gli ottant’anni, più seria si è fatta la questione per i democratici nel momento in cui, al primo faccia a faccia televisivo con Trump, lo smarrimento ha colto prima l’inquilino della Casa Bianca e poi l’intero gotha del partito dell’asinello.

La campagna elettorale per le presidenziali a stelle e strisce è da sempre una sporca faccenda: è contorta, aggressiva, fatta di colpi bassissimi. E questo quando si tratta di due contendenti che, se non altro per il rispetto formale che si debbono reciprocamente, si trattano duramente ma civilmente nei toni. Figurarsi cosa sarebbe potuta divenire con un Donald Trump che non ha risparmiato, e tutt’ora non risparmia, plateali e ripetuti insulti sul piano personale.

Senza tralasciare, quindi, la questione della salute fisica e mentale di Joe Biden. Il pericolo Trump, come spesso è toccato ricordare, spinge alla convergenza su un un unico candidato alternativo che lo rimane per il periodo della corsa verso il 1600 di Pennsylvania Avenue. Nel momento in cui si insedia nello studio ovale, la politica statunitense non diventa più sociale soltanto (si fa per dire…) perché è stato sconfitto il peggiore.

E non diviene nemmeno più pacifica, civile, umana, responsabile di quanto avviene intorno alla Repubblica stellata. In questi ultimi quattro anno di amministrazione Biden-Harris, non c’è stata una sola traccia di una tendenza all’inversione di marcia rispetto al recente passato ultraliberista dei governi americani e alla rivalutazione dell’unipolarismo come elemento teorico e pratico di una declinazione della concorrenza multipolare in nuove escalation imperialiste.

Non ci si illude, quindi, che Kamala Harris, designata da Biden alla nomina per la corsa presidenziale tra i democratici (con approvazione e benedizione dei precedenti clan presidenziali Clinton e Obama e approvazione anche di altri possibili concorrenti come Josh Shapiro), possa essere ciò che lo stesso Joe non è stato: un presidente di innovazione, di cambiamento radicale, di alternativa vera alle destre conservatrici del Grand Old Party e alla retorica patetica, presuntuosa e arrogante del magnate sfiorato dalla pallottola di Crooks.

Sgomberato il campo dalle falsi illusioni, resta però il problema di cosa dovrebbe fare un americano o una americana di sinistra, della middle o della working class che voglia provare ad unire l’azione vincente contro Trump ad un po’ di conseguente recupero di giustizia sociale e di diritti civili ed umani. Votare candidati minori che non hanno nessuna possibilità di concorrere all’elezione vera e propria e di sbarrare la strada al tycoon? Oppure non votare lasciandosi cadere nella rassegnazione dai tratti un po’ populisti e molto poco consolatori?

Gli istituti di analisi politica e i sociologi che se ne occupano da sempre sostengono, dati alla mano, che negli Stati Uniti d’America l’elettorato in fondo cambi molto poco campo, pur cambiando spesso opinione su una serie di tematiche che riguardano la quotidianità standard della vita e della sopravvivenza dell’americano medio. Dunque, chi votava democratico continua in larga misura a ripetere il suo voto, e così chi votava repubblicano. Poi, dicono sempre coloro che della materia ne sanno, che c’è un dieci per cento di elettorato che fa la differenza.

Qualcosa di più del cinque per cento e a volte meno delle due cifre. Una ristretta, esigua minoranza che non sta al centro dei due schieramenti e che non si identifica del tutto in un gruppo etnico piuttosto che in uno religioso o sociale. C’è della trasversalità anche qui, perché la società americana è davvero una complessità che è impossibile ridurre ad una alternanza tra due nette e precise visioni del Grande Paese e, così, anche del resto del mondo. E questa trasversalità include cattolici e protestanti, bianchi e neri, originari della vecchia Irlanda, dell’Africa dello schiavismo, del “cortile di casa” ispanico e portoghese.

Ma la partita delle presidenziali si gioca soprattutto, oltre che sulla concretezza numerica di un voto bislacchissimo (per cui può vincere un candidato presidente che ottiene meno voti del suo avversario…), sui finanziamenti che riceve chi concorre al più alto grado di comando della Repubblica federale. Forse anche per questo Biden (e la sua famiglia) hanno deciso di appoggiare Kamala Harris. Il legame tra presidente e vice impedisce di ritirare le somme che sono già state donate al primo nel momento in cui corre la seconda.

Nemmeno fossimo in prossimità del campanello della borsa di Wall Street, appena pubblicata su X la rinuncia bideniana, a profusione sono arrivati nuovi ingenti finanziamenti per Harris. Ciò dimostra quanto simultaneamente conti il potere economico e finanziario delle grandi multinazionali e delle corporazioni che si schierano rispetto al voto sincero del popolo americano. Un voto che rimane, con tutti i condizionamenti evidenti del caso, la base del consenso su cui si misura indubbiamente l’afferenza tra la politica del presidente e i suoi sostenitori.

Il ritiro dalla corsa presidenziale costa a Biden l’ammissione della senescenza in tempi in cui, invece dell’onore delle armi da parte repubblicana, in un GOP ormai prono al trumpismo come nuova teorizzazione del conservatorismo truculento e di grana grossa che, in parte, costringe i democratici anche più radicalmente progressisti e di sinistra a rincorrere la destra sul terreno delle controriforme (anti)sociali. La distinzione più netta, infatti, tra estrema destra americana e ciò che non le è direttamente assimilabile, che non le risulta afferente di netto, la si riscontra sempre sul piano dei diritti civili.

Biden e Harris in questi anni hanno certamente avuto un diverso approccio alle questioni del mondo del lavoro rispetto a quello che avrebbe fatto un Donald Trump che è la diretta incarnazione (e quindi emanazione) del liberismo tout court. Ma dietro alle politiche anche meno ostili ai grandi movimenti sindacali, alle lotte operaie e a quelle del ceto medio, aleggia sempre, senza soluzione di continuità la teorizzazione del minore intervento possibile da parte dello Stato nell’economia pubblica. Tanto che il concetto stesso di “pubblico” è completamente differente da quello che abbiamo (o avevamo…) noi in Europa.

Rielaborare e riattualizzare questa critica al Partito democratico USA non significa non vedere le differenze che intercorrono tra Kamala Harris e Donald Trump. E tuttavia rimanere prigionieri di un oblio per quanto riguarda la devozione del progressismo moderato e liberale dell’Asinello, non giova alla causa della critica dialettica per dare magari un giorno al PD statunitense un profilo molto più a sinistra di quello che oggi non vi si può rintracciare.

Alla luce di questa fioca ma necessaria luce sulle tante insufficienze del fronte progressista della grande Repubblica stellata, suonano non certo di conforto le dichiarazioni che un socialista democratico come Bernie Sanders ha fatto non molti giorni fa auspicando che, dopo quasi un mese di pressioni, Biden rimanesse in corsa per la Casa Bianca, giudicandolo «il presidente più efficace nella storia moderna del nostro Paese ed è il candidato più forte per sconfiggere Donald Trump, un demagogo e un bugiardo patologico».

Il senatore Sanders ha assolutamente ragione quando definisce Trump un demagogo e un bugiardo. Sul patologico si potrebbe discutere, perché il magnate ci fa, ma non ci è. Quindi ogni frase detta è pensata, calcolata e non esce mai dal novero della propaganda di bassissima lega al fine di attirare quel consenso che gli permetta di ritornare nello studio ovale e dettare da lì la legge del profitto a tutto tondo. Bernie Sanders esprime una valutazione sulla presidenza di Biden che forse solo un americano può dare, conoscendo appieno la realtà in cui si trova a vivere e operare.

Vista al di qua dell’Oceano Atlantico, l’America di Biden e Harris non è per l’appunto così diversa, economicamente, finanziariamente e in quanto a politica estera, così diversa da quella di Trump. Ma è probabile che noi ci inganniamo e diamo una valutazione viziata tanto dalle categorie della politica italiana ed europea, quanto dagli schemi interpretativi che abbiamo nel valutare i confini delle forze politiche. Gli statunitesi sono abituati a vivere i loro grandi partiti come contenitori delle più differenti tendenze.

Sanders lo dice da tempo: i democratici devono aprirsi ai lavoratori, ai giovani, agli attivisti di base e devono sviluppare una strategia che provi a sfuggire a quegli interessi di grandi aziende che investono nel partito dell’Asinello e che quindi da lui si attendono un riscontro assolutamente in termini di tutela prima di tutto dei profitti e degli enormi interessi capitalistici piuttosto che dei salari e del mondo del lavoro. Biden prima ed Harris ora avrebbero molto da imparare dall’esperienza di un Bernie Sanders che, invece, pure da indipendente, è stato marginalizzato, attaccato e relegato al ruolo di socialista sognatore.

La fase attuale dei rapporti di forza tra le classi sociali non nega la lotta che si sviluppa in grandi centri produttivi e che mostra tutta la frustrazione degli sfruttati moderni. Di questa frustrazione della classe lavoratrice i repubblicani hanno deciso di farsi pienamente interpreti, diffondendo dalle loro reti televisive e dai loro giornali, nonché dal tamburellare dei social e di Internet nel suo complesso, messaggi di divisione sociale che sono i pilastri della xenofobia che dilaga, del ritorno del disprezzo per il colore della pelle o per la lingua parlata.

Gli Stati Uniti somigliano, così, sempre meno ad una democrazia reale e sempre di più ad un grande Stato che intende mantenere la sua potenza globale, unitamente al braccio armato della NATO fin dentro il cuore dell’Europa ed ai confini della Russia e dentro l’enorme, orrorifico ginepraio omicidiario del Medio Oriente: una democrazia formale che, proprio rifacendosi al suo ruolo mondiale, abdica ai princìpi fondamentali della sua Costituzione.

Se la destra trumpiana può affermare che il problema sono: i neri, le persone LGBTQIA+, i migranti, i musulmani, gli insegnanti e la discriminazione contro i bianchi da parte delle minoranze, è perché i democratici non hanno lavorato ad una saldatura tra diritti sociali e diritti civili. In tutti i decenni passati, il cosiddetto “progressismo” dell’Asinello ha interpretato i valori della sinistra ma non ne ha sviluppato uno che fosse uno nella pratica quotidiana. Il disagio sociale così ha avuto il via libera per tramutarsi in un nuovo serbatoio di voti per Trump e, non da ultimo, per Vance.

L’adorazione del pragmatismo e della “ragion di Stato“, delle compatibilità economiche e delle relazioni internazionali che premettono e che seguono questi presupposti, sono invece stati i pilastri di una conduzione amministrativa di governo che ha mantenuto uno status quo di privilegi e ha protetto, soprattutto durante la crisi della Covid-19, gli interessi di gruppi e industrie che non stupisce siano oggi, in buona parte, coloro che finanzieranno la campagna elettorale americana. Dall’una e dall’altra parte. Perché ognuno punta sempre sulla giocata che reputa vincente.

Ed al momento questa sembra essere, soprattutto per il clamore dell’attentato di Crooks, del colore dei repubblicani: un rosso che proprio non ha niente a che vedere con il carattere conservatore, repressivo, trucemente violento, xenofobo, omofobo e misogino del trumpismo. I colori però non si discutono. Ed anche in questo, le differenze tra Europa e Stati Uniti si fanno sentire e vedere. Kamala Harris ha il sostegno di quasi tutto il partito, mentre dall’Ucraina plaudono un po’ a Trump e un po’ a Biden. Chiunque vinca, continueranno a chiedere armi e ad essere fedeli servitori della NATO.

La politica estera tuttavia potrebbe cambiare ancora in peggio. Capire chi ne possa ulteriormente aggravare le sorti è una sfida che possiamo darci: per capire meglio come si posizioneranno i candidati presidente nelle prossime settimane. Il tempo stringe e Biden alla Casa Bianca fino a gennaio può, almeno fino al voto, non essere una garanzia di successo per Harris, ma l’ombra (cinese) sul muro della fragilità di un partito che ora prova a riemergere dal panico in cui era pericolosamente precipitato.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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