di Luca Paroldo Boni

Lo sventolio di bandiere indipendentiste da parte dei leghisti di Montecitorio rende bene la portata politica e sociale dell’approvazione dell’autonomia differenziata.

Siamo di fronte ad una sconfitta per una parte della società, un passaggio storico che sancisce la vittoria di coloro che considerano l’uguaglianza, la solidarietà, il diritto e spesso persino il progresso, veri e propri ostacoli al libero dispiegarsi di una società fondata sulla competizione totale, sul darwinismo sociale.

Un tempo l’avremmo definita una vittoria della reazione nel silenzio della peggiore passività sociale di sempre. Sebbene il percorso per l’implementazione concreta dell’autonomia differenziata appaia complesso, il progetto eversivo del sovvertimento dei cardini della Costituzione nata dalla resistenza antifascista è compiuto.

A nulla sono valsi i moniti di Unione Europea, Ufficio Parlamentare di Bilancio, Corte dei Conti, Banca d’Italia, Confindustria e persino della Cei, che – con diversi accenti – hanno rilevato come l’autonomia differenziata farà crescere le diseguaglianze tra Nord e Sud.

Del resto la riforma è l’esito finale di quel disegno leghista, ideato più di trent’anni fa da Umberto Bossi e da Gianfranco Miglio, che all’inizio era concepito grottescamente come “indipendenza della padania’’, che veniva poi ridotto a un “federalismo” tagliato con l’accetta e che ora viene presentato nella forma verbalmente più accettabile di “autonomia differenziata”.

La Lega in questi trent’anni non ha concluso molto sul piano istituzionale. Ha solo lucrato politicamente su quelle ipotesi di trasformazione del paese, sempre concepite contro qualcuno, prima di svoltare verso il nazionalismo salviniano che, ridotto ora ai minimi termini, ripresenta la carta dell’autonomia come ritorno alle origini.

E’ bene rilevare che l’autonomia differenziata, sebbene rischi di essere destinata a fare da volano alla disgregazione del paese, rappresenta solo l’epilogo formale di processi politici e socio-economici di lunga durata.

Chi nei fatti ha anticipato e alimentato le spinte alla disgregazione del Paese fu il centrosinistra, che nel 2001, cambiò il titolo V della Costituzione, introducendo una forma inedita e poco ordinata di regionalismo. Fu quello il tentativo, miope e tutto politicistico, di indebolire elettoralmente la Lega.

Oggi è proprio agganciandosi a quel precedente mutamento costituzionale che la Lega è riuscita a introdurre l’autonomia differenziata come legge ordinaria, il che, in un probabile referendum abrogativo, renderà necessario il difficile raggiungimento del quorum, non richiesto invece per i referendum costituzionali.

Inoltre il combinato disposto all’interno della globalizzazione neoliberista delle politiche di austerità e di riduzione dei margini per le politiche sociali hanno generato e alimentato costantemente la spinta ad una frattura profonda di ogni legame di solidarietà, cittadinanza, uguaglianza dei cittadini davanti allo Stato.

In perfetta sintonia con quello politico, si consumava il progressivo svuotamento delle istanze collettive a favore di un sistema privatistico, di mortificazione salariale e della condizione del lavoro. Lo testimonia il lungo percorso di manomissione di uno dei pilastri dell’unità del paese, il Contratto nazionale di Lavoro.

Nasce così la contrattazione di prossimità, ovvero subordinata alla condizione della singola impresa o di un’area territoriale, del singolo reparto, persino del singolo lavoratore in cui si possono flessibilizzare salari, orari e condizioni di lavoro per adattarle ai dettami dell’impresa a salvaguardia dei profitti.

Non è un caso che l’Italia sia fanalino di coda per i livelli salariali nei paesi OCSE e che la profonda rottura dell’unità del mondo del lavoro, forte di circa 18 milioni di addetti, abbia comportato in una grandissima parte del paese rassegnazione, disincanto e indotto al perseguimento di interessi esclusivamente individuali.

Il tema di un Nord ricco che vuole svincolarsi dal patto nazionale, giovandosi ulteriormente dei propri vantaggi storici sul Sud, è centrale. Ma non è tutto.

L’autonomia differenziata avrà infatti delle conseguenze negative anche per il Nord. Le regioni avranno infatti delle competenze forti, per fare un esempio, sull’istruzione e sull’università.

Questo vuol dire che potranno organizzare il sistema scolastico, dire la propria sui programmi, sullo stipendio dei docenti, sulle priorità dell’istruzione, ma potranno operare un drenaggio di fondi pubblici proprio verso il sistema privato, con il conseguente depauperamento di quello pubblico. E perché poi non integrare le imprese nel disegno stesso del sistema dell’istruzione, orientando le scuole alla formazione non di cittadini e persone libere, ma di impiegati, operai, quadri, al servizio del mercato?

La scuola invece dovrebbe essere considerata “un organo costituzionale”,

perché è un organo vitale della democrazia, che tutela tutte le persone e la dignità di ciascuno. Un completamento necessario del suffragio universale. Solo la scuola può aiutare a scegliere. Ma se la scuola diventa materia regionale, sia il lavoro degli insegnanti sia il diritto all’istruzione degli studenti vengono pesantemente declassati. Parliamo di parità di salario che viene intaccata, ma in primo luogo dell’unitarietà del sistema nazionale d’istruzione.

L’autonomia differenziata produce infatti diversificazione di programmi, strumenti, risorse e in quanto tale la regionalizzazione diventa un attacco frontale al valore legale del titolo di studio, perché un diploma tecnico ottenuto in un certo contesto produttivo non potrà essere equiparato a quello ottenuto in contesti diversi.

Stessa sorte potrebbe subire il mondo dell’università, nuova possibile giurisdizione regionale. Si potrà ad esempio scoraggiare la ricerca di base (in fondo a che serve? Già lo si dice), cioè la ricerca libera che contribuisce in modo decisivo – anche se nel lungo periodo e dunque non immediatamente monetizzabile – al progresso economico e civile.

In definitiva il regionalismo non è un passaggio neutro di competenze, non è per nulla un modo per avvicinare le istituzioni ai cittadini, né tantomeno per rendere più trasparente e più controllabile l’amministrazione della cosa pubblica, ma è una reale minaccia all’unità del paese, alle sue garanzie, al suo disegno storico complessivo. È un’ideologia complessa, che va analizzata in quanto tale e che si configura come secessione dei ricchi con noi cittadini italiani che non saremo più tali, di fatto diventando residenti di regione.

La Costituzione prescrive la solidarietà economica, politica e sociale ai cittadini di tutto il paese, non ai corregionali. Questa solidarietà tramite la progressività fiscale sviluppa i legami sociali tra i cittadini ed è uno dei cardini del patto nazionale e dello sviluppo della nazione nel suo complesso.

In special modo l’articolo 119 del titolo V sull’ordinamento della Repubblica impone di fornire maggiori risorse a quelle regioni che hanno minori capacità contributive, mediante fondi perequativi.

Con l’autonomia differenziata avverrà invece esattamente il contrario in quanto le regioni più ricche verrebbero avvantaggiate dal meccanismo che collega la fiscalità territoriale ai “tributi propri” attraverso il famigerato residuo fiscale e cioè la disponibilità in capo alle regioni della differenza tra quanto un territorio versa sotto forma di tributi allo Stato e quanto da esso riceve sotto forma di servizi.

In realtà la nozione di residuo fiscale è logicamente errata e giuridicamente insostenibile. Non è logica perché non sono le regioni a pagare le imposte o a ricevere servizi, ma sono le persone; e quel che si paga e che si riceve dipende dal reddito, dal patrimonio, dall’età, dallo stato di salute, dalle condizioni personali e familiari, insomma, da elementi che, per la maggior parte, nulla hanno a che vedere con la residenza.

Un Paese si sfascia così, pezzo per pezzo: togliendo competenze alla legge nazionale su settori come il lavoro, il commercio con l’estero, l’energia, il coordinamento della finanza pubblica, sulle infrastrutture strategiche, materiali e immateriali.

L’autonomia differenziata danneggerà anche le piccole e medie imprese,che pur essendo l’ossatura economica del Paese, saranno ostacolate da un insieme di norme diverse che impediranno una reale concorrenza su un mercato sempre più sovranazionale. Con l’autonomia sarà lo Stato stesso a trovarsi privato degli strumenti per l’attuazione di politiche unitarie, praticamente in tutti i campi.

In definitiva la devoluzione della potestà legislativa esclusiva su 23 materie che riguardano la nostra vita quotidiana determinerà nel Paese diritti diversi in base alla propria regione di residenza.

Questa legge avrà l’effetto di spezzare in tanti accordi regionali tutti i contratti nazionali, mettendo in concorrenza le Regioni attraverso una corsa al ribasso dei salari e delle condizioni di lavoro. L’esito sarà un dumping sociale, che fino a ieri si realizzava solo in competizione con altri Paesi e che domani sarà invece messo in atto addirittura all’interno della Repubblica.

Sorprende, perciò, che anche il Sud abbia scelto questa coalizione, facendo sì che si disponesse il suo lento suicidio. Il Sud sconta ancora un divario enorme, in termini di servizi e di infrastrutture e l’autonomia differenziata non migliorerà di certo la sua condizione. Avremmo bisogno di solidarietà non egoismi, cooperazione non contrapposizione, egualitarismo di condizioni non disuguaglianze tra regioni.

Con l’autonomia differenziata si costituzionalizza la “disuguaglianza di luogo”. A seconda di dove vivi hai maggiori o minori possibilità di fruire di ciò che ti spetterebbe come cittadino di una nazione. È un assurdo. È un ritorno al frammentarismo, alle piccole patrie regionali, al feudalesimo.

Per sconfiggere l’egoismo proprietario che è alla base della spinta secessionista dobbiamo preventivamente chiederci se l’idea dell’Italia unita – e cioè di un paese che, pur con le sue specificità, antepone la solidarietà alla competizione e la collaborazione al conflitto – sia un’idea in cui abbiamo ancora fiducia. È una domanda a cui ogni cittadino dovrebbe provare a fare chiarezza.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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