Alfio Mastropaolo

Alla faccia di tanti appassionati nostrani, che poco ne conoscono i difetti intrinseci, la Vª Repubblica francese si è, a lungo andare, incartata. Forse è il destino di tutti i regimi. Nessuna costituzione è la più bella del mondo. Nessun regime è perfetto. Il tempo li consuma. Non sempre riescono ad aggiornarsi al mutare delle condizioni sociali, politiche, culturali ecc. intorno a loro. Si chiedono loro prestazioni che chi li aveva fabbricati non aveva immaginato. Reggono per un certo tempo, riescono a volte ad adattarsi, ma talvolta non ce la fanno. Complice anche l’errore umano. I regimi che chiamiamo democratici, perché vi si svolgono libere elezioni, non sono più resistenti di altri.

La costituzione francese istituiva in partenza un’autorità monocratica, in mano al capo dello Stato, senza prevedere troppi contrappesi. Questi gli elementi fondamentali: potere di nomina del primo ministro attribuito in esclusiva al capo dello Stato; mancata necessità – contrariamente alla maggior parte dei regimi parlamentari – della fiducia dell’Assemblea nazionale al primo ministro, contro cui è possibile, a cose fatte, presentare una mozione di censura; ordine del giorno dell’Assemblea nazionale dettato dal Governo; possibilità del Governo, secondo l’ormai ben noto comma 3 dell’art. 49 della Costituzione, di adottare un testo di legge senza approvazione parlamentare; controllo sulla legislazione da parte de Consiglio costituzionale, che, peraltro, non è una corte ed è un organo fortemente politicizzato, di cui fanno parte di diritto gli ex-presidenti della Repubblica.

La costituzione del ’58 nacque, conviene ricordarlo, in una situazione di guerra civile, che aveva fatto collassare la IVª Repubblica. Non fu lui a scriverla, ma fu sottoscritta da un generale, Charles de Gaulle, molto conservatore e nazionalista, di simpatie monarchiche prima della guerra, che odiava i partiti e ma ch, aveva avuto il merito di avere rifiutato la resa alla Germania nazista e di avere guidato con grande determinazione la lotta di liberazione. Invocato come salvatore della patria, sorretto da una solida coalizione di interessi in cui spiccava l’alta fonction publique, De Gaulle sottoscrisse una nuova costituzione in odio ai partiti, accusata a quel tempo di una curvatura bonapartista. Se non che, in quella stagione politica la vita politica francese era animata da partiti abbastanza forti, specie il PCF, da un vivace mondo intellettuale, da una stampa indipendente, da sindacati agguerriti. Numerose erano le personalità politiche di grande autorevolezza, tanto a destra quanto a sinistra. Nessun Presidente ha mai avuto poi il prestigio di de Gaulle, ma, salvo qualche forzatura episodica, nessuno ha mai esagerato nell’esercizio dei suoi poteri. La costituzione del ’58 è pertanto sopravvissuta al suo autore e si è nella pratica adattata.

Si è adattata alla grande svolta del 1981, quando l’unione delle sinistre, guidata da Mitterand, ha rovesciato il lungo predominio della destra. Si è adattata alla svolta neoliberale, che la Francia ha sperimentato già dal 1984, con l’estromissione dei ministri comunisti dal governo. È sopravvissuta anche a una novità che in partenza non era stata prevista: la coabitazione tra un presidente di un colore politico e una maggioranza parlamentare di colore diverso. Il presidente ha seguitato a usare i suoi poteri, specie in materia di politica estera e di difesa, ma ha sempre nominato un primo ministro indicato dai partiti che avevano vinto le elezioni. Eppure, malgrado le coabitazioni non abbiano mai provocato inconvenienti eccessivi, è presto iniziato il tormento della coabitazione, accusata di vanificare il potere del presidente, di creare contrasti disfunzionali con il capo dell’esecutivo, di incrinare la coerenza dell’azione di governo e perfino la coesione nazionale. La coabitazione più sofferta è stata forse quella tra Chirac e Jospin (1997-2002), che si è conclusa con la riduzione della durata del mandato presidenziale da 7 a 5 anni e l’inversione del calendario elettorale. Contrastata dalla destra estrema, da parte di quella moderata, non gradita a Chirac, la riforma è stata promossa soprattutto dai socialisti. Che si volesse ridurre il lunghissimo mandato del capo dello Stato è comprensibile. L’inversione del calendario elettorale – prima le presidenziali e poi le legislative – intendeva a sua volta ridurre al minimo le possibilità, o i rischi, della tanto esecrata coabitazione. L’idea di escluderla corrispondeva a un modo diverso di pensare il regime democratico, che non vuole porre restrizioni all’autorità del Governo. È un’idea che circola dappertutto da tempo e che ha stroncato l’inclinazione compromissoria che dal dopoguerra aveva improntato i regimi democratici. Nel 2008 di aggiornamento ce n’è stato un altro, che ha dato qualche spazio in più all’Assemblea e ha vietato più di due mandati consecutivi al presidente, senza scalfirne più di tanto il primato. Finché, come capita, il diavolo – il popolo – non ci ha messo la coda.

Andiamo per ordine. I tempi erano cambiati. Chirac è stato rieletto per cinque anni nel 2002, dovendo confrontarsi al ballottaggio col leader dell’allora Front National, in piena crescita. L’ha spuntata col soccorso degli elettori della sinistra, cui però non ha mostrato particolare gratitudine. Alle elezioni del 2007 lo schema è un po’ cambiato. Sarkozy è stato eletto contro la candidata socialista, col contributo degli elettori del FN, cui aveva dedicato particolari attenzioni. E stato, rispetto a Chirac, un irrigidimento della destra. Lo scontento nel 2012 ha avvantaggiato Hollande, candidato dei socialisti. Che ha fatto larghe promesse, ma ne ha mantenuto ben poche. Tanto che, consapevole della sua impopolarità, ha rinunciato a ricandidarsi nel 2017.

E qui ha fatto la sua apparizione Mr. Macron, eletto presidente, per la prima volta, nel 2017. Il personaggio è singolare. A 39 anni è il più giovane capo dello Stato della storia francese dopo Napoleone. Ha percorso una fulminante carriera tra l’alta amministrazione e la Banca Rothschild, ha fatto qualche incursione tra svariati ambienti socialisti, entrando infine nell’entourage di Hollande, dove nel 2014 è stato nominato che ministro dell’economia. Qui si è qualificato per una postura social-liberale, come sempre molto liberale e poco sociale. Alla vigilia delle presidenziali del 2017 ha deciso di candidarsi prendendo le distanze dal Partito socialista, spossato dal fallimento e dalle contraddizioni interne della presidenza Hollande. Macron ha inventato un suo movimento, En marche, e si è proposto come baluardo contro un eventuale successo di Marine Le Pen, che aveva ottime probabilità di arrivare al secondo turno. La sua immagine patinata ha a quanto pare persuaso l’alta finanza, i grandi imprenditori, un po’ di alti funzionari e ha mandato in solluchero i salotti politico-intellettuali parigini. Nonché i soi disant riformisti di casa nostra. Si è dimostrato molto affezionato della grandeur francese, che l’ha portato a qualche sfortunata avventura africana, intrecciata con proclami di fede europeista. Non senza un tocco di eccentricità personale. Il neoliberalismo è stanco, al consueto dilemma tra neoliberalismo tecnocratico e neoliberalismo conservatore Macron ha opposto una variante antipolitica, alla testa di una coalizione che ha radunato transfughi socialisti e della destra ex-gollista, un po’ di centristi, vari esponenti della cosiddetta società civile (ci sarebbe da scavare sulla loro estrazione). Un autorevole storico francese, Pierre Serna, l’ha definito un “estremista di centro”. Per niente originale nella storia francese, dove, in una condizione di crisi grave, compare un estremista di centro che si erge sopra i partiti, perché lontani dai cittadini, svuotando la dialettica parlamentare per accreditarsi come il juste milieu, incarnato dal potere esecutivo.

Il risultato elettorale di Macron al primo turno del 2017 è stato folgorante solo se lo si considera un homo novus. Infatti, l’elettorato si è diviso in quattro parti, tutte intorno al 20 per cento, che lui ha superato di quattro punti. La sua fortuna è stata che Marine Le Pen superasse di 450 mila voti François Fillon, candidato dei Repubblicani. Così al secondo turno ha invocato il barrage républicain. Era in debito con tutti, con la destra moderata e anche con la sinistra a guida Mélenchon, ma non ha onorato nessun debito, visto che alle successive elezioni legislative l’allineamento ha funzionato e En Marche ha ottenuto la maggioranza. Macron non dispone di un vero e proprio partito. Dopo le elezioni ha cercato di investire su En Marche, ma non gli interessava più di tanto. Ha sfruttato fino in fondo le possibilità che gli offriva la costituzione. Ne ha dato, alla vigilia delle elezioni, un’interpretazione, a suo dire, jupiterienne. Non la presidenza “normale”, come la pensava Hollande. La Francia era divisa, stanca della gauche plurielle e della destra anch’essa plurale. Cercava – lui ha detto – un presidente capace di rassembler il Paese. Ci sarebbe molto da dire sullo stile personale di Macron. Un’osservazione superficiale riguarda i rapporti coi primi ministri. Tutti i presidenti hanno sempre designato personalità di alto rango politico. Hanno in genere scelto, anche entro il loro partito, figure non troppo prossime a loro. Era un modo per allargare il consenso intorno a potere esecutivo. Il livello dei primi ministri indicati da Macron fino all’attuale nomina di Barnier è più modesto: alti funzionari, figure estratte dalla politica locale, due sono stati ministri, ma non di primo piano, uno solo è stato deputato. La dialettica tra le due massime cariche della Repubblica è stata minimizzata.

Macron è stato un fedelissimo interprete dell’ortodossia neoliberale: nel primo quinquennato ha fra l’altro soppresso l’imposta sulle grandi fortune. È esplosa contro di lui, nel 2018, la rivolta dei gilets jaunes. Ha azzardato pure una riforma delle pensioni, sospesa in ragione del Covid. Non lo si può definire un presidente popolare. Ciò malgrado nel 2022 è stato rieletto. Ancora una volta giovandosi del barrage républicain. Solo che stavolta le elezioni dell’Assemblea nazionale l’hanno castigato. Il sensore è piuttosto eloquente: la Macronie, come si usa chiamarla, nel 2017 ha ottenuto 351 deputati, nel 2022 ha perso la maggioranza, ottenendone 245, fino al 2024, ridottisi, dopo un’avventurosa dissoluzione anticipata, a 150. Esiti coerenti hanno dato le elezioni europee. Nel frattempo, tra il 2022 e il 2024, Macron ha dovuto sempre negoziare il sostegno dei Repubblicani per ottenere una maggioranza in assemblea, così come ha dovuto far uso del comma 3 dell’articolo 49 della costituzione per imporre una riforma delle pensioni che ha sollevato mezza Francia. Ha cercato di compensarla a sinistra, a costo d’inimicarsi la chiesa cattolica, con l’inserimento in costituzione del diritto all’Interruzione volontaria di gravidanza. Ma ha pure fatto omaggio al RN di una nuova e più bieca legge sull’immigrazione.

Le elezioni anticipate dello scorso luglio sono state un colpo di testa del presidente seguito alla disfatta delle europee, pare sconsigliato dal suo entourageÈ stata una disfatta personale, ma anche una disfatta per il regime per come si era stabilizzato e un oltraggio alla storia francese del dopoguerra. De Gaulle era un conservatore, ma non fece sconti all’estrema destra del tempo e l’esclusione si è protratta da allora. Nel 2022 l’ex-Front National, divenuto Rassemblement National, a suggello del primo mandato di Macron, aveva ottenuto 81 deputati. Oggi sono 142. La destra estrema ha prosciugato quella moderata. Per contro, le elezioni di luglio scorso hanno mostrato il rifiuto degli elettori verso Macron. La cui idea, quando ha sciolto l’assemblea, era di giovarsi delle divisioni della sinistra e una volta di più del barrage républicain per riottenere una maggioranza parlamentare. Tanto suggerivano i sondaggi. Gli è andata male.

I partiti di sinistra, i socialisti, i verdi, la France Insoumise, altre formazioni minori, si sono inaspettatamente coalizzati nel Nouveau Front Populaire e hanno e conseguito un 28 per cento di non secondaria importanza. Non molto, visto che nel 2012 la sinistra francese era arrivata al 47 per cento, ma è stato un successo, viste le gravi divisioni che l’hanno lacerata nell’ultimo decennio. È resuscitato il Partito socialista e si sono riequilibrati i rapporti tra la sinistra moderata e radicale. Anzi, il NFP è lo schieramento politico che ha ottenuto più seggi. Inoltre, gli elettori del NFP sono stati decisivi per ricostituire il barrage républicain, apertamente sollecitato dai macronisti. Anche se, mentre i candidati del NFP hanno lealmente applicato la desistenza, tra i macronisti c’è stata qualche reticenza in più. Al contempo, stando ai sondaggi post-elettorali, gli elettori di sinistra sono stati i più fedeli alla consegna: per il 70 per cento hanno soccorso i candidati del centro e del centrodestra, mentre gli elettori moderati si sono fermati al 50 per cento.

Se non che, il presidente Macron non ha rispettato i patti. Per la verità lui aveva solo formulato un invito a fermare il RN. In più, senza dubbio, la costituzione lo lascia arbitro di designare il primo ministro. Va bene che c’era una prassi per cui il presidente nominava il leader del partito vincente. Ma le prassi sono fatte per essere violate. In ogni caso, Macron non ha mostrato alcun rispetto per gli elettori del NFP e ha apertamente scartato la possibilità di designare un primo ministro espresso da esso. Lealtà e gratitudine – le vicende di casa nostra l’insegnano – fanno sempre meno parte del costume politico.

La nuova Assemblea è sostanzialmente divisa in treNessuna formazione politica ha la maggioranza. E un inedito per la Vª Repubblica. Qualsiasi primo ministro designato dovrà cercarsela in Assemblea. All’indomani delle elezioni è iniziata un’imponente battage mediatico e politico per dividere il NFP demonizzando la France Insoumise e personalmente Mélenchon (quasi a compensare la riuscita “sdemonizzazione” del RN, pilotata dai grandi media). Il programma concordato dal NFP è stato tacciato, manco a dirlo, di estremismo. Che consisterebbe nella promessa di più equità fiscale, di rilancio dei servizi pubblici, di ripensamento della riforma delle pensioni. Non è servita a nulla la mossa di Mélanchon di rinunciare alla nomina di ministri del proprio partito. Né le dichiarazioni di tutto il NFP di disponibilità ai compromessi sul programma. Macron ha preferito salvare le misure politiche da lui promosse nominando un primo ministro proveniente dal partito più bistrattato dagli elettori e stipulare un accordo di “non censura” con il RN, cui ha ufficiosamente concesso un’ipoteca sul governo. Nulla di sorprendente: su molte politiche è più prossimo al RN che non alla sinistra, anche solo moderata. A Barnier spetta un compito difficilissimo, a cominciare dalla drammatica condizione finanziaria. È curioso: per quanto si accaniscano sulla gran parte dei cittadini, i governi più ossequiosi verso l’ortodossia neoliberale sono quelli che più devastano la spesa pubblica.

E stato un balletto ridicolo. Macron ha cercato di dividere il NFP, designando un ex-socialista. Vietandogli però cedimenti al programma della sinistra. Il NFP, con qualche esitazione, gli ha opposto un rifiuto, che i benpensanti (di sinistra) considerano un errore. La sinistra che fa la sinistra non è gradita. Ma forse errore non è, perché, altrimenti, il NFP si sarebbe rotto e la fuoruscita del PS l’avrebbe reso irrilevante. Il presidente ha poi tentato invano con vari esponenti di centro e di destra e perfino con qualche figura fuori dai partiti. Il RN a quanto pare ha posto qualche veto. È da vedere cosa farà Barnier. Si sottometterà al RN? O ha una personalità politica sufficientemente robusta da non sottomettersi né al RN, né al presidente che l’ha nominato? La situazione è fluida e a volte anche a destra accadono fatti imprevisti. Vedremo presto.

Checché ne pensino le anime belle, la democrazia non è stata inventata per fare contento il popolo, che peraltro è contraddittorio e complesso quanto basta. Ma già solo per il nome che porta, un po’ deve contentarlo. Quando eccede in maltrattamenti, magari conditi di disprezzo, il popolo si vendica. Lo fa come può, non dispone di grandi mezzi. Lo fa coi movimenti collettivi, con lo sciopero del voto (che stavolta si è ridotto), con le scelte elettorali. Imbarazzante per quanto sia, anche il voto RN è un segno di ribellione. Non è detto peraltro che i suoi elettori ne condividano tutte le posizioni. L’allarmismo sulle migrazioni funziona alla grande, ma su molti temi, immigrazione compresa, l’elettorato è più a sinistra delle dirigenze politiche, come mostra in maniera convincente un libro appena uscito di un sociologo politico francese, Vincent Tiberj. La droitisation degli elettori – ci spiega – è un mito che fa comodo alla destra. Non è detto perciò che la scelta di Macron danneggi così gravemente il NFP. È giusto che questo si senta offeso, ma gli si offre l’occasione per monopolizzare l’opposizione e consolidare le sue relazioni interne, la sua organizzazione, il suo radicamento, e magari per contenere il personalismo di Mélenchon, che ha tanti difetti quanti pregi. Non è probabilmente più il tempo dei grandi partiti. I media privati imperversano anche in Francia. Come rimediare? Le prossime presidenziali non sono così lontane e conviene arrivare preparati, immaginando un percorso condiviso.

La Francia non è un caso unico. Il neoliberismo produce dappertutto ondate successive di delegittimazione. I ciechi incolpano il popolo, che sarebbe inadeguato e irresponsabile. Fatto sta che tutti i regimi democratici sono in sofferenza. La Vª Repubblica, grazie a Macron, potrebbe anche essere al capolinea. E in atto una crisi di regime? Forse. Potrebbe uscirne rigenerandosi, come già le è successo. Può aprire la strada a una VIª Repubblica, come alcuni autorevoli osservatori richiedono? C’è chi suggerisce di reintrodurre la fiducia parlamentare e di cambiare sistema elettorale, tornando almeno in parte alla proporzionale. Si dice che riabiliterebbe le mediazioni tra le forze politiche. Una cosa però è la teoria, un’altra la pratica. Di sicuro sarebbe saggio contenere il primato del capo dello Stato e introdurre una vera Corte costituzionale. La divisione dei poteri è tuttora una difesa, benché non insormontabile, contro le velleità autocratiche

https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/09/10/macron-una-disfatta-che-apre-una-crisi-di-regime

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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