La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha sentenziato: Israele occupa illegalmente il territorio palestinese. Dalla Cisgiordania a Gaza fino a Gerusalemme Est. Lo fa dal 1967, quando la situazione militare e politica di allora è stata procrastinata e dal carattere di provvisorietà che aveva è passata ad essere sostanzialmente una condizione “de facto“, mentre “de jure” il popolo palestinese e i suoi rappresentanti avrebbero avuto ogni diritto di poter vivere al di là della legislazione, della coercizione, del vero e proprio regime di apartheid imposto dallo Stato ebraico.

Come è stato rilevato un po’ da tutti i commentatori, tranne quelli marcatamente schierati con un Netanyahu, di cui, ricordiamolo, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità, la sentenza segna un punto a favore della rivendicazione palestinese riguardo l’interezza di quello che, impropriamente, abbiamo sempre declinato al plurale come “Territori occupati” e che, invece, avremmo dovuto sempre interpretare al singolare.

Si tratta, infatti, di una nazione occupata da un’altra nazione, di un paese che occupa un altro paese, di uno Stato che occupa uno Stato che ancora non c’è. La questione non può essere soltanto affidata, ovviamente al diritto internazionale, perché il governo israeliano rimanda al mittente tutto, disconosce praticamente la Corte dell’Aja e se ne infischia beatamente del giudizio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che aveva chiesto, per l’appunto, questo parere ai propri magistrati.

La contesa è tra la penna e la spada, tra la punta del diritto e quella degli obici che sparano sempre più violentemente sulla popolazione civile di Gaza, di Khan Yunis, di Rafah. Dove non c’è quasi più nulla da distruggere ma soltanto (si fa per dire…) centinaia di migliaia di disperati che si muovono alla rinfusa in un lembo di terra in cui Tsahal non è ancora riuscita a neutralizzare le milizie e i comandanti di Hamas. L’impressione (malevola) è che il rinvio della resa dei conti sia nei piani del governo di un Netanyahu che ha tutto l’interesse a prolungare i tempi della guerra.

Per il solito cinico motivo: terminato il conflitto, l’esecutivo emergenziale verrebbe meno e, quindi, la testa del primo ministro salterebbe e si andrebbe a nuove elezioni in cui, è assai probabile e facilmente pronosticabile, non vi sarebbe più salvezza politica per Netanyahu dai guai con la magistratura che ha attualmente. Il mandato di cattura internazionale, inoltre, per quanto possa essere irriso da Tel Aviv, è lì che penzola come una spada di Damocle sulla precaria situazione della dirigenza sionista…

Non si mette male soltanto (e non è poi così poco!) perché la questione è completamente gestita sul piano militare; ed Israele ha il pieno appoggio americano e di gran parte dell’Occidente europeo nella guerra contro Gaza. Dunque, proprio qui si inserisce il tema del diritto internazionale e della sua valenza nel momento in cui non esiste una forza capace di farlo rispettare. In pratica, l’ONU non ha una sovranità sugli Stati del mondo: li riunisce, li coordina, li rimbrotta, ma non può ingerire praticamente, non può imporsi come volontà comune, come maggioranza anche assembleare.

E così le risoluzioni rimangono lettera morta appunto da quel lontano 1967 in cui iniziò l’occupazione sistematica di tutto il Territorio palestinese. Una determinazione colonizzatrice e annessionistica che si è andata sempre più radicalizzando, facendosi beffe delle decisioni internazionali, delle condanne, degli appelli e anche dei boicottaggi di una buona fetta di esportazioni dell’economia israeliana. Di pochi giorni fa è, peraltro, il voto della Knesset che sancisce l’impossibilità della creazione di uno Stato palestinese lì dove i sionisti ritengono di essere esclusivamente in casa loro.

Glielo dice la Storia. Ma se dobbiamo partecipare a questo gioco dell’ipocrisia e anche del revisionismo storico, allora dobbiamo essere pronti a rimettere in discussione tutto ciò che oggi esiste e si è concretizzato nel tempo, soltanto perché ognuno di noi prende un punto della linea del tempo e stabilisce che da lì nasce il diritto della propria nazione, del proprio popolo. Magari proprio dove e quando è più facile, comodo e interessante collocare la propria nascita o rinascita, prescindendo dalle cause e dagli effetti che si sono susseguiti di secolo in secolo.

La sfacciataggine del governo di estrema destra di Israele, per fortuna, non corrisponde più non soltanto alla maggioranza della popolazione che lo aveva votato, ma nemmeno più a quella dei parenti dei cittadini rapiti dalle milizie di Hamas ed ancora detenuti a Gaza. C’è una progressiva presa di consapevolezza della gravità di una situazione che circonda lo Stato ebraico e che non sarà l’azione militare, per quanto cruenta, omicidiaria e devastatrice possa rivelarsi ancora (dopo oltre quarantamila morti e oltre centomila feriti gravi), a risolvere.

Lo Stato, che nella Storia dell’umanità si è rivelato, almeno nei contesti socio-economici fino ad ora conosciuti, un “ente necessario” nella regolamentazione delle esistenze e della convivenza comune, si viene ad appartenere prescindendo dalla propria volontà. Si è inclusi nella “statalità” che è, quindi, forma della nazionalità, della condizione di popolo che vive in un determinato territorio. Come se ne può facilmente dedurre, questa definizione che viene data dal diritto costituzionale un po’ di tutte le civiltà cosiddette “evolute“, è applicabile anche ai palestinesi.

Che sono un popolo, che vivono in un dato territorio per discendenza storica della loro stanzialità ma che, a differenza degli israliani, il cui Stato è un prodotto ovviamente della Storia, ma piuttosto recente e le cui cause affondano nella tragedia bellica della Seconda guerra mondiale, non hanno una organizzazione istituzionale cui affidare la loro rappresentanza, organizzazione e gestione comunitaria.

Le forze politiche israeliane, nel momento in cui alla Knesset votano un dispositivo in cui si sancisce letteralmente che: «…uno Stato palestinese nel cuore di Israele costituirebbe una minaccia esistenziale per Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione“…» (fatti salvi solo nove voti contrari tra i laburisti e i partiti filoarabi), negano un principio del diritto, della morale, della cultura e della società pienamente espressi dall’essenza di una nazione in quanto entità comunitaria.

C’è, quindi, un problema di riconoscimento diretto del popolo palestinese in quanto tale e non solo dello Stato che gli spetta nel Territorio occupato dal 1967. Quanto Netanyahu e Gvir dichiarano a pieni polmoni che la Cisgiordania è tutta di Israele, finalmente sollevalo l’orpello di altrettanta ipocrisia che avevano messo sulle (comunque) concessioni all’Autorità Nazionale Palestinese di amministrare almeno civilmente una parte del territorio della West Bank (zone A e zone B, controllo militare e civile diviso a macchia di leopardo nella gruviera formata dalla colonizzazione israeliana).

Non c’è dubbio che una parte delle responsabilità della situazione in cui oggi versano i palestinesi tanto di Gaza quanto di Cisgiordania sia anche di una ANP che è scivolata nella corruttela del potere, nelle contese tra fazioni e nei rapporti piuttosto discutibili con Stati tutt’altro che di esempio per la fondazione di una Repubblica palestinese democratica e magari anche sociale. Ma non esiste nessunissimo dubbio sulle gravi colpe e sui crimini che lo Stato ebraico ha cumulato per oltre mezzo secolo nell’appropriarsi di ciò che non era suo.

L’irrisione nei confronti della comunità internazionale è la conseguenza di una politica arrogante, presuntuosa e violenta che, infatti, si esprime attraverso le guerre, la militarizzazione dei territori, la carcerazione e le torture, gli abusi dei coloni protetti da Tel Aviv e che, ad oggi, hanno raggiunto in Cisgiordania la cifra di oltre seicentomila persone. Quanto affermato nella sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja comprende la restituzione di tutti i beni materiali, culturali e sociali sottratti da Israele alla Palestina e, quindi, l’evacuazione completa della popolazione colonica insediatasi abusivamente.

Per chi è abituato a parlare solo con la brutalità della guerra e della sopraffazione, fregiandosi nonostante tutto del titolo di “Stato democratico” del Medio Oriente, tutto ciò non ha alcun valore. Ed allora la domanda è: come può la comunità internazionale spingere Israele a rispettare le decisioni della magistratura dell’ONU e le risoluzioni dell’ONU stessa? Con la violenza uguale e contraria che Tel Aviv mette in essere ogni volta che deve risolvere un conflitto interno? Con le sanzioni internazionali, quindi sempre e soltanto con coercizioni? Non può esistere un modo, se non pacifico, quanto meno incruento per arrivare ad una soluzione?

Se si scorrono le cronache di guerra dell’oggi a Gaza, quelle dei tanti palestinesi assassinati dai coloni nella West Bank, quelle di tutti i prigionieri morti nelle carceri di Israele, sembra davvero poco realistico immaginare anche soltanto che Netanyahu e i suoi accoliti possano essere “ragionevoli” e quindi considerare la validità del diritto internazionale. Che, in quanto tale, conserva questa sua prerogativa soltanto se tutti coloro che lo hanno condiviso, sottoscritto e contribuito a scrivere lo continuano a riconoscere come base fondante di una civilizzazione maggiore del mondo.

Purtroppo, gli interessi economici sono uno dei pilastri dei regimi dell’apartheid e del segregazionismo, della colonizzazione e dell’imperialismo. Tutti tratti di un volto di Israele in cui si riconosce, fisiognomicamente, la sembianza dello Stato autoritario. Il problema che riguarda strettamente Gaza ed Hamas sta proprio nella cieca illusione di poter annientare Hamas. La connotazione di partito-clan, di formazione politica capace di gestire socialmente i bisogni dei palestinesi ne ha fatto l’ultimo, sebbene tragico, rifugio della disperazione di un popolo.

A questo Israele ha condotto i gazawiti. Scientemente. Per esacerbare gli animi, per dare seguito ad una rete di presupposti materiali che dal fiume al mare fossero le premesse per una guerra totale contro i palestinesi; una resa dei conti rimandata fin troppo a lungo secondo la concezione annessionistica della destra ultrareligiosa sionista. Quindi, la domanda che ne segue è: davvero c’è ancora speranza per la soluzione dei “due popoli, due Stati“? C’è una possibilità, inoltre, per il piano B della “confederazione israelo-palestinese“, di uno Stato unico e multietnico, multiculturale e multireligioso?

Più ci si adopera in questi raffronti e più si è indotti a ritenere che ormai si tratti di bei sogni, ipotesi ormai anacronistiche dati i rapporti di forza in campo, le stragi e il vero e proprio genocidio perpetrato con la guerra iniziata dopo l’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre 2023. La politica del governo Netanyahu non lascia spazio ad alcun dubbio in merito. L’assenza pressoché totale dell’ANP sulla scena del conflitto in atto, anche. Le mosse della comunità internazionale, schierata dalla parte del popolo oppresso, della Palestina e del suo diritto ad esistere come nazione libera e sovrana, sono invece decisamente più incoraggianti.

Non saranno attualmente sufficienti, ma è necessario non mollare di un millimetro la presa su questa fune tesa e che viene tirata da una parte dalla prepotenza arrogante della forza delle armi e del crimine contro l’umanità, mentre dall’altra si cerca di tirarla dalla parte del diritto internazionale. Non siamo così ingenui dal non sapere che gli interessi economici, finanziari e politico-militari si trovano da entrambe le parti. Ma occorre valorizzare ciò che di buono e di costruttivo vi è nelle decisioni degli organismi sovranazionali per sostenere la lotta dei palestinesi in tutto e per tutto.

Passeranno generazioni prima che l’odio possa essere dichiarato morto e sepolto. Ma senza la fine dell’occupazione israeliana, senza la fine della guerra, senza il ritiro totale dei coloni dal Territorio palestinese, quel processo che potrà condurre alla pacificazione e al reciproco riconoscimento dell’esistenza di due popoli non inizierà mai. Lo stesso governo israeliano ha dichiarato che la sua opposizione alla nascita dello Stato palestinese è “di principio“. Quindi anche di fatto. Da qui si deve partire: dal fatto che non si tratta di un “principio“, bensì di un abuso, di un crimine, di una violenza sistemica.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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