Il 24 luglio Benjamin Netanyahu ha tenuto un infuocato discorso al Congresso degli Stati Uniti, nel tripudio di molti dei presenti, vicini all’ex Presidente e attuale candidato dei Repubblicani alla Casa Bianca Donald Trump, che l’hanno incitato ad andare avanti con il massacro a Gaza. Non sono mancati insulti ai manifestanti che da mesi protestano nelle università statunitensi contro il genocidio a Gaza per mano di Israele, definiti “utili idioti” al servizio dell’Iran. Intanto ogni giorno per gli abitanti di Gaza la situazione si aggrava, con l’ulteriore problema rappresentato dal virus della poliomelite che è apparso e si sta diffondendo. Ma, secondo Netanyahu, Hamas va distrutto, costi quel che costi, anche un genocidio.
Il 27 luglio nel villaggio druso di Majdal Shams, nella zona siriana occupata da Israele nelle Alture del Golan, dei missili hanno colpito un campo da giochi dove dei ragazzini stavano giocando uccidendone dodici e ferendone circa una trentina, alcuni si trovano in gravi condizioni. L’attacco è stato attribuito da Israele e Stati Uniti agli Hezbollah libanesi, che però negano di essere i responsabili. Il missile porta le informazioni di fabbricazione che riconducono all’Iran, tuttavia membri della comunità di Majdal Shams non credono che la responsabilità sia delle milizie sciite libanesi e chiedono che vi sia una seria indagine internazionale per comprendere a chi appartengano le colpe di questa ennesima tragedia. Netanyahu ha scelto di recarsi immediatamente in loco per manifestare la propria solidarietà agli abitanti ma l’accoglienza non è stata esattamente un abbraccio affettuoso, anzi alcuni esponenti della comunità l’hanno invitato ad andarsene. La visita aveva ovviamente anche lo scopo di ricordare a quella regione e al mondo intero che Israele considera quelle terre proprie, nonostante le risoluzioni dell’ONU sanciscano il contrario. Con l’occasione Netanyahu ha anche annunciato una rappresaglia nei confronti degli Hezbollah.
Il 30 luglio è stato preso di mira nella capitale Beirut uno dei leader di Hezbollah, Fuad Shukr, di cui per ora non si conosce la sorte perché Israele ne conferma l’uccisione ma Hezbollah non ha ancora fatto altrettanto. Nelle prime ore del mattino del 31 luglio è arrivata un’altra notizia ancora più importante e forse inquietante, ossia quella dell’uccisione dello storico leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Hamas promette una risposta ma questa potrebbe arrivare anche dall’Iran visto che Haniyeh, vicinissimo alla leadership iraniana, è stato ammazzato a Teheran, quindi proprio nella casa della Repubblica islamica.
In attesa di comprendere se Israele abbia esaurito la ritorsione promessa, mirando per ora solo a uccidere i leader di Hezbollah e Hamas, una domanda nasce spontanea: gli Stati Uniti che cosa fanno per spegnere il fuoco che si sta espandendo in Medio Oriente? È noto che se volessero avrebbero gli strumenti per fermare il genocidio a Gaza e questo ridurrebbe molti degli incendi mediorientali. Probabilmente a conoscenza degli obiettivi di Israele, il 30 luglio gli Stati Uniti hanno preso di mira una base militare della milizia sciita irachena Hashd al Shaabi in Iraq, nella provincia di Al-Musayab, nel governatorato di Babil, a sud di Baghdad, in chiave preventiva.
“Tra il dire e il fare ci passa il mare”, dice un detto che si attaglia bene al ruolo giocato dalla superpotenza militare statunitense, quella che nonostante il declino che sta vivendo, ancora rappresenta la più agguerrita macchina da guerra. Gli Stati Uniti, da un lato, ammoniscono Israele a non esagerare a Gaza e in giro per il Medio Oriente (pur non chiarendo fino a che punto si possa spingere questa asticella), ma, dall’altro, continuano a rifornire Netanyahu del necessario per proseguire il massacro e spingere sempre più in alto la tensione in quella escalation che può non solo portare il Medio Oriente verso scenari drammatici, ma fare scivolare ulteriormente le relazioni internazionali globali in uno scenario incompatibili con l’idea di pace. Gli Stati Uniti stanno attaccando basi militari iraniane in Siria e Iraq e ciò, unitamente alle uccisioni dei leader di Hamas e Hezbollah da parte di Israele, fa apparire evidente che il vero bersaglio è l’Iran.
I consiglieri del Presidente degli Stati Uniti non hanno dato prova di essere grandi strateghi, come dimostrato da Jake Sullivan che, pochi giorni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, probabilmente inebriato dall’annunciata adesione agli Accordi di Abramo dell’Arabia Saudita, aveva dichiarato: «il Medio Oriente è più tranquillo oggi di quanto non lo sia stato nelle ultime due decadi». In questo contesto la rassicurante dichiarazione del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, secondo cui «non c’è motivo che il risultato degli attacchi di questo fine settimana debba essere una guerra totale. Non crediamo che sia inevitabile», non può far dormire sonni tranquilli. Non potendo stare nelle stanze del potere, possiamo solo fare delle ipotesi con i dati a disposizione e le coincidenze tra la visita di Netanyahu negli Stati Uniti, l’attacco al villaggio di Majdal Shams, l’eliminazione del leader di Hamas e probabilmente di Fuad Shukr degli Hezbollah, i bombardamenti alle basi militari iraniane in Iraq e Siria e immaginare che l’escalation sia già in corso, che gli Stati Uniti per il momento continueranno a far fare a Israele il lavoro sporco a Gaza e che sul tavolo ci sia la scelta del modo migliore per neutralizzare il nemico iraniano. Cina e Russia avvertono che ormai si cammina sull’orlo del precipizio e il Qatar cerca di convincere gli Stati Uniti della necessità impellente del cessate il fuoco.
Dall’altra parte, l’Iran e i suoi alleati non staranno a guardare. Così la dichiarazione di Kirby appare piuttosto ottimistica anche se c’è da sperare che abbia ragione e che non inciampi nella gaffe di Sullivan. Ma per evitare la deflagrazione di un conflitto in Medio Oriente occorre fare subito una cosa: cessare il genocidio a Gaza. Questa è l’unica strada percorribile se si vuole veramente spegnere l’incendio.