Chiara Nencion

Il diario di un viaggio in Israele, la tranquillizzante normalità mentre a pochi chilometri si compie il massacro del popolo palestinese

Ultimo giorno a Gerusalemme. Questa volta ho veramente voglia di tornare a casa. Come ogni mattina vado allo Yad Vashem e come ogni giorno vivo le contraddizioni di questo stato di (semi) apartheid.

Il mio pullman percorre strade curate con aiuole fiorite; è piacevole a vedersi, incute serenità. Poi rifletti. Ma quanta acqua ci vuole in questo clima quasi desertico per curare così il verde?

Arrivo al visitor center del centro internazionale di studi sull’Olocausto. E come oggi mattina presto, ci sono addetti che puliscono i viottoli e le piazze antistanti gli edifici con le idropulitrici. Mi indigno: centinaia di litri di acqua adoperati così, quando a 80 km di distanza, a Gaza, la gente muore di sete.

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La falda costiera è contaminata, e quindi è inutilizzabile per il consumo potabile. Tuttavia, Israele continua a non permettere che l’acqua della falda del Mountain Aquifer venga trasportata dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza dove adesso meno del 4% dell’acqua è potabile, l’acqua del mare è inquinata dalle acque reflue e le falde acquifere sotterranee sono scese di 10 metri sotto il livello medio del mare, causando l’intrusione di acqua marina e la conseguente contaminazione, denuncia Oxfam Italia.

La crisi sanitaria e idrica di Gaza sta peggiorando drammaticamente, l’acqua pulita è sempre più scarsa e circa un terzo dei nuclei familiari non sono connessi al sistema idrico. Si stima che le malattie legate all’acqua contaminata rappresentino il 26% delle patologie infantili registrate nell’area di Gaza.

“L’acqua è una necessità fondamentale e un diritto umano. Oggi, per molti palestinesi una piccola quantità di acqua è diventata un lusso che non si possono permettere,” ha detto Reto Rufer, di Amnesty International.

E in Israele non solo si irrigano i prati sono con sistemi “sprinkler” automatizzati, abbondano giardini lussureggianti e piscine ma si spreca l’ acqua per “allagare” le strade.

Non è apartheid?

I viali e l’ ingresso del Research center, come quasi tutti i giorni, sono affollati di soldati e soldatesse. Tute mimetiche color kaki, scarponi e mitra. Li guardo sfilare, sono ragazzini, avranno 18 anni, potrebbero essere tranquillamente i miei alunni del liceo. In Israele, la leva militare è obbligatoria per tutti i cittadini che hanno raggiunto i 18 anni d’età. Per gli uomini, il periodo minimo è di tre anni mentre per le donne di due. A vedere questi ragazzini che giocano alla guerra mi viene in mente il film  documentario Innocence del regista israeliano Guy Davidi, presentato due anni fa al Festival di Cannes. Davidi ha raccolto le storie di ragazze e ragazzi che hanno cercato, senza riuscirci, di resistere all’arruolamento per poi scegliere di togliersi la vita come gesto di rifiuto della cultura militarista che domina in Israele anche in tempo di pace.

Ma i ragazzi che vedo sfilare sorridono, non sembrano preoccupati per la guerra né indignati di  essere educati in un paese che ti insegna a farla. Sorridono. In fondo sono quasi in gita scolastica, perché nella formazione di ogni ragazzo e di ogni soldato è compresa la visita allo Yad Vashem. E mi chiedo fino a che punto la narrazione dell’olocausto in Israele è storia e quando diventa invece uno strumento politico.

Entro dentro l’Istituto e l’ aria condizionata mi si para davanti come una parete fredda . Qui dentro bisogna tenere il maglioncino anche d’estate, quando ci sono 33 gradi. E io penso? Ma quanta elettricità, oltre che acqua, si spreca qui?

E a Gaza, che già prima della guerra (cioè “solo” in tempo di occupazione militare) aveva corrente elettrica solo 8 ore al giorno , adesso riceve poco più di un quinto di energia elettrica da Israele e dalla locale centrale  palestinese. La drammatica riduzione di energia è dovuta anche alla decisione del governo israeliano di sospendere le consegne di carburante alla centrale elettrica palestinese a Gaza. Inoltre cinque linee dell’alta tensione che fornivano elettricità a Gaza sono state volutamente danneggiate durante i combattimenti. Il risultato è che nell’ ultima settimana Gaza non ha avuto corrente elettrica. Per poter fare funzionare ciò che resta degli ospedali, ci si deve affidare a generatori, che però sono alimentati a un gasolio. Però anche l’ arrivo di questo combustione fossile è difficillissimo.

Non è apartheid?

Concluso il convegno, decido di concedermi un’ ultima passeggiata nella città vecchia. Mi sento in colpa se penso alla ragione del perché è deserta, ma vuota e al crepuscolo è veramente magica.

Varcata Jaffa Gate, arriva musica alle mie orecchie. Seguo il suono fino alla Torre di David, illuminata da riflettori ben più potenti del solito mentre fasci di luce puntano al cielo (altro spreco di corrente, penso). Mi avvicino e salgo sul ponticello elevatoio che conduce all’ ingresso della Torre. Due energumeni armati (le armi non mi fanno più effetto dopo aver visto per giorni gli adolescenti con il mitra) mi bloccano “questa è una festa privata!”. Retrocedo allibita: quale magnate israeliano può fare una festa di quelle proporzioni in quel luogo?! Forse chi festeggia l’ attuazione di una criminale pulizia etnica che sta finalmente ripulendo il popolo eletto dagli infidi palestinesi?

Mi inoltro in una stradina, neppure un chioschetto aperto per mangiare kebab e falafel. Sorrido: mangiano le stesse cose ebrei e musulmani, evitano lo stesso animale impuro, quanti tratti in comune. Però gli israeliani li spacciano per piatti tipici loro, manco al cibo riconoscono di essere proprio di tutto il vicino oriente e del nord africa. Si arrogano il divino privilegio anche su di esso.

In una stradina con due soli negozi aperti, mi sento chiamare da una porta. È un giovane uomo. Mi saluta, lo saluto. Mi chiede di fermarmi un attimo e io rispondo che sto solo passeggiando, non cerco qualche prodotto in vendita. “It’s not for business. Can you help me?”. Di fronte ad una richiesta di aiuto, mi fermo. Il commerciante mi chiede se, come sembro, sono straniera e che lingue parlo. Gli rispondo. Allora mi domanda se posso scrivergli nella mia Iingua “liquidazione totale”. Mi ringrazia dicendo “grazie a lei e ai tanti italiani che so che sostengono il popolo palestinese”. Mi metto a parlare con lui. D’ ora in poi, per tutelarlo, lo chiamerò con le iniziali: O.S. Tutelarlo, sì, perché la polizia israeliana tiene d’occhio i palestinesi, soprattutto quelli che sono visti parlare con gli stranieri, quelli che vivono nel West Bank, quelli con parenti a Gaza. E il mio amico O.S. ha tutte  queste caratteristiche. Affinché possa raccontarmi come vive lui da palestinese in questo periodo, dobbiamo mettere su un teatrino: affinché io non sembri una giornalista ficcanaso ma semplicemente una turista in cerca di prodotti tessili artigianali, mentre mi parla, dando le spalle alla porta, apre ora una tovaglia, ora srotola un piccolo tappeto, ora mostra una sorta di colorato kaftano. Tutte cose bellissime. “Ho dei parenti a Gaza; poiché lì non hanno niente, due mesi fa gli ha mandato dei soldi con Money Transfer, tutto tracciabile. E proprio perché è tracciabile la polizia israeliana è venuta a cercarmi in questo negozio chiedendomi conto del trasferimento di denaro e  intimandomi di non farlo mai più, perché è vietato introdurre qualsiasi bene, mobile o immobile, nella striscia. Da allora credo di avere anche il telefono, messaggi inclusi, sotto controllo.  Io e la mia famiglia viviamo nel West Bank. Per cercare di aiutare la produzione artigianale della mia comunità in questo negozio vendo anche prodotti fatti a mano dalle famiglie palestinesi. Ma devo farlo di nascosto, perché per importare dei prodotti fatti nei West Bank in Israele, dovrei pagare il dazio su ogni oggetto fino a mille shekel. E poi deve essere imposta l’ etichetta “made in Israele” o “Jerusalem”.

Non è apartheid?

Chiedo a O.S. di vedere qualcuno di questi prodotti artigianali “clandestini”.  Mi mostra dei cuscini da divano, ricamate a mano con motivo geometrici. Vengono da Ramallah, Ebron, Gaza, Jenin, Gerico. Sono Tatreez, il ricamo tradizionale palestinese. Una vera arte, tessuta di fili dai vivaci colori che si inseguono e si intrecciano nel delicato gioco del punto a croce. Il Tatreez è una forma tipica di ricamo tradizionale palestinese praticata da più di 3000 anni. Ogni motivo e modello rappresenta una diversa regione della Palestina storica.

O.S mi spiega “attraverso questi ricami, le donne palestinesi esprimono la loro lotta per la giustizia e la resistenza contro l’occupazione. Il ricamo Tatreez offre loro un mezzi di emancipazione economica e di indipendenza oltre alla possibilità di fare guadagnare denaro alle nostre comunità”.

Mi descrive il significato delle forme e dei colori: “Il verde era il colore dominante dovunque nel mio Paese. È il colore preferito degli agricoltori, il colore del raccolto. Significa duro lavoro, ma anche soddisfazioni e riposo. Purtroppo il verde è stato rubato dalla nostra terra. L’occupazione israeliana ha sradicato le distese di ulivi, sostituendole con colonie, il verde del nostro ricordo è diventato grigio cemento. Il nero è simbolo di eleganza ma ormai anche di oppressione, distruzione e morte, la tristezza e il dolore provato durante il periodo dell’occupazione israeliana  Il rosso è il colore del sangue, anche dei nostri shaheeds (i martiri), il sangue versato per liberare il paese. Il bianco rappresenta la sacralità dei nostri luoghi santi e la pace del popolo palestinese prima dell’occupazione. Tatreez non è solo ornamento, ma anche potente mezzo di comunicazione non verbale che parla dei luoghi d’origine, dello stato sociale, del pensiero religioso e politico di chi ricama. C’è un mondo intero da leggerci nei ricami. Prima della Nakba ogni villaggio della Palestina aveva un proprio punto di ricamo e un colore predominante, disegni unici che raccontavano storie della gente locale, leggende, animali e piante, e varie credenze ”.

Nel 2021, l’arte del ricamo in Palestina è stata riconosciuta dall’UNESCO come un importante patrimonio culturale immateriale. “Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una pratica sociale e intergenerazionale”, così ha  motivato l’Unesco la sua decisione,

Per continuare a parlare in tranquillità e senza dare nell’ occhio, mi offre nel suo negozio un caffè. È di quello turco, ma aromatizzato con curcuma e cardamomo .“Questo fa bene a tutto, anche se hai mal di pancia o di stomaco, ti passa”, mi incoraggia. Forse non sono riuscita a nascondere il mio scetticismo di fronte alla scura e calda bevanda, e mi spiace, ma devo ammettere che è davvero buono, e me lo bevo volentieri tutto il bicchierone. Nel frattempo, mi racconta: “temo di dover chiudere questa attività e mi spiace molto. L’ ha iniziata mio nonno, io ho 38 anni e sono la terza generazione. Ma prima due anni di COVID, poi la guerra… da metà ottobre siamo dovuti stare chiusi 5 mesi, abbiamo riaperto in primavera ma, come vedi, non c’è nessun turista. Per questo ti ho chiesto di scrivermi il cartello di liquidazione totale”. Esco con quattro pacchetti: due cuscini  Tatreez uno di Hebron dove predomina il rosso e uno di Gaza, una bellissima sciarpa di cashmere e un piatto da appendere alla parete, decorato a mano. Questo è un regalo di O.S., rappresenta frutta, soprattutto melagrane e una anguria in primo piano.

Anche di questa decorazione O.S. mi spiega il significato: “la melagrana porta fortuna. La sua simbologia nasce in medio oriente , perché è da qui che il frutto ha origine, perché cresce soprattutto nei climi caldi e aridi  visto che necessita di pochissima acqua… eppure dà vita a un frutto che sotto la scorza coriacea dona tantissimi chicchi rossi, succulenti, nutrienti. La melagrana così è simbolo di abbondanza. I tanti chicchi dolci e succosi che si trovano dentro rappresentano ricchezza, fertilità, prosperità. Il suo colore rosso è associato al sangue, con un significato di vitalità, passione, energia. La simbologia dell’ anguria, invece non è antica. Si lega invece alle tristi vicende politiche della Palestina. Dopo averla occupata, ha immediatamente bandito la bandiera palestinese.  Questo divieto vuole  impedirci di esprimere le nostre aspirazioni politiche. Per questo l’ anguria ha assunto da decenni un significato politico e identitario: questo frutto combina gli stessi colori della nostra bandiera: il rosso della polpa, il nero dei semi e il bianco-verde della buccia. A livello cromatico è quindi perfetta per indicare la bandiera palestinese, e per questo è stata usata, ad esempio, nel corso di raduni e manifestazioni di protesta, dato che non possiamo usare la nostra bandiera”.

Non è apartheid?

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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