La notizia del giorno potrebbe essere il discorso di commiato di Joe Biden in vista della competizione elettorale presidenziale di novembre negli Stati Uniti. Oppure potrebbe essere il discorso di Benjamin Netanyahu davanti al Congresso della Repubblica stellata disertato, per l’occasione, da eminenti esponenti del Partito democratico. Oppure, ancora, potrebbe essere, seppure riferito alle sole querelle di casa nostra, l’insieme di riferimenti fatti dal Presidente della Repubblica Mattarella rispetto alle scelte di intervento politico e comunicativo del governo Meloni e della seconda carica dello Stato.

Invece, ci sembra che il gradino più alto del podio come notizia davvero del giorno spetti all’incontro avuto dal ministro degli esteri ucraino Dmytro Ivanovyč Kuleba con il suo omologo cinese Wang Yi. Perché? Per il semplice motivo che, da due anni e mezzo a questa parte, da quando la Russia ha oltrepassato i confini dell’Ucraina per conquistare quei territori che il Cremlino ritiene appartengano di diritto a Mosca, rispondendo così anche all’espansione imperialista della NATO e all’attacco costante dell’Occidente nei suoi confronti, nessuno aveva più sentito una parola riferita alla mediazione da parte del governo di Kiev.

Che cosa ha spinto Kuleba a recarsi prima in Serbia e poi in Cina e, soprattutto, a pronunciare le seguenti parole: «La parte ucraina è disposta e pronta a condurre il dialogo e i negoziati con la parte russa se questa è in buona fede»? Un cambio di passo notevole, se si pensa che per decreto governativo-parlamentare, è vietato a chiunque in Ucraina parlare di mediazione col nemico, tanto da specificare che vi è «l’impossibilità di intrattenere negoziati con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin». Gli effetti dei mutamenti della politica mondiale si fanno copiosamente sentire: l’attentato a Donald Trump, il ritiro dalla corsa presidenziale di Joe Biden e l’arrivo di Kamala Harris…

Sul fronte accesissimo della politica americana si prospettano scenari futuri tutt’altro che rosei per Volodymyr Zelens’kyj che, non molto tempo fa, ha verificato con mano il fallimento della cosiddetta “controffensiva” proprio perché a giocare un ruolo negativo in tal senso è stato il blocco dei finanziamenti e dell’invio di armi da parte statunitense per i veti posti dai repubblicani trumpiani. La concreta possibilità che il magnate possa vincere la tornata elettorale di novembre, non c’è dubbio, agita i sonni del governo di Kiev e ripropone uno scenario di svantaggio per le truppe ucraine di un proiettile solo contro dieci dei russi.

Ma non è soltanto la superiorità numerica di truppe, armamenti e rifornimenti che Mosca può garantire ai suoi comandanti e ai suoi soldati, a fare la differenza e a spingere Kuleba a cercare la mediazione della Cina (che pure gioca nel campo avversario, nonostante faccia finta di stare in panchina): l’avanzata russa procede per conquiste di piccoli villaggi e, sostanzialmente, la linea del fronte non ha subito al momento grandi modificazioni. Questo preoccupa soprattutto la NATO che prevede tempi lunghissimi per una risoluzione armata dal conflitto. Il logoramento militare fa il paio con l’esaurimeno delle risorse economiche per sostenere uno sforzo di così lunga portata.

Qui i due opposti campi, geopoliticamente componibili seppure con tutte le particolari differenze del caso, mostrano al mondo la partita vera che si sta giocando: Stati Uniti d’America – NATO ed Occidente europeo contro Russia, Cina, paesi BRICS e quella parte del pianeta che rivaleggia proprio con Washington allorché si fa anche soltanto cenno ad una nuova costruzione multipolare dell’economia e dei rapporti tra le nazioni. In ballo c’è una egemonia globale che, per ora, è spartita tra questi due grandi blocchi molto eterogenei fra loro e, in particolare, dentro loro stessi. Il punto di caduta dovrebbe essere lo spostamento dell’asse egemonico da Ovest ad Est.

Per questo la visita di Kuleba e il suo approccio con il ministro degli esteri di Pechino è un messaggio che parla a tutte e tutti: ma non di una pace duratura. Di un cessate il fuoco, di un confronto che, senza dubbio, mette già in conto una perdita di una parte dei territori ucraini in favore di Mosca; perché è davvero difficile pensare che il Cremlino accetti di trattare rinunciando alle conquiste che, sul campo, non gli sono state riconquistate dopo mesi e anni di combattimenti. Quella del Donbass e degli oblast di Zaporižžja e Cherson sarà una nuova linea di confine caldissima, in cui la militarizzazione rimarrà per molto tempo il tratto distintivo di una ferita non rimarginabile.

A Pechino Kuleba ha messo sul tavolo delle grandi questioni che riguardano l’assetto geopolitico tra Est ed Ovest il partneriato tra Russia e Corea del Nord, visto come un patto minaccioso proprio per il prosieguo di una prospettiva di fine dei conflitti, di ridimensionamento dei problemi esistenti: il tutto mentre la Bielorussia, che è il principale alleato nella regione europea per Mosca, seguiva l’esempio di Putin e apriva ad un dialogo con Pyongyang proprio sul terreno dello scambio di informazioni, tecnologie e supporti militari.

Qualunque sforzo verso la fine della guerra è apprezzabile ma va letto con le lenti della critica realistica che poggia sugli attuali rapporti di forza tanto sul piano bellico quanto su quello politico-strategico: la Russia ha praticamente vinto questa fase del conflitto e sta costringendo l’Ucraina a passi che non sono stati chiesti nemmeno dalla NATO e dall’amministrazione americana. Il conflitto in Medio Oriente ha aperto un fronte di non poco conto per la politica estera della grande Repubblica stellata e ha messo in crisi tutta una serie di rapporti diplomatici ed economico-finanziari che gli USA vantavano da decenni nella zona della vecchia Arabia felix.

Vista l’ombra lunga degli sconvolgimenti globali del primo venticinquennio di questo nuovo secolo-millennio, si può con una certa approssimazione e prudenza affermare che gli ultimi cinque anni sono stati, al pari di quelli in cui la guerra al terrorismo ha imperversato, i più turbolenti e burrascosi: la guerra in Ucraina, sempre più, si dimostra essere un terreno di scontro tra imperialismi che non intendono cedere il passo nella conquista di uno scacchiere economico, militare e politico che, nel caso del punto di vista sino-russo, propenda dalla parte esattamente opposta rispetto al bipolarismo della Guerra fredda e poi ai decenni del (quasi) incontrastato dominio statunitense.

C’è, proprio da parte cinese, nelle parole pronunciate da Xi Jinping al terzo plenum del comitato centrale del Partito Comunista, la esplicita volontà di associare alla stabilità interna una concorrenza manifesta con Washington che pare andare oltre il limite temporale della previsione quinquennale che ricorda un po’ i vecchi piani sovietici sull’industrializzazione di una grande nazione proiettata sul resto del mondo (appunto come la vecchia URSS della prima e anche della seconda metà del Novecento). Hong Kong rimane il trampolino di lancio di una globalizzazione produttiva che non conosce limiti.

Mentre tutta una rete di paesi “pro-Cina” (dalla già citata Corea del Nord a Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, Nepal, Birmania e Cambogia) costituirebbe un asse permanente di contenimento delle spinte occidentali ad un ingresso ulteriormente condizionante delle economia nocive per la stabilità intesa da Xi nel suo rapporto al plenum del partito. Basi militari cinesi sono presenti sulle coste pakistane e cambogiane e una certa neutralità tra Pechino e Washington viene mantenuta dall’Indonesia, dalla Mongolia, dal Kazakistan, dalla Thailandia e dal Laos.

In questo ginepraio asiatico, descritto facendo riferimento ai più attenti studi attuali sui posizionamenti dei singoli paesi, la missione di Kuleba assume una fisionomia sufficientemente chiara: l’attore principale della regione è Pechino, mentre gli Stati Uniti possono contare sull’ostilità nipponica, su quella indiana (nonostante Nuova Dehli faccia parte dei BRICS) e sul posizionamento tattico di Taiwan in un risiko in cui la partita per Taipei è altamente a rischio. Dunque, se Trump dovesse prevalere nelle presidenziali novembrine, l’Ucraina avrebbe come primo problema quello di tentare un alleggerimento della pressione sul fronte.

Magari una tregua momentanea, un cessate il fuoco in vista di un tavolo di mediazione a guida cinese che si interponga tra Russia e asse NATO-USA. e faccia guadagnare tempo alla macchina del riarmo che non ha mai smesso e non smetterà di essere altamente produttiva. Proprio la stessa ipotesi della ridefinizione dei confini e di una linea ONU demilitarizzata, paradossalmente prevederà una militarizzazione oltre le due parti di un fronte che somiglierà a quello coreano o a quello dei Balcani nel cuore della Bosnia o tra Serbia e Kosovo.

I primi cenni fatti dal vice di Trump, J.D. Vance sulla questione ucraina vanno nella direzione della risoluzione a breve termine di un conflitto che appesantirebbe i veri obiettivi di una amministrazione a guida conservatrice e reazionaria, intenta a guardare al mondo come ad un grande cortile di casa propria, sfidando il vero avversario che il magnate e i suoi accoliti individuano (e non senza una ragione, almeno in questo frangente) nei confronti degli Stati Uniti: la Cina. Dovunque si guardi, Pechino ha ormai sostituito Mosca nella contesa mondiale con Washington.

Quindi la Russia cos’è oggi? Un paese comprimario del gigante asiatico? Un paese addirittura sottomesso o, quanto meno, altamente influenzato dai dettami di politica estera del governo cinese? Se la visita di Kuleba fosse una cartina di tornasole in questo frangente, potremmo dire che il paese del drago è il nuovissimo punto di riferimento in politica internazionale anche per chi è schierato nettamente con l’Occidente, con la NATO e con l’America che c’è e ci sarà. Tuttavia Mosca riserva delle sorprese e non è detto che siano piacevoli. Qualcuno parla azzardatamente del “dopo-Putin“.

Sarebbe più opportuno riferirsi all’attuale stagione della politica russa come alla terza, o anche quarta, parte di una storia del putinismo che non è per niente terminata e che, per gli interessi che convoglia e garantisce, è destinata a tentare una competizione inserendosi nella contesa globale tra Washington e Pechino. Le presenze militari e finanziarie in Africa danno l’impressione che questa lettura sia sostanzialmente aderente alla realtà dei fatti. Adesso rimane da capire se l’iniziativa di Kuleba prescinde dal volere della NATO o se invece è stata in qualche misura concordata.

Pure questo è un interrogativo niente affatto banale e, per questo, tutt’altro che scontato nelle risposte che si possono soltanto, per ora, ipotizzare.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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