Qualche giorno fa, in un comunicato del Partito Comunista svizzero, si paventava il timore che la Confederazione Elvetica, dopo una quasi millenaria tradizione neutralista (seppure armata), abbandonasse questo suo status per prendere in considerazione l’ipotesi di schierarsi in tempi di guerre locali declinate sul piano globale.
Nello specifico, una commissione di studio sulla sicurezza dello Stato, dei cittadini e dello sport (curiosi accostamenti, ma così è…) aveva, in una lunga relazione, esposto i motivi per cui la neutralità doveva essere rivista, adattata ai tempi, resa in qualche modo “flessibile“.
I timori dei comunisti svizzeri non erano quindi campati per aria, frutto di qualche furore ideologico, di un’aria di complottismo di cui si fa largo uso dalle parti del pragmatismo bellicista quando si deve accusare di disfattismo i pacifisti o, in questo caso, i neutralisti storici.
C’è chi ritiene, ai vertici della Confederazione, che la Svizzera debba porsi sotto la protezione dell’Alleanza atlantica e che lo debba fare perché, letteralmente, «il netto deterioramento della situazione in Europa, caratterizzata da politiche di potenza, regioni in crisi sempre più destabilizzate e, soprattutto, dalla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina».
E siccome siamo in presenza di una riscoperta dell’asse militarismo imperialista – economia di guerra (e viceversa), persino nazioni che avevano consolidato una tradizione neutralista vacillano e temono di rimanere imbrigliate in giochi politico-strategici persino più grandi dei contesti di convivialità (si fa per dire…) istituzionale in cui si sono posti da decenni per un mercato comune, per una politica comune, per una difesa comune, per una politica estera altrettanto comune.
Di tutte queste aspettative, la sola che si è prepotentemente realizzata è quella della mercatizzazione dei rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea.
Tutto il resto è un etereo contorno paraideologico che serve a propagandare la bellezza dello stare insieme per permettere, alla fine, ai paesi più ricchi di ampliare i loro privilegi ed a quelli più indigenti di dipendere dai primi e di essere strangolati da meccanismi di strozzinaggio come il MES.
La rivisitazione della politica di neutralità elvetica non è fatto di poco conto: ci dice che le pressioni internazionali arrivano fino nel cuore dei paesi che avevano cercato di mantenersi equidistanti da una bipolarizzazione frutto delle tensioni costanti della Guerra fredda.
Dopo la fine di quel dualismo gelidamente combattivo, l’affermazione dell’unipolarismo nordamericano aveva consentito di trascurare per qualche tempo, nell’attessa del rafforzamento delle posizioni tanto in Europa quanto in Asia, il corteggiamento delle nazioni che, almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, si erano tenute equidistanti dai conflitti internazionali.
Per fare un sommario elenco: Svizzera, per l’appunto, Irlanda, Svezia, Finlandia, Turchia kemalista, Austria, Malta e Cipro. L’avvento del nuovo multipolarismo moderno ha vellicato i pruriti delle vecchie potenze e ha stimolato la corsa al riarmo.
Per questo la situazione si è fatta sempre più incandescente: perché l’espansionismo da ovest verso est e da est verso ovest è divenuto la cifra di misurazione di una politica neoimperialista nell’ambito di una contesa mondiale destinata a governare il liberismo di un turbocapitalismo in grande crisi strutturale.
La mancanza delle materie prime di sostentamento delle economie locali ha indotto, con ogni artifizio possibile (ergo con le guerre in primis), gli Stati Uniti d’America alle ipocrite “esportazioni” della democrazia in Medio Oriente e in Asia, nonché nella martoriata Africa.
Pace e neutralità dei tanti paesi un tempo “non allineati” sono divenute parole vuote, espunte dall’agenda di una politica di governo che ha, invece, mirato alla scelta del campo migliore per tutelare i propri esclusivi interessi.
È così andata in frantumi la teorizzazione di una terza via rispetto ai blocchi riemergenti, erede anche del neutralismo del passato ma, soprattutto, possibile figlia di un terzomondismo che aveva tentato la strada dell’equidistanza per provare a conoscere una indipendenza de iure e de facto, per uno sviluppo altrettanto tale.
Mentre l’Europa conquistava, secolo dopo secolo, l’intero pianeta e vi si espandeva col sistema coloniale, appropriandosi di tutto ciò che trovava nelle terre prima sconosciute, depredandole senza alcuna pietà o remora “cristiana“, lo sforzo del neutralismo pacifico faceva progressi là dove i conflitti erano stati più aspri e avevano tormentato le popolazioni per millenni: il caso della Svizzera è emblematico.
Il Patto dei Tre Cantoni, siglato nel 1291 da Uri, Schwyz e Unterwalden è una alleanza militare che, a poco poco, si trasforma in una lega che ha lo scopo dell’indipendenza dal Sacro Romano Impero prima e da tutti gli altri tentativi di occupazioni nazionaliste poi. Ma è soprattutto la difesa del ruolo economico-finanziario che ha assunto nel tempo la Confederazione il perno del neutralismo armato.
L’esercito elevitico si rafforza ma il governo non aderisce mai a trattati internazionali militari, anche se venduti alla spicciola demagogia politica dei singoli Stati come “alleanze difensive” (leggasi, in particolare, la NATO). Così, nonostante la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Svizzera resta splendidamente isolata nel suo cantuccio un po’ pusillanime, un po’ profittevole. E lo rimane fino ad oggi.
Cosa è cambiato di così radicalmente diverso dalle grandi tragedie del passato? Cosa ha spinto paesi come la Svezia e la Finlandia ad aderire alla NATO in funzione anti-russa? La minaccia di Mosca davvero è così enorme da lasciarsi andare nelle braccia dell’Alleanza atlantica e archiviare secoli di linea neutralista?
Oppure vi sono altri motivi che spingono la politica federale elvetica a muovere in questa direzione? I compagni svizzeri sottolineano che il Consiglio federale ha già approvato due progetti di partecipazione di Berna a piani della «Permanent Structured Cooperation (PESCO)» e dell’Unione europea (UE).
Particolarmente allarmante è il «Military Mobility» che concede la servitù di passaggio sul territorio della Confederazione a truppe di paesi dell’Unione ed a quelle degli Stati Uniti d’America.
I comunisti svizzeri stigmatizzano come le affermazioni contenute nelle risoluzioni del Consiglio federale tenutosi nei giorni scorsi (per la precisione i passaggi in cui si sottolineano gli «effetti positivi anche sugli impieghi della Svizzera all’estero, in particolare nel quadro del promovimento militare della pace») vadano nella direzione del sostegno alle politice belliciste della NATO; il che vuol dire aumentare la conflittualità con la Russia e non mettere mai fine alla guerra.
La quasi-fine della neutralità elvetica assume, proprio per le ragioni di cui sopra, il carattere di una eccezionalità a dir poco emblematica: evidenzia come l’esasperazione delle posizioni in campo sia arrivata ad un livello ormai irraggiungibile da una politica del dialogo, della diplomazia, del confronto.
Perché ciò che sta dietro alla guerra, le vere motivazioni che la muovono, è talmente enorme da essere, quanto meno apparentemente, inscalfibile. Non può essere evitato il dubbio, tutt’altro che amletico, sull’esistenza di ragioni economiche che inducono la Svizzera ad una sorta di partenariato con le cooperazioni europee e con la NATO direttamente.
Così facendo, Berna sceglie di stare dalla parte occidentale e il grigio colore del suo neutralismo, che campeggia su quasi tutti gli atlanti storici, sta per divenire un retaggio del recente passato. Quale legittimazione popolare, quale consenso abbia questa scelta politico-affaristico-militare è difficile poterlo dire. Di sicuro viene calata dall’alto della dirigenza federale elvetica.
Nessun referendum è stato proposto, come spesso accade nella Confederazione, per scegliere democraticamente quale decisione prendere nel merito. Tanto più che, da quanto si può leggere sui quotidiani d’Oltralpe, l’esercito starebbe proponendo corsi di addestramento e istruzione delle proprie truppe all’estero. Cade, dunque, l’ultimo tabu della neutralità di un pezzeto d’Europa nell’Europa stessa? Sembra sempre meno presto per poterlo dire.
La guerra divampa tra incursioni ucraine nella regione di Kursk, zone cuscinetto, avanzate russe nel Donbass e le consuete, ma non meno agghiaccianti, manovre militari e intenti governativi di fare ricorso, da entrambe le parti, ad armi sempre più pericolose e sterminatrici. In una escalation di questa natura, la neutralità avrebbe dovuto essere un punto di principio irrinunciabile per la Svizzera.
Ma gli interessi economici e finanziari hanno la meglio sui princìpi dacché il capitalismo si è esteso dal Vecchio continente fino alle lande di tutto il pianeta. Quindi non meraviglia che la direzione presa sia quella descritta fin qui. Per quanto concerne l’Italia, di neutralità nemmeno a parlarne, nonostante la nostra Costituzione deprechi il ricorso alle armi per la risoluzione delle cosiddette “controversie internazionali“.
I sondaggi dicono che quasi l’85% della popolazione dello Stivale è contraria tanto alla guerra quanto all’invio delle armi in Ucraina. Percentuali differenti, ma comunque sempre importanti, se si parla del “diritto di Israele” a difendersi mentre la Palestina tutta quanta brucia e la sua gentè è bantustanizzata, ghettizzata, privata di qualunque diritto umano, uccisa nel nome della supremazia etnico-religiosa dello Stato ebraico.
La dicotomia che si riscontra tra ciò che i popoli pensano e ciò che i governi fanno è una rappresentazione traumatica della lotta tra le classi sociali: chi rappresenta gli interessi delle piccolissime minoranze di straricchi alimenta i focolai bellicisti; chi invece è la stragrande maggioranza della nazione subisce le conseguenze della tutela e della preservazione assoluta di questi canestri di privilegi indecenti.
Appuntavano giustamente su “Limes” che la guerra d’Ucraina sta cambiando il mondo. La vicenda elvetica ne è una conferma. Purtroppo, anche in questo caso, l’Europa è una disponente corifea di una volontà altra da quella che dovrebbe potersi esprimere nel consesso para-democratico del Parlamento di Strasburgo. La Commissione di Ursula von der Leyen è la regista e la sceneggiatrice di una pantomima che prova a fare dell’europeismo un valore, ma subordinato al dettame nordatlantico.
Altrimenti, invece di “pantomima“, la si sarebbe potuta differentemente definire. Ma, soprattutto in tempo di guerre, quandunque sempre, è bene essere schietti e chiamare fatti, eventi, cose e persone con il loro vero nome. Il conflitto in Ucraina è un terreno di scontro tra due imperialismi che accrescono l’instabilità globale e che fanno persino vacillare la millenaria tradizione elvetica sulla neutralità armata. Ora può cambiare nome: riarmo neutrale.
Suonerà un po’ strano, ma così e se vi pare…
MARCO SFERINI
foto: screenshot ed elaborazione propria