Una manifestazione di Extinction rebellion. Eni è una delle aziende che continuano a espandere l’estrazione di combustibili fossili nonostante l’Accordo di Parigi sul clima © Alisdare Hickson/Flickr
Eni è operatore o azionista in 552 progetti fossili che hanno iniziato, o inizieranno, le attività estrattive dopo il 2015. Lo svela un report di Greenpeace
«Le nostre azioni per preservare l’ambiente si basano su criteri di precauzione, protezione, informazione e partecipazione, in tutti i Paesi in cui operiamo». E ancora, «ampliamo l’accesso all’energia attraverso tecnologie che consentono una progressiva riduzione delle emissioni di gas a effetto a effetto serra (GHG) tutelando l’ambiente e le persone». Sono le parole di Eni, il colosso del petrolio e del gas che con le sue attività del 2022, sostiene Oil Change International, ha emesso più gas a effetto serra in atmosfera rispetto all’Italia stessa.
Un’azienda che promette di cambiare ma, nei fatti, continua a esplorare e aprire nuovi giacimenti di petrolio e gas. Anche dopo l’Accordo di Parigi del 2015 con cui la comunità internazionale si è impegnata a contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, avvicinandosi il più possibile agli 1,5 gradi. Anche dopo il 2021, anno in cui l’Agenzia internazionale per l’energia ha pubblicato una dettagliata tabella di marcia per l’azzeramento delle emissioni al 2050 che raccomanda di sospendere i nuovi investimenti nelle fonti fossili. A smascherare gli investimenti fossili di Eni, e le minacce che comportano per la pace e i diritti umani, è un nuovo report dell’organizzazione ambientalista Greenpeace.
Quanti progetti fossili ha avviato Eni dopo l’Accordo di Parigi
Andare alla ricerca di combustibili fossili significa alimentare il riscaldamento globale. Eni continua a farlo, noncurante degli impegni internazionali. Il Cane a sei zampe è operatore o azionista in 767 progetti: quasi due su tre, per la precisione 552, hanno iniziato o inizieranno le attività estrattive dopo la firma dell’Accordo di Parigi. Ben 145 le intraprenderanno dopo il 2050, l’anno in cui l’Unione europea – e la stessa Eni – hanno fissato l’obiettivo della neutralità climatica. Una contraddizione in termini che non si può nemmeno giustificare con la necessità di far fede a impegni presi in precedenza. Le licenze di ben 96 progetti sono state rilasciate dopo il 2015, di cui 27 dopo il 2021 (cioè dopo le raccomandazioni inequivocabili dell’Agenzia internazionale dell’energia).
Le conseguenze per il clima? Catastrofiche. Il Panel intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ribadisce che, senza ulteriori abbattimenti, basteranno le emissioni cumulative di CO2 delle infrastrutture fossili esistenti per esaurire il carbon budget, cioè la quantità di gas a effetto serra che possiamo ancora emettere per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi. Eni ne sta costruendo altre. I suoi 552 progetti che inizieranno (o hanno iniziato) le estrazioni dopo il 2015 emetteranno complessivamente 5.433 metagonnellate di CO2 equivalente. Per avere un termine di paragone, l’intera economia italiana nel 2023 ha emesso 387 Mt CO2eq
Da solo, il giacimento di petrolio e gas di Zubair, nel sud dell’Iraq, potrebbe superare il miliardo di tonnellate di CO2 equivalente. Pur essendo proprietaria del 41%, Eni per anni non ha conteggiato queste emissioni nei suoi rendiconti annuali, delegando il tutto all’operatore del sito, Basra Oil Company (BOC). Che, però, non le aveva dichiarate a sua volta. Indipendentemente da ciò che si legge nei documenti, sono pur sempre gas a effetto serra che si accumulano in atmosfera rendendo il Pianeta ancora più bollente.
Le attività in Paesi autoritari o in guerra
Queste “bombe climatiche”, per giunta, sorgono (o sorgeranno) in contesti a dir poco delicati in termini politici e sociali. Greenpeace si è concentrata sui Paesi in cui Eni è coinvolta in progetti che emettono, complessivamente, almeno 50 megatonnellate di CO2 equivalente. Sono diciassette, Italia compresa. Ebbene, nove risultano «autoritari» secondo il Democracy Index pubblicato dall’Economist Group: si tratta di Libia, Venezuela, Congo, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kazakistan, Mozambico, Qatar, Algeria. Le democrazie perfette? Zero su diciassette. Due (Israele e Nigeria) hanno un livello di pace «molto basso» e altri tre«basso» sulla base del Global Peace Index stilato dall’Istituto per l’economia e la pace. Solo quattro (Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Italia e Qatar) vantano un livello di pace «alto». E la storia insegna quanto le operazioni petrolifere in territori contesi possano esacerbare i conflitti.
Il rapporto di Greenpeace prende in esame questi 17 Paesi sulla base di altri due indicatori relativi agli aspetti sociali. Entrambi deludenti. La violazione dei diritti del lavoro è «regolare» in Mozambico, Costa d’Avorio e Messico e «sistematica» in Qatar, Nigeria e Venezuela. Va ancora peggio in Kazakistan, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Algeria e Libia, perché non garantiscono alcun diritto ai lavoratori. Bassi anche i punteggi dell’Indice di percezione della corruzione stilato da Transparency International, che va da 0 (altamente corrotto) a 100 (molto onesto. Dodici Stati su 17 non arrivano nemmeno a 50