Quella che potrebbe essere una incognita nel cammino di Kamala Harris verso la Casa Bianca, in realtà nell’opinione pubblica e nell’elettorato democratico è, per lo meno nei giovanissimi e nei non ancora anziani, un tema di terzo, quarto e persino quinto ordine. La politica estera del Grande Paese non è precisamente il punto su cui le rispettive posizioni si confrontano con più asperità.
Dalla convention di Chicago il messaggio diventa, giorno dopo giorno, sempre più chiaro: la discontinuità con il passato è vincolata all’evitamento, ancora una volta, della minaccia eversiva trumpiana, seguendo la linea di un bidenismo che non ha marcato nessuna differenza sull’implementazione delle basi militari (quasi ottocento in oltre ottanta nazioni che subiscono l’influenza diretta o meno di Washington e della NATO) e che soprattutto su Gaza tace improvvidamente per non dover essere costretto a negare la luce del sole che si spegne nella Striscia e nel resto della Palestina.
Le promesse di Kamala Harris sono quelle che Obama e altri ex presidenti e vicepresidenti, uomini di spicco del Partito Democratico e stelle dello spettacolo mettono sotto la luce del riflettore di una importanza sociale per la riqualificazione di un ceto medio che include parte della classe lavoratrice e parte della borghesia imprenditoriale. La sintesi imperfetta che si traduce nella risposta politica dei democratici al revanchismo trumpiano è, se non tutta, almeno in buona parte qui.
I sondaggi sembrano premiare l’esclusione di Biden dal tentativo di essere rieletto: oggettivamente, viste le sue conclamate difficoltà psico-fisico-attitudinali, in quel caso il trionfo di Donald Trump sarebbe stato praticamente certo. Oggi il partito dell’asinello ha qualche possibilità in più di portare nello studio ovale la prima presidente donna della Repubblica stellata. La politica americana, tuttavia, per quanto possa provare ad ammantarsi di un progressismo che tradisce ogni volta che parla di “esportazione” della medesima oltre i suoi confini, è ancora legata ad un doppiopesismo ingombrante.
Non si tratta soltanto di un aspetto meramente moralistico ed (anti)etico: ma intanto vale la pena di partire anche da qui per cercare di comprendere come mai la risposta trumpiana si quella che metà della popolazione preferisce rispetto ad una sorta di equilibrio – seppure molto disequilibrato – tra diritti sociali e civili, politici ed umani. Peccato originale di un puritanesimo che sta alle fondamenta della costituzione degli Stati Uniti, la doppia morale è figlia di una stratificazione antisociale che, proprio perché tale, divide il povero dal povero e stabilisce una gerarchizzazione delle colpe che parte sempre dal basso.
Lo scrive molto bene Bernie Sanders nel suo libro “Sfidare il capitalismo“: quando un criminale entra in un negozio, spara e rapina una cassiera, scatta immediatamente la condanna morale. Così pure se un funzionario pubblico utilizza con malevolenza il denaro dei contribuenti. Ma se i grandi ricchi fanno scelte deliberatamente volte a penalizzare la società per aumentare i loro profitti, la risposta del contribuente medio americano è che «sono solo affari« e che, quindi tutto rientra nella logica del sistema.
L’impresa e il lavoro devono convivere per il bene della nazione. Il capitalismo è il nerbo su cui si regge l’economia statunitense e metterlo in discussione significa precipitare gli Stati Uniti verso una autocritica che sarebbe la premessa di un capovolgimento di ciò che fino ad oggi ha rappresentato la potenza americana di per sé e nel resto del mondo. La mano invisibile del mercato, quindi, è incensurabile, non ostacolabile. Ne va dell’interesse tanto privato quanto pubblico.
I democratici riuniti a Chicago la pensano esattamente così. Non c’è spazio per anche molto blande teorizzazioni sociali; men che meno per quel socialismo democratico che Sanders vorrebbe poter ispirare al partito cui fa riferimento ma che non lo ascolta praticamente mai. L’emergenza trumpiana, inoltre, è una buona leva su cui giocare per evitare qualunque sviluppo di una critica del sistema iniziando dal far pagare di più i ricchi e meno i poveri, oltre al ceto medio di riferimento.
Inutile dire che per Donald Trump già solo così siamo in presenza di pericolosi facinorosi sovietisti, amici di un comunismo che è il vero obiettivo di Kamala Harris e del suo futuro staff presidenziale. Ma la demagogia lucidamente nevrotica del magnate non deve far dimenticare la realtà attuale e le vere intenzioni dei democratici: nel programma del partito “non conservatore” (ma “conservativo“), ché chiamarlo “progressista” sarebbe davvero fare torto alla parola stessa, le singole parole sono tutte indirizzate ad uno schema di tutela dei grandi capitali.
Dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2009, dovuta essenzialmente alla vendita di prodotti di investimento basati su mutui subprime praticamente privi di qualunque valore, Wall Street ha assistito ad un crollo economico verticale. Una nuova “grande recessione” avanzava dopo la crisi internazionale irrisolta, mentre il terrorismo, finanziato e alimentato dagli Stati Uniti stessi nei decenni precedenti per bilanciare il contropotere sovietico e per stabilire un unipolarismo globale, stabiliva le regole del funzionamento della politica estera nordamericana.
E viceversa. Perché nell’area mediorientale non una amministrazione, democratica e tanto meno repubblicana, ha pensato ad invertire la rotta e a correggere gli errori di valutazione sull’affidabilità dello jihadismo come elemento destabilizzatore dei posizionamenti geostrategici delle altre potenze mondiali. Se quella del 2008 – 2009 non è definibile come una “grande frode” di stampo veramente criminale nei confronti del popolo americano (e non solo), se i democratici questo non denunciano con forza, è perché il doppiopesismo moralistico-economico è strutturale.
Nel mentre promettono nuovi standard di vita alla maggior parte delle persone oggi in difficoltà, proprio per una economia che è anche economia di guerra (anche se non più centralmente rivolta contro il terrorismo di al Qaeda e contro i talebani che, ricordiamocelo, sono tornati al governo a Kabul da tre anni dopo la fuga precipitosa delle truppe a stelle e strisce), i democratici fanno appello ai maggiori poteri forti del capitalismo e della grande finanza per essere sostenuti nella lotta contro Trump.
Certamente: dall’altra parte c’è la simbiosi tra iperliberismo capitalistico ed eversione antidemocratica. Da questa parte, a Chicago, c’è uno slancio quanto meno civile nel rivendicare la stabilità dell’equipollenza dei poteri e la formale adesione ad una uguaglianza sociale che rimane tale soltanto nominalmente. Nei fatti il partito dell’asinello è fedele a chi lo sostiene e sostiene chi gli è fedele. L’influenza del denaro nella politica americana – scrive sempre Bernie Sanders – non è certo una novità.
Ma, da un qualche tempo a questa parte il tempio del liberismo moderno ha dovuto fare i conti con il ritorno del multipolarismo, dopo le crisi pandemiche e l’inizio di nuovi fronti di guerra tra Europa e Russia, nella zona dell’Oceano Pacifico e nella faglia del Mar Rosso collegata alla orrorifica guerra scatenata da Israele contro l’intero popolo palestinese dopo i fatti omicidiari e criminali perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023.
Senza ombra di dubbio la maggior parte degli americani esprime la propria opinione più sintetica e risoluta tramite il voto. E tuttavia chi non partecipa alle elezioni è quasi sempre una minoranza enorme, tutt’altro che silenziosa. Ma tanto basta alla Repubblica stellata per non modificare il suo sistema di bilanciamento delle contraddizioni interne. Il capitalismo del “Big Money” non ha, in sé e per sé una natura per così dire “ideologica“. Ma sa indirizzare le politiche del governo e sa condizionarle al punto da essere il vero governo dell’America che si crede libera e democratica.
Anche per questo è un tabu l’argomento politico-programmatico di una tassazione progressiva e, soprattutto, di una tassazione patrimoniale sui grandi capitali, sulle grandi ed enormi rendite. Molti di coloro che ne sarebbero interessati sono, oltre che sostenitori di Trump (che notoriamente fa dell’abolizione di gran parte del regime fiscale per i ricchissimi un programma di governo mascherato dietro il “meno tasse per tutti“, già sentito anche qui in Italia…), anche convinti democratici.
Il trumpismo, se si ripercorre la sua infausta parabola tutt’altro che in discesa, ha avvantaggiato i grandi gruppi capitalistici e le società più importanti: la revoca di tutte le misure introdotte dall’amministrazione del magnate sarebbe un buon inizio per una inversione di rotta su questo fronte. Ma i democratici non hanno al loro primo punto, ad esempio, l’abrogazione delle facilitazioni fiscali più basse dei guadagni “offshore” per i grandi gruppi privati.
Non hanno nel loro programma l’abolizione delle scappatoie che consentono sempre alle aziende di scala internazionale di spostare ingenti profitti da un paese estero ad un altro per evitare le imposizioni fiscale statunitensi. E non hanno nemmeno mai proposto o scritto di voler impedire alle società americane di spacciarsi per straniere usando come residenza una qualche casella postale di uno dei tanti paradisi fiscali che circondano la Repubblica stellata.
Per questo la convention di Chicago, che è un grande spettacolo circense di buone intenzioni, finisce con l’essere la rappresentazione di sé stessa, perché alla fine ciò che Kamala Harris può e vuole promettere è di evitare che la formalità democratica delle istituzioni repubblicane sia sovvertita dal trumpismo di ritorno con il supporto di un giovane di nere speranze come Vance.
Non è poco, certo. Ma non è nemmeno quella più che sufficiente spinta per un elettore socialista (o comunista), ambientalista e libertario per poter sostenere l’attuale vice del presidente uscente contro la minaccia oscurantista rappresentata dal magnate omofobo, complottista, ipercapitalisticamente liberista e misogino che rischia di tornare alla Casa Bianca. Bisogna fare i conti con la realtà e con i rapporti di forza che essa produce e, spesso e volentieri, subisce.
Ma non si possono tacere le ipocrisie su cui si regge il sistema politico americano e gran parte della sua classe dirigente: se Trump inganna il suo elettorato facendogli credere di essere dalla parte dei più deboli e, purtroppo, dalla parte della democrazia, i democratici come Harris e Biden lo fanno cadere nella trappola dello scambio dei diritti costituzionali con le priorità del mercato e del monopolismo dei grandi filoni privati dell’economia.
Certamente la sfida del cambiamento è talmente grande da sembrare quasi impossibile da sovvertire o da mutare nel giro di una legislatura o durante lo svolgimento di una votazione presidenziale. Tuttavia una alternativa, prima o poi, andrà costruita perché l’alternanza tra repubblicani e democratici un tempo si teneva nel rispetto della democrazia formale; oggi invece si tiene su un piano inclinato verso l’eversione manifesta.
Ma tutto questo è figlio delle politiche liberiste fatte in nome di una difesa sociale che non è mai arrivata a salvare dall’indigenza decine di milioni di americani che, proprio per questo, voltano le spalle all’asinello e vanno verso l’elefante, verso un Grand Old Party snaturato, divenuto proprietà privata di Trump stesso a cui, oggi, e soprattutto dopo i fatti di Capitol Hill, nessuno osa contrapporsi.
Dietro di lui sta la maggioranza dei sostenitori economici di un repubblicanesimo distorto e deviato. Sono simpatizzanti di un anarco-liberismo alla Milei, di un capitalismo senza troppe regole, senza compromessi con la classe lavoratrice: un sistema in cui il governo ubbidisce e agisce secondo le variabili dipendenti del mercato. Che i democratici vadano verso un temperamento di questa linea dell’esasperazione antisociale è l’ultimo elemento di timido progressismo che rimane in quel partito.
Ma è sufficiente per credere ad un cambiamento? No. Votare per Kamala Harris significa questo per un socialista o un comunista: sapere che si tratta solamente di un voto contro Trump. E nulla di più. Non si può fare affidamento sui democratici se si pensa ad un’America che superi i monopoli, che investa in una sanità realmente pubblica, che faccia pagare le tasse ai ricchi e che la smetta con le guerre d’oltreoceano.
Piace pensare che la candidatura di Jill Stein non sia, ancora una volta, per quanto poi sarà nei fatti, una pura testimonianza. Ma che, invece, proprio nel grande lavoro militante di tante compagne e tanti compagni americani, si trovi insito un germoglio di speranza che alimenti una terza via rispetto a quelle attuali. I comunisti statunitensi fanno appello al popolo per una grande partecipazione al voto, per fare fronte contro la crescente minaccia trumpiana.
«La lotta contro il fascismo non è una battaglia in difesa dello status quo, ma una lotta per approfondire ed espandere la democrazia – l’unica via possibile per il socialismo». Una lotta dialettica quindi, non fatta per dare un sostegno al capitale ma per aprire delle contraddizioni in seno ad esso. Si tratta di una teorizzazione tutt’altro che ideologica: è una traduzione pratica di una azione politica che deve poter trovare ascolto nelle tante anime sociali del Grande Paese.
La convergenza di queste lotte deve prima o poi trovare un denominatore comune: magari suggerito dalla crisi ambientale e sociale al tempo stesso. Una alternativa di questa natura sì che potrebbe essere chiamata da gente come Trump e Vance una minaccia. E giustamente lo sarebbe. Kamala Harris non lo è, ma qualunque sia il voto dei veri progressisti americani, per Stein o per Harris, non bisogna perdere di vista questo obiettivo: continuare – come sostiene Bernie Sanders – a sfidare il capitalismo. Per oltrepassarlo, con tutti i suoi orrori.
MARCO SFERINI