Israele è una democrazia parlamentare. Dovrebbe esserlo. A detta della sua costituzione lo è. A detta dei suoi abitanti lo è. E lo è anche per moltissimi osservatori esterni che ne mettono in luce le differenze rispetto ai paesi arabi che circondano lo Stato ebraico. La possibilità di avere una maggioranza e una minoranza, un governo e un’opposizione nella Knesset fa di Israele una democrazia.
Ma dovrebbe caratterizzare l’essenza democratica di una nazione e di un popolo, oltre al carattere importantissimo delle sue istituzioni rappresentative, anche il modo in cui questo paese si rapporta con gli altri Stati, con le altre genti. Se per democrazia moderna si intende, appunto, il rispetto delle libertà e dei diritti sociali, civili ed umani, è invece molto più complesso trovare tracce di democrazia tanto ad Occidente quanto ad Oriente, tanto nel Nord quanto nel Sud del pianeta.
Israele non fa eccezione: formalmente è una democrazia in cui c’è libertà di espressione, di critica nei confronti dell’esecutivo; esiste un bilanciamento dei poteri, con una magistratura indipendente che mette sotto accusa il primo ministro per tutta una serie di faccende e faccenduole di media e grande importanza in quanto a corruzione e affari poco chiari nel confine tra pubblico e privato. Quindi è una democrazia.
Ma una democrazia, proclamata in quanto tale dall’oramai lontano 1948 e fondata nel corso di una serie di guerre con le nazioni circostanti che ne hanno indurito il carattere e hanno, vicendevolmente, creato i presupposti per le tragedie in cui versa l’area mediorientale oggi, non dovrebbe agire nei confronti dei palestinesi come ha agito fino ad ora. Non dovrebbe tenere un intero popolo in un regime di segregazione incivile, militare e, in fondo, razziale.
Non dovrebbe una democrazia costruire muri di cemento con torrette che separano i propri abitanti dagli altri in una terra che è comune e che può essere vissuta nel progetto di una riconciliazione che, però, deve partire dai vertici delle due nazioni e, soprattutto, deve avere come presupposto fondamentale la cessazione di qualunque ostilità da ambo le parti. Ma più ancora, una democrazia non può tenere nelle sue carceri addirittura i ragazzini.
Non può uccidere migliaia e migliaia di bambini con il fosforo bianco nel nome di una rappresaglia contro Hamas per i millequattrocento morti del 7 ottobre 2023. Non può dare adito ad un sempre maggiore ampio margine nella sproporzione che si è creata tra la strage criminale del gruppo islamico palestinese e ciò che sta facendo invece proprio la “democrazia” israeliana nei confronti dell’intero popolo palestinese.
Non è solamente più una questione di raffronti numerici. Ormai nella Striscia di Gaza – e lo dimostrano i raffronti delle immagini di note agenzie internazionali e di organizzazioni umanitarie tra il prima dell’ottobre 2023 e il dopo… – resta ben poco da distruggere: il 70% delle abitazioni è raso al suolo. Mancano tutte le infrastrutture; non ci sono più ospedali agibili, si operano i feriti senza anestesia; non esistono nemmeno più le scuole, le università, i musei.
Moschee e chiese sono state appiattite al suolo. Quasi quarantamila morti e centomila feriti dimostrano la ferocia estrema di una vendetta israeliana che se ha qualcosa a che vedere con l’essenza democratica dello Stato ebraico, davvero è difficile poter immaginare una relazione tra princìpi liberali, sociali e solidali e una guerra così totale, devastante e genocidiaria.
A rafforzare i dubbi sulla democraticità dello Stato di Israele, rappresentato da un gabinetto di guerra che ne contraddice in tutto e per tutto la Costituzione con la ci maiuscola, sono anche gli ultimi attacchi verso Beirut e verso Teheran: l’omicidio mirato di un esponente di alto grado di Hezbollah e del numero uno politico di Hamas, Ismāʿīl Haniyeh. Due o più missili di precisione: uno nel centro della capitale del paese dei cedri, l’altro nel centro della capitale della Repubblica islamica e nei giorni in cui si celebra l’insediamento del nuovo capo del governo.
Una democrazia agisce così? Netanyahu, guarda caso poche ore prima al Congresso degli Stati Uniti d’America, spiega che Israele è in guerra e che, quindi, ogni mezzo vale per affermare le proprie ragioni. Quindi non c’è ragione di Stato, diritto nazionale o internazionale che tenga: Tel Aviv può essere una democrazia e al tempo stesso comportarsi esattamente come quelli che le democrazia appellano alla voce “Stati canaglia”, Stati in cui vige la pratica del terrore entro i confini e fuori di essi.
Stati che colpiscono esattamente come fanno i terroristi: senza dichiarare formalmente guerra, ma facendo stragi e colpendo, soprattutto, civili innocenti. Esattamente quello che fa Israele contro il popolo palestinese, adducendo come motivazione la decapitazione dell’intero vertice militare e politico di Hamas. Avendo ora ucciso il principale esponente dell’organizzazione di resistenza islamica, la guerra forse potrebbe finire? Non finirà.
Sono proprio questi ultimi due attacchi mirati a dichiarare al mondo la volontà del governo Netanyahu di proseguire verso una apertura di nuovi fronti di un conflitto che riguarda Gaza, che contempla la Cisgiordania, che mira a colpire quella triade dell’”alleanza” antisionista rappresentata – sono parole del primo ministro in persona – da Hamas, Hezbollah e Houthi. L’Iran, se si prendono per buone le parole della Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, reagirà ma senza innescare la miccia del conflitto ad ampio raggio.
Sembra che la democrazia israeliana voglia proprio questo: un futuro di instabilità per il proprio popolo, per la gente che vive in un regime di ansia e di disagio costante. Differentemente, i palestinesi sopravvivono quando possono e muoiono ai check point, uccisi “per sbaglio” dagli uomini di Tsahal o dai cecchini della polizia. Per lo più sono ragazzi. I bambini vengono sterminati direttamente dalle bombe e dai droni che radono al suolo da mesi Gaza, Khan Younis e Rafah.
Non sono soltanto le parole a perdere di significato: sono i significanti stessi che non sono più credibili, qualunque cosa affermino. Quando Netanyahu parla di stabilizzazione regionale, di diritto per Israele di esistere lo fa sempre e soltanto pensando al predominio del suo Stato nei confronti della nazione palestinese. La Knesset, del resto, ha votato pochi giorni fa una legge che esclude qualunque possibilità per la Repubblica palestinese di poter esistere un giorno.
Domanda: è una democrazia quella che vuole impedire ad altre democrazie di poter nascere? Israele non è più una democrazia: è un regime autoritario che tollera le manifestazioni dell’opposizione e quelle delle famiglie degli ostaggi per mostrare alla comunità internazionale che un dissenso esiste e che è possibile esprimerlo ma, soprattutto, per non reprimere le rimostranze di quelle persone che hanno ancora i familiari nelle mani di Hamas.
Ostaggi che Tsahal non riesce a liberare o che, invece, non intende liberare così presto per non avere più pretesti per continuare la guerra così come vuole l’esecutivo dell’estrema destra israeliana? L’interesse di Netanyahu è la prosecuzione di un conflitto che gli permetta di essere la ragione giustificante per rimanere al potere ed evitare tutte le conseguenze cui andrebbe incontro in patria così come all’estero. Il mandato di arresto internazionale spiccato dalla CPI. Così come nei confronti dei leader di Hamas.
Ovviamente tutto ciò che va ad intaccare la solidità (presunta) del governo israeliano è bollabile di neo-antisemitismo. Un’accusa facile, fin troppo scontata come risposta da parte dei leader israeliani sospettati di crimini di guerra e contro l’umanità in quel di Gaza. Resta il fatto che le morti di Fouad Shukr, numero due dell’ala militare di Hezbollah, e del capo politico di Hamas Ismāʿīl Haniyeh, sono un salto di qualità ulteriore nell’estensione del conflitto. Dopo le minacce di Erdoğan, dopo la strage di bambini nel Golan, il quadro si inscurisce sempre di più.
Se, da un lato, Netanyahu può vantare questi successi militari e politici mirati, dall’altro è certo che l’ala più radicale di Hamas verrà ora allo scoperto e potrà prendere le redini del movimento di resistenza islamico-palestinese. La morte di Haniyeh apre le porte ad una successione che, dalla negoziazione di un cessate il fuoco, passa ad una fase di recrudescenza indiscriminata se il nuovo capo sarà Yahya Sinwar.
L’uomo che si nasconde nella fitta rete di tunnel sotto Gaza è l’imprendibile, colui che fino ad oggi è riuscito a sfuggire agli attacchi di Tsahal. Ed è un esponente di primo piano della parte più estrema di Hamas, quella che non prende in considerazione nessuna trattativa. Quindi Netanyahu non fa che inasprire il conflitto, portandolo alle estreme conseguenze: colpendo un alto comandante di Hezbollah e provando a dare ad Hamas ulteriori motivi per esacerbare animi che, oggettivamente, hanno ben ragione di essere pieni di disprezzo e di odio verso Israele.
Haniyeh era, invece, in questa fase, l’uomo della trattativa. Non a tutti i costi, ma pur sempre un dialogante, da lontano, con l’intermediazione qatariota ed egiziana. La sua morte conviene tanto al gabinetto di guerra di Tel Aviv quanto ad Hamas se lo scopo è quello di arrivare ad una totalizzazione del conflitto senza che nessuna delle due parti metta in conto di arrivare un giorno alla fine delle ostilità, pena la distruzione di uno dei contendenti in campo.
Con Haniyeh, che non ne aveva del resto nemmeno la forza, poiché rappresentava ormai solo una parte di Hamas, pur essendone il capo politico, il numero uno, era possibile sperare di approdare ad un cessate il fuoco, ad un accordo temporaneo tra le parti. Non di certo ad una fine del conflitto. Ma Sinwar è, invece, da sempre contrario a qualunque abboccamento, a qualunque mediazione. La sua lotta è contro l’”entità sionista” senza alcuna tregua.
Per ora Israele agisce così: una guerra di bassa intensità nei confronti degli Houthi e dell’Iran, una di media intensità contro Hezbollah, una ad altissima intensità contro la martoriata Gaza. E non c’è dubbio che, in merito alla questione degli ostaggi israeliani, l’uccisione di Haniyeh è per ora una pietra tombale sull’apertura di nuove trattative di rilascio. Per questo la reazione dei parenti dei rapiti è stata durissima: uno scontro frontale con il governo che, però, prosegue per la sua strada indefessamente.
Netanyahu ha già rubricato la morte degli ostaggi come un “effetto collaterale” della guerra per liberare Israele da qualunque timore di poter vivere il proprio futuro, di poterlo fare senza più terroristi intorno. Senza più palestinesi. Perché il tema dell’etnocidio è parte integrante di una guerra che uccide soprattutto uomini, donne e bambini. Tanti bambini e ragazzi. Si conta che, tra le quarantamila vittime, oltre la metà siano appunto ragazze e ragazzi in tenerissima età.
Una democrazia agisce così? La domanda può suonare tremendamente retorica se si rimanda indietro l’orologio della storia contemporanea e si ripensa alle tante guerra scatenate da quella che si vanta d’essere la più grande democrazia del mondo: gli Stati Uniti d’America. Harris o Trump che sia, in politica estera i rapporti rimarranno pressoché invariati nel momento in cui la Casa Bianca affronterà i problemi di politica militare. Dall’Ucraina ad Israele fino a Taiwan.
I democratici, non meno che i repubblicani, hanno scatenato guerre in ogni dove nel corso dei decenni. C’è dunque poco da sperare in un cambio di passo rispetto ad una amministrazione attuale bideniana che, infatti, sostiene il nordatlantismo e lo interpreta come primo attore sulla scena; sostiene Israele in chiave “difensiva” e lo foraggia di miliardi di dollari e di armi. Sostiene ogni tentativo di destabilizzazione dell’America Latina da un lato e dell’Asia dall’altro.
La parola “democrazia“, se non sostanziata con atti concreti, è un suppellettile che si impolvera ben presto e che finisce dimenticato nel baule dei ricordi: si è democratici per sentito dire, per tradizione, per storia. Ma si finisce con l’essere l’esatto opposto nella stretta, cinica, crudele e barbara attualità dell’oggi e del domani.
MARCO SFERINI