Michele Paris
L’operazione suicida ucraina nella regione russa di Kursk continua a registrare violenti combattimenti e perdite pesanti, con le forze di Mosca che stanno lentamente riprendendo il controllo del territorio invaso a sorpresa all’inizio di agosto. Sullo scopo reale dell’iniziativa il dibattito resta aperto, ma almeno due conseguenze che essa ha determinato sul campo sembrano già essere acquisite. La prima è la nuova impennata nel numero di perdite di uomini e mezzi ucraini; la seconda l’accelerazione dell’avanzata russa sul fronte del Donbass, da cui sono state sottratte forze dai vertici militari di Kiev per essere dirottate appunto verso la probabilmente inutile operazione a Kursk.
Le vicende di queste settimane potrebbero segnare in ogni caso un punto di rottura nel conflitto, ovvero un cambio radicale nell’atteggiamento finora fin troppo prudente del Cremlino. Cambiamento provocato dal continuo superamento, da parte dei paesi NATO e del regime di Zelensky, delle “linee rosse” fissate più o meno ufficialmente da Mosca. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, è stato piuttosto chiaro a questo proposito durante un incontro con la stampa nei giorni scorsi. Le sue affermazioni vanno collegate direttamente all’azione di Kursk, ma anche alla discussione che sarebbe in corso tra Kiev e Washington per consentire alle forze ucraine di utilizzare missili a lungo raggio per colpire in profondità il territorio russo.
Lavrov ha avvertito, per cominciare, che la “dottrina nucleare” della Russia è in fase di revisione e chiarimento, cioè Mosca potrebbe abbassare la soglia al di sotto della quale è previsto l’utilizzo di armi atomiche. La minaccia si riferisce evidentemente alla possibilità di colpire con missili nucleari tattici obiettivi nei paesi NATO se le armi di questi ultimi saranno utilizzate dall’Ucraina contro obiettivi strategici ben dentro i confini russi. Per Lavrov, i negoziati attorno all’impiego di missili come gli “Storm Shadow” britannici, che potrebbero potenzialmente arrivare a Mosca o San Pietroburgo, confermano come l’Occidente continui a “giocare col fuoco”.
Da ciò deriva un’altra conseguenza dell’operazione a Kursk. Sempre Lavrov ha chiarito che i fatti di questo mese di agosto rendono impraticabile qualsiasi negoziato per mettere fine alla guerra. Ancora più chiara è stata sull’argomento la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, la quale ha escluso qualsiasi approccio diplomatico con il regime di Kiev dopo “l’attacco terroristico nella regione di Kursk”. La Zakharova ha anche rilevato la “piena complicità” dei governi occidentali nell’operazione, per poi ricondurre a Washington le origini del dilagare del terrorismo ucraino in Europa e non solo.
Come accade fin dall’inizio della guerra, l’assistenza americana in termini di fornitura di armi e di raccolta di informazioni di intelligence è stata determinante anche nell’avventura di Kursk. Circola tuttavia la notizia in questi giorni che dietro all’operazione ci sia il governo britannico, mentre l’amministrazione Biden avrebbe espresso malumori per i rischi di escalation con Mosca. È possibile che esistano differenze di natura tattica tra i due alleati e, in effetti, Londra e Washington fanno in genere riferimento a sezioni differenti del regime di Zelensky. Non solo, le maggiori preoccupazioni USA sono collegate alle imminenti elezioni presidenziali e al fatto che, nel caso il conflitto dovesse allargarsi, saranno in primo luogo gli americani a dovere intervenire. Simili notizie ricordano in ogni caso un gioco delle parti che, in Russia, non fa ormai più presa.
Ciò con cui deve fare i conti il Cremlino è piuttosto l’intensificarsi delle voci in Russia che invocano azioni punitive direttamente contro i paesi NATO che partecipano in maniera attiva alla pianificazione di attacchi responsabili di morti tra i civili russi e distruzione di edifici e infrastrutture quasi sempre irrilevanti dal punto di vista militare. Anche per questa ragione e per il pericolo che Ucraina e NATO spingano i paletti sempre più in là nel conflitto, è possibile che a Mosca si stia studiano un cambiamento di passo. Resta il fatto che l’atteggiamento di Zelensky e dei suoi sponsor, soprattutto europei, sta raggiungendo livelli di irresponsabilità senza precedenti.
L’ex comico insiste nel chiedere agli alleati più armi e la possibilità di agire liberamente contro la Russia, ma un’evoluzione della guerra in questo senso comporta, com’è sempre accaduto finora in occasione di provocazioni da parte ucraina, ritorsioni pesantissime da parte di Mosca. Va ricordato, a questo proposito, che la prudenza evidenziata da Putin non significa debolezza o incapacità di alzare a sua volta il livello dello scontro, bensì rappresenta una scelta strategica precisa, dettata da vari fattori, tra cui il contenimento delle perdite tra le forze armate russe e i civili ucraini e l’impegno a tenere aperto uno spiraglio per un’eventuale trattativa diplomatica con l’Occidente.
È evidente che il possibile cambio di marcia da parte russa comporterebbe seri rischi per il Cremlino. Dal punto di vista puramente militare, però, il superamento delle linee rosse autoimposte da Mosca avrebbe effetti devastanti sia sull’Ucraina, inclusa la cerchia di potere di Zelensky, sia su quei paesi europei maggiormente coinvolti nelle continue provocazioni ucraine. Se la Russia ha quindi davanti un dilemma cruciale in questa guerra, sono allo stesso tempo anche gli Stati Uniti e l’Europa ad avvicinarsi al momento in cui dovranno decidere se rischiare una guerra nel vecchio continente per il regime neo-nazista di Kiev o fare finalmente un passo indietro.
Tornando agli effetti dell’attacco ucraino nel “oblast” di Kursk, lo spostamento di brigate da destinare a questa operazione ha logorato ancora di più la linea di difesa nel Donbass. Il risultato è una rapida avanzata delle forze russe che stanno estendendo il controllo in città dopo città, infliggendo perdite giornaliere all’Ucraina che, secondo fonti militari di Mosca, superano le duemila unità al giorno. L’offensiva russa si sta concentrando in particolare sulla località di Pokrovsk, considerata uno snodo logistico cruciale per le forze ucraine in quest’area dopo la caduta di Avdeevka.
Kursk è in definitiva l’ennesimo colossale fallimento della pianificazione ucraino-occidentale delle operazioni di guerra. Il capo di Stato Maggiore ucraino, Oleksandr Syrsky, ha ammesso in una recente conferenza stampa che uno degli obiettivi dell’attacco era alleggerire il fronte del Donbass, forzando i russi a spostare i propri uomini a Kursk. Così invece non è andata, dal momento che le decide di migliaia di soldati inviati a fermare l’invasione ucraina sono per lo più riservisti dall’interno del paese, mentre nella regione del Donbass il personale militare è stato addirittura aumentato.
Inizialmente, Zelensky aveva affermato che il senso dell’attacco a Kursk andava ricercato nel tentativo di conquistare una parte di territorio russo per rafforzare la posizione dell’Ucraina in un ipotetico negoziato di pace. In seguito, le motivazioni proposte si sono moltiplicate. Assieme a quella già ricordata di Syrsky, va citata un’altra uscita di Zelensky per spiegare che gli uomini mandati al massacro oltre il confine russo dovevano essere un mezzo per intimidire il nemico e convincerlo ad accettare le assurde condizioni stabilite da Kiev per far cessare la guerra. Ancora, una ragione dell’attacco poteva essere la creazione di una zona cuscinetto per limitare i danni causati dall’artiglieri russa o per evitare una possibile invasione della regione ucraina di Sumy da Kursk.
Il chiodo fisso di USA ed Europa resta inoltre la destabilizzazione del governo di Putin, che avrebbe dovuto essere indebolito da un’invasione con morti tra i civili russi e il passaggio di una porzione di territorio sotto il controllo del nemico ucraino. Quali che siano stati i piani originari, i calcoli si sono rivelati totalmente sbagliati. È estremamente probabile che il regime di Zelensky si ritroverà così a breve in una posizione ancora peggiore, sempre con meno carte da giocare in caso di apertura di un percorso diplomatico.
Per l’Occidente, invece, l’avventura di Kursk ha sollecitato, almeno per un breve momento, la presunzione di infliggere una qualche umiliazione a Putin, così come la cricca al potere a Kiev intendeva mostrare di avere ancora delle potenzialità militari che giustifichino il persistere delle forniture di armi e denaro dai propri sponsor. In tutti i casi, l’iniziativa conferma la disperazione del fronte anti-russo e, per questo, della crescente pericolosità di una crisi che, nel bene o nel male, mai come oggi sembra essere vicina ad un punto di svolta
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