La sede della Borsa di New York © AndreaAstes/iStockPhoto
Il recente crollo delle Borse è figlio di un mix di fattori economici, finanziari e politici. Potremmo essere all’inizio di una nuova era
Da qualche giorno le Borse internazionali sono state colpite da ondate di vendite che hanno origine negli Stati Uniti e si sono concentrate poi sull’indice Nikkei, deprezzando fortemente gran parte dei titoli del settore dei semiconduttori, da Intel a Tsmc, a Samsung, a SK Hynix, a Asml.
Gli Stati Uniti al centro della nuova instabilità
È probabile che queste vendite, a cui hanno fatto seguito parziali rimbalzi, muovano dalla considerazione che le grandi tensioni finanziarie negli Stati Uniti non consentano più prezzi in costante crescita, soprattutto con il perdurare della politica degli alti tassi ben oltre l’inflazione. E, dunque, che occorra monetizzare. E magari speculare al ribasso.
È significativo notare in tale ottica che gli Stati Uniti sono il centro della nuova instabilità. Destinata però ad essere trasferita, rapidamente, alle altre piazze mondiali, a cominciare da quelle giapponesi e asiatiche. Per spingere le società a spostarsi comunque negli Stati Uniti. In estrema sintesi, la volatilità indotta dallo scontro interno al capitalismo americano viene utilizzata dai grandi fondi per indebolire le Borse al di fuori del perimetro Usa.
Ma, al di là delle speculazioni del momento e dell’utilizzo strumentale dei ribassi, il dato rilevante dell’attuale fase è costituito proprio dal rapido emergere delle difficoltà americane. Gli Stati Uniti sono infatti sull’orlo di una crisi profonda. Proviamo a mettere in fila alcune ragioni di una simile situazione.
A pesare sono la finanziarizzazione e le disuguaglianze sempre più estreme
In primo luogo, la gigantesca montagna di debiti che il governo federale e l’economia americana stanno accumulando da tempo sembra aver raggiunto un livello difficilmente sostenibile. Perché la “dollarizzazione” con cui si finanzia quel debito sconta difficoltà sempre più evidenti. Aggravate dalla politica dei dazi, a cominciare da quelli contro la Cina: troppi debiti con l’estero mal si conciliano con dazi aggressivi.
La finanziarizzazione e la conseguente polarizzazione della ricchezza nella popolazione statunitense cominciano a rendere le disuguaglianze troppo marcate. Sembra sparita ogni forma di buona occupazione, i salari restano molto bassi e l’inflazione, che ha sostenuto solo i profitti, erode il potere d’acquisto. Così il Pil, al netto dell’inflazione, ristagna e rende il debito ancora più pesante.
In questo senso i guadagni di Borsa, garantiti dalle Big Three, finiscono sempre più nelle mani di pochi. C’è poi la dura campagna elettorale per l’elezione del presidente che vede una spaccatura profonda nella finanza statunitense. E mette a rischio lo strapotere dei super-fondi, a lungo protetti da un asse privilegiato con i dem di Biden e dalla politica monetaria di Powell.
Le politiche monetarie della Fed strangolano l’economia reale statunitense
Gli alti tassi Fed garantivano il monopolio della liquidità ai detentori del risparmio gestito – leggi Big Three – ma ora quei tassi stanno strangolando l’economia reale. La battaglia elettorale USA sembra così condizionare le Borse in maniera profonda. L’impressione è che l’accoppiata Trump-Vance sia vissuta come un limite allo strapotere dei super fondi, a cominciare da Black Rock, Vanguard e State Street, e del loro monopolio sui prezzi azionari. Paradossalmente l’idea di una sostituzione di Powell e di un ribasso dei tassi potrebbero ridare fiato a società che oggi non dispongono della liquidità garantita dal risparmio gestito.
E dunque i grandi titoli corrono meno, rallentando quell’enorme distacco fra prezzi azionari e valore reale delle società che è cresciuto per mesi. Quello che viene definito mercato finanziario è dominato ora dalle aspettative politiche in relazione alla tenuta di un monopolio capace di garantire nel recente passato listini in costante crescita. In simili condizioni è ripartita appunto la volatilità, a lungo congelata, con scommesse contro la tenuta dei titoli tecnologici, fino ad oggi iper protette proprio dalla liquidità delle Big Three.
La possibile esplosione definitiva della bolla nelle Borse
Se poi aggiungiamo la fine del carry trade giapponese che, per effetto dei tassi bassi, consentiva agli speculatori di prendere a prestito soldi a Tokyo per comprare titoli americani, e l’acuirsi delle tensioni geopolitiche in troppe aree del Pianeta non più disposte ad accettare la gestione unilaterale a stelle e strisce, appare chiaro perché la crisi americana rischia di essere pesantissima. E la volatilità di divenire strutturale. Soprattutto se verrà messa in discussione la tenuta del dollaro.
Un abbassamento dei tassi della Fed sarebbe necessario e forse auspicato dal clan Trump. Ma tassi bassi possono indebolire il dollaro e far crollare l’architrave che finanzia la gigantesca posizione finanziaria netta negativa degli Stati Uniti. Con l’esplosione definitiva della bolla. I nodi vengono al pettine.