A una settimana dall’arresto di Pavel Durov, il fondatore e CEO di Telegram, il futuro della celebre piattaforma di messaggistica continua a restare incerto. Durov è stato accusato di complicità nel traffico di droga, nel terrorismo, nei crimini pedopornografici, a causa della «mancanza di moderazione dei contenuti sulla piattaforma e della scarsa cooperazione con le forze dell’ordine». Quello che sta avvenendo in questi giorni in realtà è l’ennesimo braccio di ferro tra governi, magistratura e Telegram per aver il controllo su uno strumento che fa paura e gola a molti. 

Già nel 2018 il governo russo aveva cercato di bloccare Telegram, fallendo nella sua impresa. Adesso è la volta della Francia. È superfluo sottolineare come il potere esercitato da Telegram nel campo dell’informazione e della controinformazione, il pericolo che rappresenta questa piattaforma nel propagare contenuti che i governi, specialmente in regime di guerra, non hanno interesse nel diffondere è un tarlo che agita i sonni di parecchi governanti.

Nel corso degli anni infatti Telegram è divenuta una sorta di social alternativo usato da perseguitati politici, rifugiati, giornalisti, ma anche dalla criminalità organizzata, dalla mafia, da chiunque volesse servirsi di questo canale per avviare conversazioni private, non soggette a controlli esterne o a censure preventive. 

Se escludiamo quelle sacche di criminalità organizzata che si servono di Telegram come del Dark Web per condurre i loro traffici, la popolarità e la diffusione di Telegram testimonia qualcosa di ben più importante: il fallimento dei media tradizionali di fare informazione. I 900 milioni di utenti che hanno scelto di usare Telegram cercano canali alternativi dove poter leggere e diffondere messaggi che altrimenti corrono il rischio di essere censurati da piattaforme come Meta e TikTok. Questa necessità ha a sua volta aperto la strada alla diffusione incontrollata di fake news, che soprattutto su Telegram hanno trovato una facile via d’accesso. Tutto ha avuto inizio dalla stessa radice: la censura. Il problema della censura sui social network non è nuovo: nel corso degli anni sono stati migliaia gli account silenziati, i post scomparsi, le pagine oscurate, i video rimossi senza alcuna ragione, in apparenza almeno.

Emblematica la decisione presa il 9 luglio, quando Meta ha aggiornato la sua policy in riferimento all’utilizzo del termine «sionismo» sulle sue piattaforme. Già da tempo per quanto riguarda la guerra tra Israele e Palestina, o più precisamente il genocidio della Palestina, Meta ha messo in atto una censura sistematica volta a silenziare i sostenitori della causa palestinese. Deborah Brown, la direttrice di Human Rights che ha condotto un’indagine sui contenuti rimossi da Meta, ha dichiarato che: «Meta starebbe soffocando le voci a sostegno dei palestinesi di Gaza, in un momento in cui subiscono sofferenze indicibili e avrebbero più bisogno del sostegno internazionale». Ma la censura nei confronti dei contenuti pro Palestina è soltanto il culmine di un processo molto più vasto e che aveva già avuto inizio da lungo tempo.  

Lo scorso febbraio Adam Mosseri, Ceo di Instagram, aveva annunciato che Meta avrebbe limitato fortemente la diffusione di contenuti politici su Threads e Instagram.

Più intrattenimento e meno post politici, è stato lo slogan della «nuova» linea rivendicata da Meta. I post che trattano di politica e gli account che se ne occupano non saranno più consigliati dalla piattaforma e non appariranno più nei feed degli utenti, il che equivale a una censura di fatto se non di nome. Una censura ancora più subdola di una censura dichiarata, poiché quando la censura è indiretta, nascosta, tanto invisibile quanto pervasiva, diventa molto più difficile contrastarla.

Meta ovviamente ha sempre sostenuto di aver adottato questa scelta per migliorare «l’esperienza dell’utente». Alcuni obietteranno: ma non è meglio in fondo?  La «politica» è una cosa sporca, fastidiosa. Per molti oggi la politica, quella cosa che per gli antichi greci significava democrazia, che per gli antichi romani era la res publica, la cosa pubblica, un privilegio concesso ai pochi e non ai molti, un privilegio per cui valeva battersi e morire, oggi è stata svuotata di senso, significato e valore. 

Ma per capire fino in fondo la portata della decisione presa da Meta, e l’impatto che avrà sulle nostre vite, occorre innanzitutto porsi una domanda. Chi decide cosa è un contenuto politico? Un video dei massacri che stanno accadendo a Gaza è politico? Un post di denuncia contro il sovraffollamento delle carceri italiane? Una riflessione sulla guerra in Ucraina? Il manifesto di un’associazione in difesa dei diritti delle donne? E ancora: un approfondimento sulla vita nella Germania nazista non ha implicazioni politiche? Un’analisi dell’Iliade non va a toccare «temi di natura politica?»

La letteratura è politica. La filosofia è politica. L’arte è politica. Politica intesa non come «vota questo o quel partito», ma intesa come riflessione, partecipazione e analisi critica di ciò che significa vivere, amare, pensare, dialogare nel mondo di oggi e di ieri. Una delle più grandi opere del mondo Occidentale, L’iliade parla dello scontro tra due civiltà, è il racconto delle gesta di grandi eroi e di uomini assetati di potere che vorrebbero dominare il mondo e di innocenti che muoiono in modo tragico a causa di una guerra voluta dai potenti. Non è politica questa? Nei grandi romanzi russi la filosofia, la politica e la letteratura sono un tutt’uno. Delitto e castigo è la storia di un giovane che si ribella alle leggi della società e mette in discussione tutte le fondamenta della società in cui vive. L’arte di Van Gogh, la sua volontà di scegliere come soggetti dei suoi dipinti poveri diavoli, contadini, diseredati, è una scelta politica. È uno schiaffo politico bello e buono ai costumi e alla società del XIX secolo La colazione sull’erba di Manet, come lo fu Il Guernica di Picasso nel XX secolo.  

La politica permea ogni pagina della nostra letteratura, della nostra arte, della nostra storia, della nostra filosofia. Eliminare dai social i temi di «natura sociale e politica» non significa soltanto togliere spazio e visibilità ai partiti, agli attivisti, ai giornalisti, significa fare a meno di tutta la nostra arte, storia e letteratura. Tutto ciò che suscita riflessioni, dibattiti, che stimola analisi critiche può essere «oscurato» e rimosso in modo arbitrario da un sistema cha ha rivendicato il diritto di censurare quei contenuti che, per ragioni politiche è chiaro, non approva. Ecco perché in questo momento non bisognerebbe soltanto domandarsi quale sarà il futuro di Telegram, se verrà chiusa o sostituita da un’altra applicazione simile e se l’amministratore di Telegram riuscirà a contestare le accuse che gli sono state mosse, ma bisognerebbe innanzitutto domandarsi: la censura messa in atto da Meta ma anche da piattaforme come TikTok è compatibile con il nostro concetto di democrazia, libertà di stampa, di parola e di opinione? Fino a quando saremo disposti a tollerare l’esistenza di questi sistemi che decidono in modo arbitrario quali opinioni è lecito avere e quali verità bisogna «oscurare»? Perché nessuno o quasi sembra interessato a limitare e a normare il potere di queste piattaforme che esercitano un’influenza tanto considerevole sul nostro modo d’informarci e di fare politica e di conseguenza sulla nostra stessa vita?

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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