Matteo Bortolon

Il voto europeo e la sua più importante ricaduta sul piano elettorale – le elezioni legislative francesi – sono ormai alle spalle. In entrambi gli scenari – europeo e francese – la questione che più ha tenuto banco è stata la “marea nera” della destra radicale. C’è stata veramente? E cosa vi sta dietro?

Iniziamo dai numeri dell’europarlamento. I gruppi parlamentari sono otto, più i non iscritti:

  • PPE e S&D sono le forze di (rispettivamente) centro-destra e centro-sinistra, che hanno sempre governato insieme la Ue. Contano 188 e 136 seggi su 720.
  • Liberali (renew) e Verdi, occasionali stampelle della maggioranza, annoverano 77 e 53 seggi.
  • La sinistra, da sempre all’opposizione, accogliendo il M5S, arriva a 46.
  • I gruppi rimanenti sono tre (Patrioti di Orban, il tradizionale ECR della Meloni e Europa delle Nazioni Sovrane ), contando rispettivamente 84, 78 e 25 membri.

Le forze considerate come di destra radicale, quindi, arrivano a 167 seggi su 720, il 23% del totale dell’eurocamera. A questi andrebbero aggiunte le forze nei non-iscritti (in cui si trova di tutto dai neonazisti agli stalinisti) ascrivibile a questa galassia politica, e cioè un’altra decina (alcuni di incerta classificazione), arrivando al 24,5%. Per chi temeva una effettiva incisività sull’istituzione Ue non troppi; per chi le considera forze contrarie alla democrazia in sé un’enormità. Ma dato che i fenomeni vanno visti nel loro divenire, più che nella fissità di un singolo momento, vediamo quanto si è esteso il loro numero:

“Il centro non regge”. Come l'ascesa delle destre riflette la crisi UE

Come si vede, i gruppi riconducibili a nazionalismo/identitarismo non hanno mai avuto tanti seggi come oggi – sempre che si possa considerarli appartenenti ad una categoria unitaria. Questo non costituirà un rovesciamento dell’orientamento Ue: sia perché le forze che hanno governato finora possiedono ancora una robusta maggioranza (che rafforzata dai Verdi ha portato alla riconferma di Von Der Leyen), sia perché come abbiamo già argomentato, in un orizzonte sostanzialmente post-politico costituito dalla Ue la linea politica è decisa congiuntamente dai governi degli Stati più forti e dalla componente tecnocratica (BCE, burocrazia della Commissione, ecc.). Questo dovrebbe portarci a ridimensionare l’allarmismo soprattutto di matrice progressista (le stesse forze si giocano la carta dell’estremismo di destra dopo aver inviato miliardi di armi al governo ucraino, ben infarcito di figure e movimenti nazistoidi) e considerare freddamente il fenomeno nelle sue implicazioni. Evitare il catastrofismo non significa che non ci siano conseguenze.

Cerchiamo di capire meglio il fenomeno vedendo quali paesi hanno dato il maggior contributo alle forze estremiste. In termini puramente numerici i numeri maggiori vengono da: Francia (35), Italia (32), Polonia (26), Germania (15), Rep. Ceca (13), Ungheria (12). Se consideriamo la proporzione con il numero di deputati che ogni paese elegge (ovviamente chi ha più abitanti piazza più parlamentari) chi vede una % maggiore di destra radicale sono: Rep. Ceca, Ungheria, Polonia, Francia, Italia. Rispetto a questo gruppo, la cui quota di estremisti spazia dal 61 al 44% la Germania è molto più bassa (15%) nonostante l’indubbio successo di Alternative fur Deutschland (AFD), e circa una decina di paesi (oltre a questi) la supera (fra cui Olanda, Belgio, Grecia), ma la consideriamo più attentamente non solo per la quota assoluta di deputati ma per il suo peso decisivo negli equilibri continentali.

Cosa ci dice questo panorama?

Ungheria e Polonia sono i due stati paria della Ue, nessuna soprasa in merito. La Rep. Ceca è un caso bizzarro, perché il partito Azione dei Cittadini Insoddisfatti (noto con l’acronimo di ANO) è passato dal gruppo dei liberali ai Patrioti per l’Europa; in ogni caso si tratta di numeri ridotti.

I tre rimanenti sono casi che inducono a riflettere – ed infatti si è parlato soprattutto di loro. Non solo perché sono i tre principali membri originari della CEE degli anni Cinquanta (ovviamente più di Olanda, Belgio e Lussemburgo), ma includono l’informale direttorio franco-tedesco che ha governato il continente negli ultimi 30 anni.

Se la ascesa di destre radicali è sintomo di crisi, pare proprio che, lungi dal limitarsi alla periferia più disagiata (come il caso di Alba Dorata in Grecia), la crisi si sia piazzata al centro politico del continente. Cosa succede?

Declino franco-tedesco

Bisogna premettere che non esiste un’unica risposta alla ascesa di queste forze politiche, che emergono da contesti differenti (pensare ad uno spazio comune europeo è un nonsense analitico) e sono differenti. Anni fa la allora leader del partito radicale tedesco AFD Frauke Petry definì Marine Le Pen “socialista”, che da parte sua ha recentemente rifiutato di sedere nello stesso gruppo col partito tedesco, secondo lei troppo radicale (la leadership attuale è considerata ancora più a destra di Petry). Ma un contesto comune è possibile delinearlo. Sarebbe semplicistico pensare che ci sia un determinismo fra condizione economica e sbocco politico, ma alcuni indicatori macroeconomici possono darci alcune chiavi di lettura importanti.

Il primo punto da rilevare è il declino economico UE e del suo nucleo, l’eurozona, rispetto agli Usa, come rimarca il Financial Times: “Nel 2008 l’economia dell’UE era un po’ più grande di quella americana: 16,2 trilioni di dollari contro 14,7 trilioni di dollari. Entro il 2022, l’economia degli Stati Uniti era cresciuta fino a 25 trilioni di dollari, mentre l’UE e il Regno Unito insieme avevano raggiunto solo 19,8 trilioni di dollari. L’economia americana è ora quasi un terzo più grande. È più grande di oltre il 50 percento rispetto all’UE senza il Regno Unito”.

La produzione industriale dell’eurozona, secondo Eurostat, è crollata del 6,7% a gennaio scorso rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Rispetto a dicembre, il calo è stato del -3,2%. Nei 27 Paesi dell’UE la produzione industriale a gennaio è scesa del -5,7% su base annua e del -2,1% rispetto al mese precedente.

Lo stesso UK peraltro non è messo bene: il paese è uscito a luglio scorso dalla lista delle dieci maggiori potenze manifatturiere.

Questo mortificante quadro fa capire perché la Ue sia diventata priva di peso e autonomia politica. E la guerra che le cancellerie europee non sono riuscite a evitare rafforza tale stato di cose: l’inflazione già in ascesa nel 2021 viene accelerata dalla guerra e dalle sanzioni che, come nota sempre il Financial Times, rende l’energia più costosa rispetto alla concorrenza delle aziende Usa. Questo si traduce in un indebolimento delle classi lavoratrici che si trovano ad annaspare.

Oramai la crisi tedesca è conclamata. I rutilanti surplus commerciali, vanto del neomercantilismo germanico, ed incubo della periferie Ue sono in netto declino. Come mostra il grafico seguente tratto da una elaborazione di Deutsche Bank, anche senza entrare nei dettagli tecnici è chiaro un andamento discendente nell’ultimo decennio.

“Il centro non regge”. Come l'ascesa delle destre riflette la crisi UE

Un articolo recente del Berliner Zeitung riporta il dato più recente sui fallimenti d’impresa: si è raggiunto un livello record. Come ha annunciato il Leibniz-Institut für Wirtschaftsforschung Halle (IWH), lo scorso luglio 1.406 aziende hanno presentato istanza di fallimento, il numero più alto in circa dieci anni, superando anche il picco più recente di aprile 2024. Secondo l’istituto, l’aumento significativo del numero di insolvenze riguarda tutti i settori, tuttavia, è particolarmente pronunciato nel settore manifatturiero. Dopo 100 imprese industriali insolventi a giugno, che corrispondevano anche alla media degli ultimi dodici mesi, il numero a luglio è salito a 145.

Vediamo la Francia: una ricerca dell’Istituto Montaigne indica che l’85% degli intervistati pensa che il paese sia in declino. Prima preoccupazione il potere d’acquisto (46%), sopravanzando ambiente, immigrazione e terrorismo. Da anni il paese vede mobilitazioni di massa contro le riforme di Macron, mentre la deindustrializzazione avanza: due milioni e mezzo di posti di lavoro persi nel settore. In più Parigi sta pure perdendo l’influenza neocoloniale in Africa. C’è da stupirsi se un 45% degli intervistati nella stessa inchiesta si dichiarano più vicini a una Francia “in collera e molto contestatrice”?

Il logoramento della struttura industriale ha come conseguenza un deficit commerciale: importando più di quanto non si esporti si forma un debito con l’estero. L’anno scorso in Francia è aumentato di 100 miliardi di euro, globalmente raggiunge i 1000 miliardi. Il più alto del continente.

“Il centro non regge”. Come l'ascesa delle destre riflette la crisi UE

Non è un panorama positivo nemmeno sul fronte della finanza pubblica; la Commissione ha messo sotto pressione Parigi con la procedura di infrazione per deficit eccessivo (era spuntata la previsione del 5% sul pil quando com’è noto la cifra massima dovrebbe essere 3%). Anche per questo si prevede che il fronte delle sinistre uscito vincitore dalle scorse legislative avrà difficoltà ad attuare il suo programma. Peraltro proprio nella fase in cui vertici Ue e governi nazionali vogliono aumentare le spese per armi e militare, e ritorna in vigore il Patto di Stabilità sospeso nel 2020; le norme di cui vengono attuate con larghissima base di discrezionalità, e nelle analisi finanziarie si parla senza pudore di “doppi standard”; la Francia è una gia in passato salvata (al contrario di paesi come la Grecia), ma questo potrà accadere di nuovo?

Il centro già cannibale, viene esso stesso cannibalizzato

Possiamo dire che lo scenario sia profondamente cambiato: la struttura concorrenziale e mercatista della Ue e gli squilibri dell’eurozona hanno creato una divergenza interna al continente, per cui il centro ha cannibalizzato la periferia, e nel decennio scorso 2010-19 è riuscito a far pagare il conto dei rischi determinati dalla accumulazione finanziaria sulle classi lavoratrici della periferia. Non si dovrebbe mai dimenticare lo straziante confronto fra la cornucopia di aiuti pubblici alle banche franco-tedesche e la occhiuta austerità dispensata senza pietà ai PIIGS dal potere della Troika, cioè il MES nascosto dietro l’Eurogruppo e la Commissione.

La novità è che il benessere del “centro” Ue si è dimostrato terribilmente fragile, disperatamente dipendente dal costo dell’energia e dalla libertà di commercio incompatibili con la guerra diplomatico-commerciale scatenata contro la Russia dalla primavera 2022.

La Ue sta pagando veramente caro un allineamento così totale alla linea NATO/Usa. Si potrebbe dire che la cannibalizzazione fatta ai danni della periferia Ue adesso siano i paesi del centro a subirla da parte degli Usa. Ma allora vi era una accesa opposizione di base all’austerità perseguita da Merkel e Sarkozy, fornendo voti e sostegno a partiti che si accreditarono come anti-UE. Oggi al di fuori della destra radicale tale offerta politica è quasi inesistente.

Immigrazione, green, guerra

I punti di maggior peso nell’agenda di queste forze sempre stati: l’opposizione all’immigrazione alla “agenda verde”.

Recentemente la crisi dei rifugiati del 2015-16 è stato un evento di vasta risonanza ma dalle ricadute abbastanza limitate: ha influenzato le elezioni polacche dell’ottobre 2015 e tedesche del 2017 (in cui tuttavia Merkel ha vinto), e il voto per il Brexit nel 2016 ma nel 2019 alle europee il risultato non è stato così significativo. L’opposizione alla accoglienza dei rifugiati ha segnato molto profondamente la società in termini di ipotesi cospiratorie e polarizzazione del dibattito ma non altrettanto sul piano elettorale.

AFD per esempio nasce come un partito di destra liberale, euroscettico rispetto ai salvataggi. Tre anni dopo una nuova leadership cavalca il tema rifugiati e dal 4% scarso arriva al 13%. Per diversi anni è sembrato che fosse il loro picco massimo. Ma nel nuovo decennio sono cresciuti ancora. Anche senza altre crisi migratorie.

L’opposizione alla agenda verde, soprattutto in Germania, pare essere stata più rilevante. Alcune leggi del governo Scholz in merito sono immensamente impopolari. In generale l’agenda green delle forze progressiste e della Commissione sono state vissute da molti come un insieme di proibizioni penalizzanti per il proprio benessere, come la limitazione dell’uso delle auto e la necessità di costose ristrutturazioni per l’abitazione (il sentore di dover spendere 30mila € è piuttosto motivante). Durante la recente campagna elettorale i rappresentanti dei Verdi tedeschi hanno dovuto interrompere i comizi in pubblico per l’ostilità di una folla infuriata.

Il contesto è importante: dal 2021 è ricomparsa in Europa l’inflazione a due cifre, rendendo più difficile affrontare le spese domestiche. La reazione delle banche centrali di alzare i tassi ha avuto la spettacolare conseguenza dell’aumento di mutui, aumenti anche del 75%.

Ma tutto questo come agisce esattamente sulle preferenze elettorali?

L’interpretazione più diffusa – molto popolare fra i progressisti – asserisce che tali eventi influenzano l’orientamento. Cioè la società diventa più “di destra”, cercando un’offerta politica coerente.

Un importante articolo sintetizza un filone di studi che relativizza questo assunto. Quello che cambia non è l’opinione sul tema, ma la sua priorità. Chi non approva le pratiche trasngender, per esempio, non necessariamente dirige il voto verso un partito che ha questo orientamento; semplicemente non è molto importante. Ma nel momento in cui questa diventa la questione del secolo gli stessi partiti sono più motivati ad esibire la loro posizione in merito, e per chi aveva una inclinazione in tal senso diventa un fattore importante di scelta del voto.

Questo dovrebbe spiegare meglio come si verificano fluttuazioni di voto repentine rispetto ad un gruppo sociale molto particolare, che dalla causa ecologista si è volto all’estrema destra: parliamo dei giovani.

Da “generazione Greta” all’AFD

La generazione Z – nata fra il 1995-2012 – non ha conosciuto altro che una serie di crisi: finanziaria, dell’eurozona, la pandemia e adesso la guerra in Ucraina.

Una coltre di pessimismo tipicamente fin du siècle pare essersi impadronita del Continente, e ai giovani ha imposto un pesante tributo. Mentre nel 2019 si coniò addirittura la dizione “generazione Greta” in merito alla adesione ai movimenti contro il riscaldamento climatico, nel 2024 il vento è cambiato: una indagine (“Youth in Germany, 2024” di Simon Schnetzer, Kilian Hampel and Klaus Hurrelmann) citata dal Financial Times indicava che “per i giovani, le preoccupazioni per i cambiamenti climatici sono state soppiantate da preoccupazioni più materialistiche: la terribile carenza di alloggi a prezzi accessibili, la fragilità del sistema pensionistico tedesco e i timori di povertà in età avanzata”. Se l’ipotesi accennata sopra è corretta, si deve aggiungere a un cambiamento dell’orientamento un contesto che fa emergere l’opinione su determinate questioni e le fa diventare elementi decisivi della scelta politica.

Risultati: sostegno all’AfD salito di 11 punti percentuali al 16% tra i minori di 25 anni, secondo un exit poll di Infratest dimap (istituto berlinese di ricerche elettorali), triplicando la sua quota demografica rispetto al precedente voto nel 2019. In Francia invece l’estrema destra (RN) ha preso una quota del 25% dei voti tra i 18-24 anni, secondo un sondaggio Ipsos, aumentando di 10 punti percentuali rispetto a un guadagno complessivo di circa 8 punti al 31,4%.

In aggiunta ai fattori che abbiamo elencato possiamo aggiungerne altri due.

Uno, abbastanza immediato è che sia AFD che RN hanno fatto un uso massiccio dei social, tanto che il primo è stato ribattezzato “partito tik tok”. Lo studio sopra citato in riferimento ai giovani tedeschi conferma che il 57% di loro si informa di politica su tali canali.

Il secondo, come emerge nell’articolo del Financial Times, è l’aura di controcultura ribellista che tali partiti si sono costruiti, in modo molto più efficace che i neofascisti tradizionali, gravati da pesanti simbologie. La denuncia degli apparati ufficiali, che è facile identificare con un establishment sgradito e oppressivo, rende tali destre virali. Anche i temi gender, nel momento in cui sono promossi dagli attuali vertici politici possono assumere il volto di una fastidiosa ipocrisia, se non di una asfissiante limitazione autoritaria che dà a chi vi si oppone un carattere di anticonformismo.

Possiamo concludere che il mercatismo in salsa Ue e la sua avvilente subordinazione alle politiche Usa/NATO siano fattori decisivi della ascesa delle destre radicali, creando spazi di opportunità per ulteriori avanzamenti elettorali di tali movimenti. E l’idea di continuare con tali politiche, rimettendo al suo posto Von der Leyen non pare proprio l’ideale per contenerne l’avanzata

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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