L’autunno sarà meteorologicamente ed elettoralmente caldo. Doppi miasmi degli effetti di un cambiamento climatico e politico che investiranno destra, sinistra e centro. La classificazione geopolitica dei luoghi in cui si alternano le scorribande delle forze parlamentari e di quelle extra-parlamentari non è cambiata, nonostante i cicli mutevoli in cui la vita del Paese è stata forzatamente costretta a passare: dalla pandemia alla cosiddetta “invasione” dei migranti, per poi approdare all’economia di guerra.
Se sul lato destro degli emicicli di Camera e Senato la maggioranza si scorna con lo ius scholae e sul diritto di poter avere la cittadinanza italiana ben prima dei fatidici diciotto anni odierni, a sinistra o, per meglio dire, nel cosiddetto “campo progressista” o, altrimenti ancora detto, “campo largo“, le cento trappole da far giocare sono messe lì per cercare di cogliere in fallo le contraddizioni dell’amico-avversario. Il PD nei confronti di Italia Viva, quest’ultima nei confronti del PD, i Cinquestelle versus un po’ tutti e Alleanza Verdi e Sinistra a fare da guardia al fortino gauchista che si è costruita con le europee.
Poi c’è la sinistra forzatamente extra-parlamentare: Potere al Popolo!, Rifondazione Comunista, PCI di nuovo invisibile modello, anticapitalisti e classisti rivoluzionari. Elettoralmente si conta ben poco e, quindi, quella che potremmo chiamare l’”offerta politica” nei confronti del campo progressista è altrettanto poco succulenta. Ma tutte le percentuali, anche quelle più modeste, possono tornare utili se dall’altra parte ci sono maggioranze che, nonostante le continue litigiosità, poi si ricompattano solidamente (o quasi) al momento del voto.
L’impressione che se ne trae è quella di chi vive in un Paese in cui si è aperta una grande competizione nel fronte progressista ma dove gli elementi chiari di una sinistra altrettanto definibile come tale sono davvero molto, ma molto pochi. Le aperture di Elly Schlein al renzismo, convertito nuovamente al centrosinistra (perché qualcuno ancora si ostina a chiamare così ciò che rimane della disomogeneità tra sinistra e centro…), non aiutano certamente il consolidamento di un campo largo che si ponga come concreta alternativa alle destre di governo.
La definizione, poi, di una nuova piattaforma strutturale, politico-organizzativa di un movimento Cinquestelle rifondato dal contismo che guarda oltre il grillismo, collocandosi ovviamente nel campo del progressismo, aumenta quella percezione di incertezza globale data da un sommovimento tellurico che non accenna a diminuire e in cui le faglie che si scontrano producono delle scosse piuttosto virulente e tutt’altro che di assestamento. Che si stia, appunto, mettendo insieme una rinnovata idea di sinistra in Italia è un passaggio all’ombra di un enorme punto interrogativo.
Che cosa dovremmo fare noi comuniste e comunisti nell’immediato, mentre si avvicinano le amministrative regionali d’autunno? Se il ragionamento riguarda, per esteso, una riformulazione complessiva del progressismo in Italia, con tutte le sue sfaccettature e differenze legittime, per quanto il “campo largo” possa non considerare quelli che un tempo venivano spregiativamente chiamati “i cespugli” de l’Ulivo o gli alleati scomodi de l’Unione, è ovvio che la riflessione include anche Rifondazione Comunista che, a sinistra di AVS, rimane la forza dell’alternativa storicamente presente e ancora organizzata su tutto il territorio nazionale.
Una organizzazione che ha subito notevoli indebolimenti, che patisce della crisi general-generalizzata della partecipazione alla vita dei corpi intermedi, dei partiti e delle associazioni persino culturali. Una organizzazione che, nonostante tutto, è viva e si mette, con tutti i suoi limiti, al servizio di qualunque lotta sia utile a preservare il valore aggiunto della Costituzione nella vita italiana, i diritti sociali, civili e umani. Quindi come deve Rifondazione Comunista affrontare questi passaggi?
Solo pochi anni fa, all’ultimo congresso nazionale, la linea condivisa era stata sintetizzata nella compartecipazione alla concretizzazione di un polo della sinistra di alternativa che si ponesse come terza opzione rispetto alle destre e alle forze gravitanti intorno al PD non ancora schleiniano. Oggi le condizioni e i rapporti tra le forze di progresso sono cambiati: non solo il riflusso pandemico, ma soprattutto la questione dell’economia di guerra ha inciso profondamente nei mutamenti tattici delle forze politiche in ogni settore della geopolitica italiana.
Quindi è bene che si apra una discussione, anche precongressuale, in merito: per cercare di comprendere qui ed ora quale sia il miglior modo per tenere insieme le istanze dell’alternativa anticapitalista e quelle di un riformismo di prossimità che permetta alle prime di farsi largo riportando dei rappresentanti comunisti nelle istituzioni tanto locali quanto nazionali per poter così veicolare i bisogni delle comunità di base più disagiate e più attaccate e vilipese dal liberismo e dalla fase multipolare che si è aperta.
Sappiamo tutti molto bene che le obiezioni in merito riguardano l’autonomia dei comunisti, la possibilità di dare seguito ad una riorganizzazione stessa di Rifondazione senza doversi “contaminare” con quelle che un tempo si sarebbero potute chiamare “le forze borghesi“. Le ragioni di chi sostiene la presentazione del Partito alle elezioni regionali e nazionali in liste formate sulla base dell’alternativa a tutti i poli in campo, sono valide e comprensibili: ma noi dobbiamo fare i conti non solo con la teorizzazione, bensì con la concretezza della pratica.
Conosco anche la seconda obiezione che può essere avanzata a questo ragionamento: senza teoria rivoluzionaria non può esservi pratica rivoluzionaria. Per cui, se si ipotizzano aperture al “campo largo“, inevitabilmente si finisce col pensarla non in alternativa al sistema ma in alternanza sul piano meramente governista. Sono obiezioni che condivido, ma che non me la sento, oggi come oggi, con le destre meloniane al governo del Paese e tutti i danni immani che stanno facendo, di porre come prioritarie rispetto alla contingenza in cui viviamo.
Possiamo provare ad essere ancora una volta tanto partito di lotta quanto di governo? Si potrebbe affermare che per esserlo, prima di tutto bisogna ritornare ad essere davvero un partito: quindi essere davvero espressione di istanze sociali che guardino ai comunisti di Rifondazione come alla forza “naturale” con cui interloquire. Ma senza una riconoscibilità anche istituzionale in tal senso, sarà difficile poter mettere a frutto una diretta connessione tra politica progressista e lavoro, tra diritti civili e sociali, tra questione economica e questione ambientale.
La soluzione eccellente alla collocazione tattico-strategica (di breve e lungo corso) probabilmente non esiste: perché le mosse della politica italiana (e non solo di questa) sono così repentine che, nel momento in cui hai individuato una linea, le condizioni per la sua reale applicazione sono già mutate. Ma si può forse pensare ad uno schema diverso dal recente passato, reinterpretando tanto l’alternativa quanto il fattore problematico del governismo abbracciato troppo disinvoltamente da SEL prima e da Sinistra Italiana poi.
Ci possiamo confessare del tutto sinceramente che non c’è uno di noi che ritenga secondario battere queste destre e ricacciarle da dove sono venute? Se questo presupposto è vero, allora noi abbiamo il dovere di mettere al primo punto all’ordine del giorno di qualunque trattativa locale e nazionale, di qualunque congresso, di qualunque discussione il “come” contribuire a fare in modo che un ampio fronte progressista possa fare argine al melonismo e al salvinismo, aprendo delle contraddizioni nella società che mostrino il pericolo che stiamo correndo.
Tanto in tema di diritti del lavoro quanto sul più complesso assetto istituzionale dello Stato e sulla natura stessa della Repubblica. Il contributo che abbiamo dato alla considerazione del salario minimo come rivendicazione attuale di una piattaforma sociale molto più ampia, è stato un passo nella direzione del dialogo con le altre forze progressiste. Un passo che è stato, il più delle volte, ignorato. Mentre noi proponevamo dieci euro all’ora pagati interamente dai padroni, il fronte progressista ne proponeva nove e in parte a carico dei lavoratori stessi.
Ci sono, quindi, delle differenze di non poco conto. E su queste si può lavorare nel perimetro della condivisione del pericolo antisociale, incivile e immorale rappresentato dalle destre di governo. La lotta per il miglioramento delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, degli sfruttati tutti, passa per l’archiviazione del pericolo autoritario, classista e neoliberista che Meloni, Salvini e Tajani portano avanti da due anni a questa parte e, seguendo l’onda lunga del berlusconismo prima e dei tecnicismi di salvezza nazionale poi, da molto più tempo.
Sappiamo benissimo tutte e tutti che Rifondazione Comunista oggi può offrire al campo largo e progressista un consenso elettorale molto ridotto. Ma l’esperienza di Pace Terra Dignità ha tuttavia dimostrato l’essenzialità per l’esistenza di un progetto di alternativa del partito nato dalle ceneri del PCI e di DP nel lontano 1991. Senza Rifondazione, mezzo milione di persone non sarebbero più rappresentate politicamente in questa Italia in cui anche da sinistra si sostiene la guerra in Europa e si appoggia quella in Medio Oriente.
Molte cose andrebbero cambiate nel “campo progressista“; ma la pretesa che queste cambino perché lo vogliamo noi è una velleità che fa torto alla dialettica marxista che, invece, ci suggerisce di osservare i rapporti di forza e partire da questi per riflettere sull’incidenza che possiamo esercitare e il contributo che possiamo dare. Dunque, si diceva, il dilemma rimane per Rifondazione: costruzione della sinistra di alternativa o partecipazione ai governi del “campo largo“?
Perché mai, visto che noi stessi ci consideriamo una terza opzione, non prendiamo in considerazione l’essere tali proprio in mezzo a questo bivio che vediamo, pensiamo e cronicizziamo nella nostra mente come viatico obbligato? Non è possibile ritenere concretizzabile una alleanza desistente con il progressismo moderato, per contribuire a battere le destre, e poi una collaborazione leale fino là dove si spinge la linea di vera tutela dei diritti dei più deboli, di rappresentanza delle istanze del disagio diffuso, della povertà incedente e della crisi delle società dentro la società stessa?
Possiamo pensarci in un regime di desistenza politica permanente in questa fase e non solo in campagna elettorale? Possiamo dare al Partito della Rifondazione Comunista il compito di continuare a costruire l’alleanza dell’alternativa in opposizione senza se e senza ma al liberismo, sapendo che ci saremo comunque sempre per sconfiggere i tentativi di eversione antisociale, antipolitica e antiparlamentare delle destre?
Nel momento in cui il campo largo dovesse proporsi nuovamente in progetti contrari alla nostra lotta per la difesa del lavoro, dell’ambiente e per una vera giustizia sociale, non avremmo nemmeno bisogno di recuperare una autonomia perduta, ma semplicemente esercitarla. Democratici e progressisti devono sapere che su Rifondazione Comunista possono fare affidamento soltanto se le loro politiche incontreranno la direzione del pubblico e non del privato, della tutela del lavoro e non dei profitti, della pace e non della guerra.
Il dialogo col campo largo ha quindi un senso se le regole del gioco sono chiare: per battere le destre noi ci siamo; per fare politiche di destra no. Rinchiudersi aprioristicamente nei fortini della purezza ideologica serve solo a pensarsi come anime belle che non vogliono sporcarsi le mani col lerciume che ci circonda ogni giorno. Noi siamo anche di un altro mondo, ma ci tocca vivere in questo e, così, bisogna fare i conti con quello che ci circonda.
Dalle regionali al congresso nazionale, il tema della desistenza politica va nuovamente ripreso in considerazione. Se ne discuta, anche aspramente. Ma se ne discuta. Evitando contrapposizioni sterili che imbrigliano la dialettica interna e la separano dal resto della politica italiana. La nostra indagine politica deve prima di tutto riguardare i più fragili, i più deboli e sfruttati e non noi stessi. Deve oggi partire dalla domanda: come possiamo essere domani più rappresentativi per tutti costoro, per la gente che vogliamo rappresentare?
Se la risposta è: contribuendo alla cacciata delle destre e incalzando il campo largo ogni volta che è possibile, continuando a lavorare ad una sinistra di alternativa sempre più ampia, allora forse siamo nella direzione, se non giusta, almeno non del tutto sbagliata. Proviamoci, pensando non alle aree ad ai personalismi, ma all’obiettivo che vogliamo perseguire nell’essere oggi ancora comuniste e comunisti.
MARCO SFERINI