Non un affrettato giudizio della storia contemporanea, ma la constatazione di una coazione a ripetere colpevole e conscia, pienamente consapevole e politicamente voluta e cercata, mette Benjamin Netanyahu nel novero di coloro che, oltre ad essere ricercati dalla giustizia internazionale per crimini di guerre e contro l’umanità, si sono macchiati dell’epiteto più che meritato di “nemici della pace” e “amici dei propri nemici“.
Può sembrare paradossale, almeno questa ultima affermazione. Ma è proprio la storia contemporanea e di stretta attualità a dimostrarlo. Siamo pressapoco nel 2013 quanto conferma il suo ruolo di primo ministro israeliano e ritorna ad essere premier la terza volta. Nemmeno dodici mesi dopo Gaza subisce uno dei più violenti attacchi mai visti per colpire Hamas. Il nome dell’operazione è “Margine di protezione” e fa alune migliaia di morti tra i palestinesi e settanta tra le truppe dello Stato ebraico.
Nel mentre regala la mondo l’impressione di prendersela solamente con le fazioni più estremiste della galassia indipendentista palestinese, combatte su due fronti: attacca la magistratura, rea di averlo accusato di corruzione e di altri interessi personali negli affari pubblici, e prosegue nel sostegno ai coloni in Cisgiordania per ridimensionare sempre più gli spazi in cui possono risiedere i palestinesi, recintadoli, comprimendoli in isolette separate le une dalle altre dal controllo diretto di quelle che Tel Aviv chiama “Giudea e Samaria“.
La Cisgiordania, di per sé, per Israele è solo una invenzione geopolitica che dovrebbe essere il cuore del futuro Stato di Palestina. La teorizzazione dei “due popoli, due Stati” viene così negata prima ancora che possa essere una proposta di mediazione politica, istituzionale e sociale. Sempre più ci si rende conto che l’obiettivo non è tanto Gaza, dove pure la presenza di Hamas è utile a Netanyahu, che approva i finanziamenti qatarioti all’organizzazione islamista, bensì la West Bank.
I palestinesi lo sanno e ritmano nelle strade: «From the river to the see, Palestine will be free!». Tutte le proposte di pace e di spartizione della Palestina mortificano l’unità e la continuità territoriale della Cisgiordania, oltrettutto separata da Gaza. Olmert avrebbe voluto, nel 2008, pianificare una concessione territoriale all’ANP a sud della Giudea e nei pressi dei confini della Striscia per poter ottenere pieno controllo su una moltitudine di colone e su Gerusalemme Ovest fino a lambire i confini di Gerico e Ramallah.
Otto anni prima, il premier Barak proporrà ai palestinesi una soluzione che contempla circa l’80% della Cisgiordania sotto controllo dell’OLP/ANP e il resto ad Israele: peccato che questo resto divida, attraverso due corridoi uniti a tutte le terre confinanti con la Giordania, la West Bank in tre settori separati fra loro e senza quella continuità territoriale necessaria per la fondazione di un vero Stato.
A partire dal 2018 Netanyahu va ancora oltre: basta trattative, basta ipotesi di convivenza con i palestinesi. Bisogna ridimensionarne le istituzioni rappresentative e scoraggiarli a vivere in quello che, di fatto, è già il Territorio occupato da Israele in violazione degli accordi e del diritto internazionale. Così sostiene Hamas contro l’ANP e poi fa la guerra ad Hamas per dimostrare di essere un vero patriota che protegge gli interessi del popolo ebraico ed israeliano. La strategia adottata è: isolamento dei palestinesi di Cisgiordania da quelli di Gaza.
Ma, mentre Hamas viene temuto militarmente, Fatah viene considerata un pericolo reale per il ruolo di lotta e di governo che intende esercitare sulla linea della mediazione, differentemente dall’intransigenza del gruppo islamico. Netanyahu pensa di poter controllare l’irruenza di Hamas. Se ne illude. Ben presto gli toccherà fare i conti con quello che, alla fine, sarà l’esplosione omicidiaria del 7 ottobre 2023.
I fronti per Israele sono tutti intorno allo Stato: a nord contro Hezbollah, ad est contro la Siria e soprattutto contro i palestinesi cisgiordani; a sud contro Hamas e i gazawiti. La storia politica del premier israeliano culmina, nell’apoteosi della sua sconfitta, proprio nel momento in cui la reazione palestinese è più cruenta e il mondo può essere indotto a confonderla tutta in un atto di terrorismo agghiacciante. La risposta di Tel Aviv la conosciamo: oltre quarantamila morti a Gaza, quasi settecento morti in Cisgiordania, più di centocinquatamila feriti gravi.
Ora si aggiunge a tutto questo una invasione a tutto spiano della Cisgiordania che, nel sogno dei sionisti più intransigenti e fanaticamente nazional-teocratici, dovrebbe diventare ben presto un territorio diviso nelle province di Giudea e Samaria. Gaza diventerà quindi un obiettivo secondario? Verrà abbandonata al suo destino di macerie, distruzione, morte e putrefazione? Gli ostaggi israeliani, in buona parte, sono ancora nelle mani di Hamas.
Dunque il governo israeliano non potrà abbandonare quella guerra. Ma, allo stesso tempo, ne apre un’altra là dove gli insediamenti ebraici sono quasi trecento, a macchia di leopardo in un territorio palestinese solo di nome e per niente di fatto. Fa gioco a Netanyahu la debolezza strutturale di una Autorità Nazionale completamente slegata dal suo popolo, considerata inadeguata al compito che dovrebbe esercitare.
Per un attimo, come è capitato di scrivere già altre volte, il 7 ottobre 2023 Israele pareva tornato dalla parte giusta della Storia: quella dell’aggredito, del colpito, del vilipeso. La guerra totale contro i palestinesi di Gaza ha cancellato ogni possibile alibi di considerazione dello Stato ebraico come di una democrazia capace di reagire con le armi del diritto alla brutalità del terrore.
L’attacco contro la Cisgiordania svela infine i piani annessionistici del Territorio palestinese occupato e viola ulteriormente il diritto internazionale. Tanto più che le autorità israeliane se ne infischiano delle risoluzioni delle Nazioni Unite, dei tribunali e delle sanzioni. La comunità europea è divisa ma, alla fine, sostiene il “diritto di Israele a difendersi“?
Da chi? Da quell’Hamas foraggiato indirettamente col consenso dato al Qatar di ingrassarne le casse, potendo acquistare così armamenti dall’Iran e da altre potenze dell’area mediorientale? Dai palestinesi cisgiordani che difendono i loro campi profughi, ai bordi delle grandi città, proprio come Gerusalemme, dalle aggressioni criminali dei coloni fanatizzati da una destra religiosa suprematista? Ciò che sembra abbastanza certo è il carattere detonante di questa invasione: rischia di provocare un allargamento del conflitto in atto e di rendere praticamente senza quartiere la lotta tra Netanyahu e il popolo palestinese.
Dopo la colonizzazione ottomana, dopo quella seguita alle mancate promesse occidentali di dare vita a due Stati in cui le due nazioni potessero vivere libere e interdipendenti, la terza invasione è, dopo la Nakba e le due Intifada, contemporaneamente all’avanzare della distruzione di Gaza, l’occupazione senza più alcun distinguo amministrativo, politico e sociale di tutta la West Bank. Israele così consoliderebbe la sua unità territoriale dal fiume al mare, impedendo, una volta per tutte, la nascita di una repubblica palestinese.
C’è un’altra verità che emerge sempre più evidente dal 7 ottobre in avanti e, in particolare, proprio in questi giorni di aggressione alla Cisgiordania: Israele non si fermerà da solo. Non lo potranno nemmeno forse fermare i palestinesi, se lasciati soli. Ci sono due modi per costringerlo al cessate il fuoco permanente: una guerra o una via diplomatica che imponga, però, anzitutto delle dure sanzioni economiche da parte del mondo occidentale e anche di quello orientale.
Senza cinismo alcuno, ma sotto il peso spietato della cruda realtà dei fatti, pare che sia quasi più facile che tutto questo avvenga con una guerra piuttosto che con le armi (pseudo)pacifiche della via politica e del dialogo tra le fazioni. Fino a che punto la situazione si è talmente compromessa da non lasciare spazio alcuno alla trattativa? Forse siamo oltre quel punto, perché Israele non ha nessuna intenzione di fermarsi e considera sé stesso e tutto ciò che fa come legittimato da una legge divina.
In spregio al diritto proprio e a quello internazionale. Quando una democrazia scende a questo livello, è praticamente uguale se non peggiore dei terroristi che sostiene di voler combattere. Mostrare al mondo ancora una volta la resistenza palestinese come terrorismo, soprattutto quella cisgiordana, è una falsificazione così palese dei fatti che è soltanto degna dei pretesti con cui lo Stato ebraico continua ad attaccare l’indifesa popolazione di Gaza o a dar man forte ai coloni nella West Bank.
Inutile negare che gli interessi in gioco sono talmente alti da lasciare pochissimo spazio alla nobiltà della sostanza del diritto, alla lotta quasi cavalleresca di milleni or sono. Non c’è lealtà che tenga. Non c’è parola che valga come premessa di un accordo. Non c’è la volontà di arrivare ad una tregua. Perché l’obiettivo è l’espulsione dei palestinesi dalle loro terra, l’ammassamento in quel di Gaza e l’annessione di Giudea e Samaria allo Stato di Israele.
Le condizioni perché questo piano riesca si stanno manifestando tutte. E la guerra contro Gaza è un pretesto dato in pasto a Netanyahu dalla follia di Hamas, di quel 7 ottobre che ha giustificato ogni reazione possibile da parte di Tel Aviv. Una nuova catastrofe, una nuova Nakba aspetta cisgiordani e gazawiti. Ma questa volta deve poter essere scongiurata. Se tanta parte la fanno i preconcetti religiosi, a quanto pare, i leader delle religioni monoteiste potrebbero riunirsi e fare da scudo al popolo palestinese.
Reclamando pace e giustizia per una terra in cui è possibile convivere, ma laicamente, accettanto tutte le credenze, tutte le fedi, ogni cultura; respingendo il suprematismo sionista, abbandonando ogni velleità jihadista, ogni tentazione di prevalere gli uni sugli altri. La tragedia dei tempi sta proprio in questo: tutto questo pare un disincanto sogno, una ingenuità senza pari, mentre la guerra è concretezza, pragmatismo e ragionevolezza.
La sconfittà per tutte e per tutti, il genocidio di un altro popolo che da oltre settant’anni vive senza vita vera, sopravvive nella sempre più esile speranza di poter un giorno riabitare le proprie terre, ritornare là dove sono nati e cresciuti o dove avrebbero dovuto nascere e crescere. La comunità internazionale ha un debito con i palestinesi, dopo averne avuto uno con gli ebrei per secoli.
Un debito da onorare, per mettere fine agli omicidi di massa, per riportare Israele entro i confini della liceità demoratica. Noi possiamo fare poco, ma se possiamo fare qualcosa facciamolo sostenendo la resistenza palestinese, lottando contro la disinformazione, contro l’alterazione della verità e il revisionismo storico e attualistico dei fatti.
MARCO SFERINI