Fabrizio Casari 

A circa due settimane dal voto che ha confermato il Presidente Nicolas Maduro alla guida del Venezuela, l’offensiva golpista guidata dagli Stati Uniti non cessa e il clamore mediatico e politico che si alza sul dettato diffuso da Washington produce un clima di scontro con cui si tenta di intorbidire la vittoria politica del chavismo.

Sul riconoscimento della legittima vittoria di Maduro non hanno avuto dubbi da subito né il Nicaragua, né Cuba, quindi Bolivia e Honduras ed ora Messico. A rafforzare la legittimità delle elezioni venezuelane è stata soprattutto l’ALBA, che a seguito di una riunione straordinaria convocata per esaminare la situazione ha espresso la totale ed incondizionata solidarietà con il Venezuela ed il suo governo sotto attacco imperiale.

La risoluzione dell’ALBA ha una importanza che va oltre la sua stessa dimensione, perché dà voce ad un blocco di paesi che, insieme al Venezuela, rappresentano l’alternativa di modello nel continente latinoamericano. Che rivendica, in premessa, sostanza e prospettiva, lo sganciamento dei paesi latinoamericani dal Washington Consensus e si sottrae ad ogni tentativo di ingerenza negli affari interni da parte di paesi terzi, siano essi rappresentanti del centro dell’impero (USA e UE) o della sua periferia (Cono Sud o Centroamerica).

Lo sfondo geopolitico sul quale il Venezuela e gli altri paesi ALBA sono allineati vede una idea dell’integrazione e cooperazione latinoamericana associata a quella politica di delineare un continente indipendente, composto da stati sovrani, che prenda atto del valore politico oltre che materiale del suo patrimonio di risorse e che, sulla base di questo come di una storia, una cultura ed un idioma condivisi, possa dar vita ad una dimensione di grandissimo peso negli equilibri internazionali.

Che gli Stati Uniti abbiano l’ossessione del Venezuela è dato storico e prospettico, lo sanno tutti (e soprattutto i suoi camerieri de habla hispanica a Sud del Rio Bravo). Colpi di stato e tentativi di assassinio, fomento di destabilizzazione, sequestro dei suoi beni, furti delle sue società e aggressioni internazionali hanno costituito l’essenza principale della politica statunitense verso Caracas. Il Venezuela è destinatario di 930 sanzioni statunitensi ed europee, che sono costate immense difficoltà allo sviluppo del Paese, che ha indubbiamente risentito di scelte di politica economica poggiate sull’emergenza più che sulla programmazione.

Da parte statunitense c’è una lettura a breve termine ed una strategica che coincidono sull’importanza di Caracas. Per la prima si deve considerare che dal Golfo Persico il petrolio giunge sulle coste statunitensi dopo 44 giorni di navigazione; se però partisse dall’Orinoco, i giorni di navigazione sarebbero 4. Considerando il costo di almeno 400.000 euro giornalieri per la navigazione, si può desumere l’entità dei valori democratici che animano le proteste statunitensi. Del resto essere in possesso della più importante quota mondiale di petrolio convenzionale e non convenzionale, della maggior riserva mondiale di acqua dolce, di grandissime quantità di terre rare, oro, biosfera e ferro, rappresenta un quadro di fortissimo interesse per le multinazionali statunitensi e per le sorti stesse delle proporzioni di ricchezza globale nelle mani dei due diversi blocchi.

C’è poi la parte strategica, perchè se l’ansia storica di impadronirsi delle risorse venezuelane è stato il motore dei ripetuti colpi di stato e la perpetrazione ad infinitum dell’ingerenza USA, oggi l’allarme della Casa Bianca assume valore ulteriore, dal momento che il Venezuela è appoggiato non solo dall’ALBA ma anche da Russia, Cina e Iran, ovvero di due dei fondatori e di uno dei prossimi partecipanti dei BRICS, dei quali il Venezuela è entrato ufficialmente a far parte. Considerando il petrolio russo irraggiungibile dall’Occidente per via delle sanzioni e tenendo conto di come l’Arabia saudita (anch’essa nei BRICS) non sia più un alleato di ferro degli USA, la questione dell’approvvigionamento occidentale degli idrocarburi diventa questione molto delicata.

Sul Venezuela, sulla sua legittimità democratica e sulla gestione delle sue ricchezze (il Presidente Maduro ha informato di come la politica economica del paese entrerà in una logica nuova, affine ai BRICS che rappresentano il Sud globale) si propone un altro terreno dello scontro geopolitico a carattere ormai pressoché universale tra l’unipolarismo imperiale e la democrazia multipolare per stabilire quali debbano essere le regole della governance internazionale.

Il modello di democrazia

Quanto alle pretese di democrazia si dovrebbe far appello al senso del ridicolo se non alla memoria storica. E’ risaputo come gli USA siano stati gli inventori del più clamoroso e farsesco sfregio alle norme della democrazia e del Diritto Internazionale quando, con un tweet del suo nazi vicepresidente del tempo, Mike Pence, decisero che Juan Guaidò, mai candidato alla presidenza, era da allora il presidente del Venezuela. Solo un aggregato di servitori silenti come la OEA poteva riconoscere la sua nomina ed è per questo che oggi, di fronte alle accuse di elezioni fraudolente, sarebbe bene ricordare che i paesi latinoamericani che riconobbero Guaidò come presidente, sono gli stessi che non riconoscono Maduro come legittimo Presidente. Almeno nello sfregio alla decenza, in spregio al senso del ridicolo, si apprezza una certa coerenza.

Nemmeno il pronunciamento del Tribunale Supremo venezuelano ha placato l’ansia golpista che percorre quella parte dell’America Latina che si toglie il cappello di fronte alle intemerate del padrone. I firmatari di mancati riconoscimenti pur di essere riconosciuti, sanno benissimo che il sistema elettorale del Venezuela rende le frodi praticamente impossibili e che l’autonomia dei suoi organi costituzionalmente indipendenti rappresenta una garanzia maggiore di quella dell’indipendenza dei rispettivi paesi irriconoscenti.

Dapprima hanno detto che avrebbero atteso la pubblicazione delle schede (come se nei loro rispettivi paesi questo succedesse). Poi hanno affermato di voler attendere il pronunciamento del Tribunale Supremo per suffragare l’effettiva credibilità del risultato (come se nei loro paesi detto procedimento avesse mai avuto luogo) e infine, dopo il pronunciamento di tutti gli organi costituzionali indipendenti (CNE e TSJ) che confermano il risultato, hanno comunque dichiarato di non riconoscerlo.

Parlano di difesa della democrazia che sarebbe prioritaria e di valore superiore alla difesa della sovranità nazionale. Qui sta il terreno pubblico della distanza tra i paesi dell’ALBA e quelli a trazione Nord del continente.

L’idea che la democrazia abbia una supremazia intrinseca nei confronti della sovranità è come minimo discutibile. In primo luogo perché quando si parla di democrazia bisognerebbe intendersi sul quale tipo e con quale modello si applica; in secondo luogo perché immaginare una democrazia che prescinde dalla sovranità nazionale significa proporre un modello esogeno, imposto da fuori.

Tutti sappiamo che l’idea di una democrazia da esportazione (con modello ultraliberista annesso) è la democrazia a guida statunitense. Ovvero quell’idea che dalla premessa alla conclusione rinnega la concezione della democrazia tramandatasi da Atene ad oggi. Si tratta di un tema a svolgimento unico: per gli USA la democrazia di fonda sulla libertà degli affari, sulla sovranità dei mercati su di essi e sulla prevalenza della finanza sulla politica; l’Occidente è portatore sano di democrazia e ne rappresenta gli indirizzi strategici; gli Stati Uniti sono rappresentanza e leadership dell’Occidente. Per conseguenza, la sola democrazia consentita è quella a modello statunitense.

Siffatto schema risulterebbe già difettoso in linea di principio in qualunque parte del mondo ma se pure in alcune aree come l’Europa potrebbe trovare una parziale allocazione, risulta incredibile posto in un’area del mondo come l’America latina, che dell’egemonia violenta degli Stati Uniti è stata il principale obiettivo dai tempi della Dottrina Monroe (1803) e che ha pagato con il suo sottosviluppo lo sviluppo statunitense e con la sua impotenza il ruolo USA di superpotenza.

E’ evidente come la sottocultura entreguista, che assegna all’America Latina l’unico destino di crescita posizionandola nella raccolta delle briciole che cadono dal tavolo anglosassone, si presenti oggi con caratteri simili a quelli visti durante le decadi dell’orrore con le dittature militari instauratesi tra i primi anni ’70 e durate fino ai primi anni ’80. Cessarono le funzioni quando per gli USA divennero scomode, impresentabili e impossibili da sostenere mentre si affermava nuova la teoria dei diritti umani e dell’ingerenza umanitaria come concezione ideologica dell’impero unipolare.

La differenza tra quel modello di dominio e quello di oggi, che tiene insieme controllo sui mercati e presenza militare, è che la forma attuale è calibrata sulle sfide di questo millennio. Che sono, in primo luogo, la contrapposizione con la Cina e la Russia che in America Latina sono protagoniste di investimenti e accordi di cooperazione che terrorizzano Washington.

Nel caso specifico delle elezioni in Venezuela il triangolo di sommo interesse per gli USA (Brasile, Argentina, Cile) ha risposto unitariamente, pur con accenti e toni diversi, allineandosi a Uruguay, Paraguay, Perù, Ecuador, Costa Rica e Guatemala. L’ipocrisia di questo blocco che svolge il ruolo d’intendenza per le pretese statunitensi dipinge con chiarezza, al netto di sfumature, la sua identità politica che sembra potergli far assumere le sembianze dell’ex Gruppo di Lima. Essi infatti acconsentono, non a caso, alla consuetudine dell’estrema destra continentale che prevede il riconoscimento del risultato elettorale solo se e quando siano i suoi candidati a prevalere, come fecero Trump nel 2021, Bolsonaro nel 2022, Milei nel 2023 ed ora Machado nel 2024, della quale il candidato ufficiale, il criminale assassino Edmundo Gonzales, è solo il suo ventriloquo.

Il Venezuela, sostenuto da Nicaragua, Cuba, Bolivia e Honduras, proseguirà nel riposizionamento di alleanze e differendo nel quadro continentale. La sfida per un continente diverso, finalmente in possesso dele sue ricchezze e della sua sovranità, è aperta.

La storia del continente parla chiaro. Vi sono e vi saranno sempre coloro che preferiscono abdicare a vantaggio delle potenze straniere ma questo non impedirà la conquista costante di spazi a favore dei liberatori latinoamericani. Com’è noto, benché entrambe le specie volino, le aquile non somigliano per nulla agli avvoltoi

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/10403-venezuela-aquile-e-avvoltoi.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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