di Marco Sferini

Più volte è capitato di rilevare come lo “stato sociale” si sia configurato, nel corso del Novecento, come un felice prodotto (era questa l’espressione che mi piaceva sempre usare nel descriverlo) di quel socialismo reale e irrealizzato dell’Europa dell’est e, nello specifico, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Qui non si tratta affatto di fare del melenso nostalgismo di un gigante dai piedi di argilla, per quanto importante e determinante (anche per l’oggi) sia stato il suo intervento sullo scenario della storia dell’umanità e del mondo.

Qui semmai, in questo 2024 di guerre multipolarizzate e fintamente regionali, il ruolo della rete di protezione e di garanzia dei diritti fondamentali per ogni cittadino e ogni essere umano (verrebbe da estendere il concetto ai viventi tutti quanti, ma è un salto di qualità ancora poco visibile…) è richiamato in causa dal rapporto esposto da Mario Draghi sul “Futuro della competitività” nell’Unione Europea e al di fuori di essa, per i rapporti di politica estera che dovrà inanellare nell’immediatezza.

In sessantadue pagine fitte e dettagliate, l’ex presidente della BCE espone il modello di liberismo che il Vecchio continente deve abbracciare se vuole sopravvivere al multipolarismo delle oligarchie economico-finanziarie tanto statunitensi quanto cinesi. Perché non c’è più nessun dubbio sul fatto che questi due enormi pianeti dell’espansione capitalistica moderna e di nuovissima generazione siano i giganti con cui la mediocrità europea deve fare i conti.

Attorno a Washington ruota l’asse atlantico di una economia di guerra permanente. Attorno a Pechino ruota, invece, un asse alternativo che va dai paesi BRICS fino ai tanti simpatizzanti di un antiamericanismo che la Cina popolare interpreta ottimamente per sviluppo quasi antropologico, per mutazione costante di un regime di vita che ha mescolato elementi di para-socialismo ed economia di mercato. Draghi, così, applaudito da un Partito Democratico che non perde occasione per mostare il suo interclassismo, espone un manifesto in cui sono due i protagonisti: il riarmo e il debito comune su cui il primo ha da fondarsi.

Che ne sia consapevole o meno, il PD dovrebbe però fare un po’ pace con le proprie pulsioni interne e decidere se vuole essere un partito di sinistra moderata e riformista, oppure se vuole invece mettere il suo conclamato riformismo al servizio delle coordinate finanziarie del capitalismo continentale e, di conseguenza, subordinare ogni proposta sociale al liberismo in nuova salsa draghiana. In realtà ciò che andrebbe radicalmente messa in discussione è l’archittettura dell’Unione Europea e il suo essere diventata, nel corso degli ultimi trent’anni, un conglomerato di Stati che obbediscono a regole mercatiste.

E solo a queste. Senza poter avere una politica comune in materia di diritti sociali, civili ed umani e, soprattutto, senza la benché minima prospettiva – soprattutto in questi ultimi anni di guerra in Ucraina – di un consolidamento di una politica estera. Sostiene Draghi, e con la ragione dell’economista che ha dalla sua il polso del pragmatico nume tutelare del capitale del XXI secolo, che soltanto creando un debito comune europeo si possono affrontare sfide comuni capaci di fronteggiare la competizione tra USA e Cina.

Rimane il problema della contraddizione di avere una moneta senza uno Stato. L’Euro è la valuta continentale, ma il continente non è uno Stato. I più attenti tra i costituzionalisti ed esperti del diritto internazionale, definiscono l’Unione come qualcosa di simile ad una confederazione che, però, confederazione non è. Siccome il Prodotto Interno Lordo della UE, almeno dal 2013 a questa parte, è un quarto di quello mondiale, la domanda non è poi così trascurabile e banalizzabile: come può l’Europa essere competitiva rispetto a Pechino e Washington se manca della caratteristica prima della sovrastruttura, ossia l’organizzazione politica dell’economia di un popolo?

Se esiste una risposta in merito, di sicuro non è quella di Mario Draghi che, infatti, mette al primo punto lo sviluppo sociale di un continente in relazione ad una politica estera che può esistere soltanto se corroborata dall’impulsività del bellicismo nordatlantico: ottocento miliardi all’anno per salvare una economia continentale che dovrebbe fingere di essere popolare e solidale e che, invece, sarà esclusivamente calibrata sulle necessità di un asse prestabilito tra Washington e Bruxelles. C’è, quindi, della voluta finzione nella ricerca di un ruolo terzo dell’Europa rispetto ai poli globalizzatori americano ed asiatico.

Draghi auspica e profetizza una necessità di crescita del cinque percento annuo per poter realizzare una sorta di nuovo “piano Marshall”, di ancora di salvataggio e di rilancio al tempo stesso per i Ventisette. Un tasso di crescita che nemmeno negli anni Quaranta del Novecento si era potuto raggiungere: quando, osservando cifre e potenzialità, i paesi più distrutti dal secondo conflitto mondiale erano anche quelli su cui maggiormente si andava investendo (la Germania per prima ne è, nonostante la divisione tra Repubblica Federale e Repubblica Democratica, un esempio eclatante.

Il fatto è che all’unione monetaria, peraltro non condivisa da tutti gli Stati membri, non è venuto corrispondendo nel tempo (almeno dal Trattato di Maastricht, quindi dal 1992 in avanti) un progetto di unione politica. Che questo fosse previsto, è fuori di dubbio. Ma le differenze sono davvero tante: non siamo in presenza di una cultura unica e immediatamente unificante. Non parliamo la stessa lingua. Alcuni degli Stati della UE sono quasi millenari (Portogallo, Danimarca), altri sono di recentissima formazione e ricostituzione (si pensi ai Paesi Baltici, indipendenti dopo la Prima guerra mondiale, annessi all’URSS e poi tornati allo status di inizio Novecento proprio alla fine del “secolo breve).

Negli anni Settanta, tormentati dalle lotte sociali, i capitalisti sono corsi al riparo con la torsione liberista che, per quanto fosse condizionata dalle loro scelte di mercato e di borsa, li ha avvilupati e strutturalmente li ha costretti a subire gli effetti di quella che si è venuta definendo la “stagflazione” della modernità economica tanto europea quanto intercontinentale. Qui è nato il presupposto quasi ideologico di una indipendenza bancaria dell’Europa che avrebbe dovuto trasformarsi in qualcosa di più della Comunità Economica e in qualcosa forse di meno di una teorizzazione al di qua dell’Atlantico di una sorta di “Stati Uniti“.

Ed è proprio in questo contesto che lo stato sociale richiamato all’inizio di queste righe è diventato comprimario, e poi via via sempre più gregario, della necessità di anticipare il futuro dell’Europa sulla pietra angolare di una moneta che non sarebbe stata, caso piuttosto singolare nella storia dell’umanità e della numismatica, la divisa di uno Stato unitario, ma lo Stato stesso dell’Unione. Di più ancora, i padri e le madri di questa UE hanno, dopo il Parlamento di Strasburgo, creato anche un altro soggetto proprio di qualunque entità organizzata di un popolo su un territorio: una Banca centrale.

Mario Draghi, a distanza di oltre trent’anni da Maastricht, non mette in discussione l’intero impianto per proporre, ad esempio, una riconsiderazione non solo dei rapporti tra gli Stati dell’Unione, ma una nuova Unione, sia pure dal suo punto di osservazione che è, nemmeno a dirlo, quello che fino ad oggi ha tentato l’equilibrismo tra una confederazione senza un vero governo, senza essere uno Stato propriamente detto e fatto, ma con una economia abboracciatamente unificata nell’Euro e nei dettami della BCE. La sua proposta è, sul piano delle relazioni interne, per poter approvare più facilmente i progetti di consolidamento di una economia di guerra solida e capace di reggere gli urti del multipolarismo, la fine delle decioni unanimi.

Serve una maggioranza qualificata con cui i più diligenti e produttivi Stati governeranno un’Unione a trazione mitteleuropea, permettendo quindi il consolidamento di una progettualità che guardi al – citiamo testualmente – «consolidamento di una capacità industriale di difesa indipendente». La competitività con gli Stati Uniti e la Cina, così, si andrebbe esprimendo nell’omogeneizzazione produttiva che, per poter essere tale, ha bisogno ovviamente di essere svincolata da pianificazioni, permettendo ai singoli Stati di coordinarsi e di coordinare le industrie di armamenti: produrre un solo tipo di carro armato, invece che venti differenti.

Questo è per Draghi il piano dello sviluppo del futuro di una Europa che deve fingere di investire ottocento miliardi in traduzione politica e organizzativa del sociale, mentre ne impiegerà (qualora fosse in grado di poter dare seguito ad una potenza di crescita del cinque percento annuo nelle condizioni continentali e globali date…) la maggior parte nell’implementazione dell’industria bellica, del riarmo e della continuazione dei progetti NATO sull’oltre due percento del PIL degli Stati europei per la guerra in Ucraina. Tutte, o quasi, le contraddizioni insite nell’Unione subirebbero un rivoluzionamento se si creasse un debito comune.

Questa è l’analisi più pragmaticamente logica di Draghi. Ma, se i presupposti – come li legge il PD – appaiono lodevoli, l’intenzione è ben altro che tale: l’obiettivo è mantenere la UE in questo stallo a-statale, pienamente bancario-finanziario e piegato, oltretutto, al regime economico di guerra. Viene da dire: ma in tutto questo, il Parlamento di Strasburgo quale oggettivo, concreto ruolo può avere nella modificazione dei progetti iperliberisti di Draghi e von der Leyen? I margini di manovra sono così stretti? Sì, se forze che dovrebbero essere, quanto meno, socialdemocratiche, assumono nuovamente il ruolo di corifei del capitalismo continentale.

La sinistra dovrebbe invece rivalorizzare il ruolo dello stato sociale e unire i movimenti, affiancarsi ai sindacati, condividere le lotte studentesche e per l’ambiente in un progetto di alternativa al draghismo che è, oggi più che mai, teorizzazione e pratica del liberismo sfrenato, della postulazione della guerra come energia innovatrice e rinnovatrice dello sviluppo europeo. Draghi osserva, valuta, scrive e propone: c’è la guerra che coinvolge Ovest, Europa ed Est. I tre poli su cosa possono competere di più se non sull’attuale aumento di fatturato delle aziende che costruiscono aerei, carri armati e armi in generale?

Non c’è che dire: la nuova agenda Draghi va verso il riarmo come costutto ideologico-politico-economico di una Europa che è inaccettabile. La sinistra moderata può ancora farcela a riconsiderare le sue posizioni, per essere critica in tal senso, per uscire dalla voluta ambiguità in cui si è infilata, per provare a fare, per una volta, gli interessi delle classi più disagiate e meno tutelate. Per stare, come la sinistra di alternativa, dalla parte del lavoro, della pace e di un nuovo stato sociale. Non è mai troppo tardi…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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