Sandro Busso

Il tema della riduzione dell’orario di lavoro, tra le rivendicazioni portanti del movimento operaio nella fase della sua ascesa, torna oggi sulla scena del dibattito politico. Si tratta, se vogliamo, di un ritorno ancora in tono minore, relegato a un ruolo ancilllare rispetto alla più pressante e visibile questione del salario minimo, e accolto dalla maggioranza con un mix di duro scetticismo e compiaciuta benevolenza. Eppure, alle diverse sperimentazioni sulla riduzione portate avanti da varie realtà aziendali si aggiungono negli ultimi mesi tre proposte di legge [C. 142 Fratoianni-Mari (AVS), C. 1000 Conte et al. (M5S). C. 1505 Scotto et al. (PD)], depositate dalle opposizioni, che si sono ritagliate un primo spazio nell’agenda dei lavori del Parlamento. I presupposti di questo ritorno sono almeno in parte nuovi, e si collocano nella scia dell’eco mediatica del fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. Al di là della dimensione quantitativa e della sua reale portata economica, l’emergere di quello che è stato definito un nuovo rifiuto del lavoro ha messo in luce l’insostenibilità delle condizioni occupazionali di molti lavoratori e lavoratrici, segnalando una necessità di cambiamento che ad oggi appare difficilmente procrastinabile, se non pagando costi elevatissimi in termini di benessere individuale e collettivo.

Esistono, e sono ormai consolidate, numerose argomentazioni che chiariscono l’opportunità di un intervento in tal senso. Una prima possibile conseguenza positiva della riduzione dell’orario è la possibilità di redistribuzione del lavoro, su cui si regge la storica idea di lavorare meno per lavorare tutti, che è probabilmente l’argomentazione più nota nel discorso pubblico e quella intuitivamente più inattaccabile, dal momento che offre la quadratura del cerchio per risolvere il problema della disoccupazione, maschile così come femminile, e del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici. Certamente esistono limiti ed elementi di complessità connessi a questa apparentemente semplice equazione, ma le esigenze di redistribuzione del lavoro rimangono quantomai attuali alla luce dello sviluppo tecnologico, e la riduzione dell’orario continua a rappresentare il miglior strumento per soddisfarle.

Un secondo elemento a supporto è sicuramente l’incremento della produttività, che ricerche autorevoli hanno dimostrato in modo molto solido. Le ragioni a cui questo aumento è dovuto sono duplici. Per tutti vale il fatto che una minor stanchezza fisica e mentale permette ritmi maggiori e concentrazione più elevata. Nel caso di alcuni lavori, prevalentemente riconducibili all’ambito delle professioni creative, vale poi una ulteriore dimensione: alcune delle competenze utili vengono infatti maturate al di fuori dell’ambiente di lavoro e nella sfera familiare e amicale, e spesso le intuizioni nascono in ambienti del tutto distanti dagli uffici o dalle fabbriche.

Una terza dimensione rilevante ha a che fare con la salute e il benessere dei lavoratori. Da anni ormai è acclarata la crescita delle patologie legate all’iperlavoro, e ne sono noti i costi sociali ed economici. I ritorni, dunque, andrebbero oltre il livello del benessere individuale: la riduzione dell’orario potrebbe comportare vantaggi per tutte le parti in causa, ivi compresi datori di lavoro e sistemi di welfare. Non solo, un altro elemento da considerare è certamente quello drammaticamente attuale degli infortuni sul lavoro, fortemente connesso alla dimensione dell’orario (in termini di durata complessiva ma anche di turni) e la cui rilevanza è riconosciuta anche dall’UE, la quale lega espressamente orario e sicurezza. Restando nell’ambito della salute e del benessere, più complessa appare la relazione con il cosiddetto burnout, fenomeno definito in letteratura con riferimento alle sue tre componenti principali: esaurimento delle energie fisiche o mentali, cinismo, che si sviluppa come risposta emotiva o “cuscinetto protettivo”, e inefficacia professionale, reale o percepita. Come evidenzia uno studio dello European Trade Union Institute, il fenomeno è sì legato alla lunghezza della giornata lavorativa e al tempo trascorso a lavoro, ma è anche dovuto alla pressione professionale e alla tensione alla performance. Come vedremo a breve, se l’accorciamento dell’orario non si accompagna a una corrispondente riduzione dei carichi di lavoro, il rischio è che il minor tempo a disposizione risulti paradossalmente in un maggior stress, e anche in una minor produttività. Perché ciò non accada, è necessario che la riduzione si accompagni a un aumento dei lavoratori, e dunque a una redistribuzione dei carichi.

Ulteriori elementi a supporto vanno infine nella direzione di fornire una risposta a grandi trasformazioni sociali. Si pensi ad esempio ai nessi individuati con il problema del climate change, che alimentano retoriche estremamente attuali. Semplificando, due sono le argomentazioni: la prima è che il modello dell’overwork genera consumi insostenibili (ad esempio cibi confezionati e pasti pronti), la seconda è che un maggior tempo di svago incentiva modelli di consumo con minor impatto ambientale. Analogamente, la riduzione dell’orario comporterebbe una riduzione delle disuguaglianze in generale e di quelle di genere in particolare: per effetto della redistribuzione dei posti di lavoro nel complesso, ma anche abbassando le barriere di ingresso nel mercato del lavoro per chi ha carichi di cura e promuovendo l’impegno maschile nella cura.

La presenza di queste ricadute individuali e collettive (il perché della riduzione) è però profondamente legato al “come”, ovvero al disegno di policy di un intervento legislativo in tal senso. La semplice modalità della sperimentazione attraverso incentivi sporadici alle aziende che attuano la riduzione (presente in alcune delle proposte citate e utilizzata nel noto caso islandese), ad esempio, presuppone implicitamente un contesto economico e una cultura del lavoro che favoriscano pratiche di “contagio” e diffusione. Non è un caso, quindi, che si sia rilevata particolarmente efficace in contesti come quelli dei paesi scandinavi. Il caso italiano presenta invece uno scenario opposto, caratterizzato da un numero di ore lavorate particolarmente elevato e da una diffusa precarizzazione del mercato del lavoro. In questo senso, sarebbe necessario un approccio più comprensivo di riforma delle norme in materia di orario, adatto non tanto ad accompagnare e sostenere un cambiamento in atto, quanto piuttosto di innescare una transizione. Un simile approccio scongiura il rischio che l’intervento (economico) pubblico si limiti a sostenere le realtà che già autonomamente avevano considerato l’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro, alimentando di fatto le differenze. La questione sullo sfondo è infatti quella dell’equità distributiva di un possibile intervento pubblico, e della necessità di scongiurare effetti perversi in termini di disuguaglianze.

Per questo, è necessario tener presente che la riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario non rappresenta necessariamente un costo per le imprese e/o la pubblica amministrazione, a fronte di un possibile aumento di produttività. Il grado di compensazione delle spese sostenute dipende però profondamente dal settore e dal tipo di mansione, e si riduce drasticamente nei settori in cui ciò che il lavoratore produce è strettamente legato alla quantità di tempo impiegato. Si pensi ad esempio a un operatore di sportello presso la pubblica amministrazione: la sua diminuzione di orario corrisponderebbe inevitabilmente a una riduzione del servizio offerto al pubblico (se non compensata da nuove assunzioni). Da questo punto di vista, se è pienamente condivisibile l’idea che la riduzione di orario si applichi ex lege a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, è necessario pensare che eventuali incentivi economici previsti varino (per durata e importo) a seconda del settore o del tipo di occupazione, per evitare il rischio di favorire soltanto quelle imprese che avrebbero comunque tratto benefici dalla riduzione dell’orario. Sulla scia di queste considerazioni, un altro possibile accorgimento è quella di legare il sostegno al numero di nuove assunzioni, o alla riduzione dell’incidenza di contratti precari.

Da ultimo, qualsiasi intervento di riduzione dell’orario, che preveda o meno un sostegno economico pubblico, deve tener conto della (e tenere sotto controllo la) diffusione del lavoro per obiettivi. Tempo e obiettivi sono infatti due modi alternativi per “misurare” il lavoro. Se è vero, in linea di principio, che qualsiasi obiettivo può essere raggiunto anche in un tempo minore di quello stimato, non si può non considerare l’eventualità tutt’altro che remota di un gioco al rialzo nel tempo, che passa per la ridefinizione di obiettivi che sono considerati troppo facili da raggiungere. La riduzione dell’orario senza una adeguata rimodulazione dei carichi potrebbe paradossalmente tradursi in maggior stress e condizioni di lavoro peggiori. Per quanto soltanto tratteggiati, i possibili effetti perversi ci devono ricordare che a monte delle molte argomentazioni che evidenziano la sostenibilità e i vantaggi in termini economici di un simile intervento (alcune delle quali sono state ricordate sopra), la scelta di ridurre l’orario giornaliero e/o settimanale è storicamente legata a questioni di garanzia dei diritti ed equità nella redistribuzione del valore che il lavoro genera. Per questo, le “ragioni di giustizia”, che tanto faticano a trovare cittadinanza nel dibattito politico, devono rimanere centrali e prioritarie nel guidare una possibile transizione, e non possono essere offuscate da qualsiasi ragionamento sull’efficacia e l’impatto economico. Il rischio, è di trasformare ancora una volta uno strumento di emancipazione in un amplificatore delle disuguaglianze

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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