Michele Paris 

In uno dei tradizionali inutili esercizi pseudo-democratici previsti dalla stagione elettorale negli Stati Uniti, il pubblico americano ha assistito nella serata di martedì al primo e, forse, unico dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris. La maggior parte di media e analisti “mainstream” ha commentato l’evento, tenuto per la cronaca presso il National Constitution Center di Philadelphia e trasmesso da ABC News, con un certo grado di serietà, discutendo su quale dei due candidati sia uscito vincitore dalla serata e su quali punti di forza o debolezze siano emerse. Non ci saranno tuttavia effetti significativi sulle percentuali di gradimento di entrambi, né sono diventate più chiare le rispettive posizioni sui vari temi affrontati. Quello che invece il dibattito ha regalato è un’ulteriore dimostrazione della crisi terminale della “democrazia” americana, dove la verità dei fatti, i processi decisionali e di selezione del potere sono tenuti rigorosamente lontani dagli occhi della stragrande maggioranza della popolazione.

A un livello immediato, il dibattito ha confermato le anticipazioni della vigilia. Trump ha attaccato la Harris collegandola alle politiche dell’amministrazione Biden di cui fa parte, in particolare sulla sempre più impopolare guerra in Ucraina. Se fosse lui a venire eletto, ha assicurato l’ex presidente repubblicano, il conflitto finirebbe in un attimo. Con il rilancio della campagna del “Russiagate” in fase di rodaggio, l’attuale vice-presidente democratica ha risposto invece che, con Trump alla Casa Bianca, oggi Putin “siederebbe a Kiev”.

La crisi ucraina o, per meglio dire, l’approccio alla Russia è forse l’unica questione attorno alla quale esiste una qualche differenza significativa tra i due candidati alla Casa Bianca. Le discrepanze sono di natura tattica e vanno ricondotte alla diversità di vedute sulle priorità dell’imperialismo americano delle sezioni dell’apparato di potere che fanno riferimento rispettivamente a Trump e Harris. Lo scontro tra le due posizioni ricalca in larga misura quello – ferocissimo – scoppiato a partire dalla campagna elettorale del 2016 e che consiste, sommariamente, nel dipingere Trump come un uomo del Cremlino.

Su praticamente tutti gli altri argomenti trattati nel corso del dibattito, anche discussi talvolta in modo animato, non si rilevano a conti fatti difformità sostanziali tra i due aspiranti alla presidenza. Anche a livello esteriore, la difesa nominale di qualche tipica causa progressista del Partito Democratico è apparsa ormai molto fiacca. Di solito, i candidati democratici si trasformano in difensori di programmi pubblici, assistenza medica o tassazione progressiva in campagna elettorale, appunto perché questi temi risultano popolari tra la base tradizionale del partito, salvo poi metterli da parte in fretta a urne chiuse.

Con la candidatura di Kamala Harris si sta assistendo invece a un cambiamento anche della retorica elettorale del Partito Democratico. Gli argomenti sociali lasciano cioè sempre più il posto a quelli di genere, di razza o ambientali, di fatto gli unici riferimenti dell’establishment “liberal” per misurare la differenza tra progressismo e reazione. La Harris si è così astenuta per lo più dall’attaccare Trump per i suoi precedenti e i suoi programmi anti-sociali e classisti. All’inizio del dibattito si è verificato uno di questi rari casi, quando la vice-presidente ha sostenuto che Trump non ha presentato agli elettori un programma economico chiaro, mentre promette sostanzialmente solo altri tagli al carico fiscale degli americani più ricchi.

Poche o nessuna traccia si è trovata anche di vaghe promesse su iniziative destinate ai redditi più bassi. D’altra parte, una volta incassata la designazione a candidata democratica alla Casa Bianca, la Harris aveva operato una netta svolta a destra, rinnegando alcune proposte avanzate in passato, come quella dell’allargamento della copertura assicurativa sanitaria pubblica.

Alcuni commenti della stampa ufficiale hanno evidenziato come la Harris abbia finalmente tenuto testa e contrattaccato punto su punto il suo rivale, denunciandone le contraddizioni e le numerose affermazioni senza fondamento. Ciò che è però mancato è un’analisi e un’autentica proposta politica alternativa alla deriva trumpiana. Un’eventualità però impossibile visto che Kamala Harris è in tutto e per tutto un prodotto di un sistema altrettanto reazionario, anche se con un’immagine esteriore più rispettabile. Basti pensare alle modalità con cui è stata discussa nel corso della serata la “crisi” migratoria negli USA.

L’argomento era tra i più caldi dopo che lo stesso Trump, il suo candidato alla vice-presidenza, J. D. Vance, e altri leader e sostenitori repubblicani avevano anticipato il dibattito di Philadelphia con una campagna fascista per alimentare i sentimenti xenofobi tra gli elettori americani. Riproponendo voci e notizie non dimostrate, nonché smentite dalle autorità di polizia, Trump e i suoi avevano denunciato con toni apocalittici l’ondata di criminalità esplosa nella città di Springfield, nell’Ohio, per colpa degli immigrati haitiani che qui risiedono.

Durante il dibattito, Trump ha rilanciato le storie assurde circolate soprattutto su X (ex Twitter), come quella dei clandestini che avrebbero rapito gatti e altri animali domestici dai loro proprietari per mangiarli. A questa spazzatura, la Harris ha risposto blandamente, sottolineando le tendenze estremiste di Trump, ragione per cui molti repubblicani di spicco hanno nelle ultime settimane appoggiato la sua candidatura contro quella dell’ex presidente.

È comunque soprattutto nella discussione su Israele e il genocidio in corso a Gaza dove l’attitudine combattiva dei due candidati ha celato una quasi totale uniformità di vedute. Tra le più incredibili accuse lanciate da Trump alla rivale, assieme a quella di essere marxista, è che quest’ultima “odia Israele” e, se fosse eletta a novembre, lo stato ebraico cesserebbe di esistere “entro due anni”. A queste affermazioni ridicole, la vice-presidente ha replicato ricordando il suo curriculum di strenua sostenitrice di Israele.

Com’era prevedibile ha poi confermato che tra lei e Biden non ci sono differenze, visto che la priorità resta e resterà “la capacità di Israele di difendersi” – ovvero la libertà di sterminare i palestinesi, rubare quello che resta delle loro terre e rischiare una guerra totale in Medio Oriente – e ciò sarà garantito dall’assistenza militare e politica degli Stati Uniti. Per togliersi appena qualche pressione, la Harris ha poi ricalcato ulteriormente le posizioni del presidente democratico quando ha dichiarato di volere la fine immediata della guerra, anche se, come Biden, tralasciando di impegnarsi per arrivare a questo risultato con gli strumenti che pure Washington avrebbe a disposizione.

L’appoggio a Israele conduce direttamente alla promozione bipartisan degli interessi strategici americani sul piano internazionale. Al di là di commenti e analisi della stampa “mainstream” che cercano di convincere gli americani del contrasto assoluto e irriducibile tra democratici e repubblicani e tra Trump e Harris, l’elemento dominante della politica estera USA è la continuità e il sostanziale accordo sugli obiettivi strategici, nonostante qualche differenza di natura tattica.

Continuità che è testimoniata anche dalla recente notizia dell’appoggio ufficiale della candidatura di Kamala Harris da parte dell’ex vice-presidente repubblicano, nonché criminale di guerra a piede libero, Dick Cheney. Uno degli architetti dell’invasione dell’Iraq e della “guerra al terrore”, Cheney era poco più di paria fino a pochi anni fa, ma l’assunzione di caratteri sempre più apertamente criminali della classe dirigente americana nel suo insieme ha favorito una riabilitazione di fatto.

Simili “endorsements” mostrano come il partito unico della guerra sia in simbiosi con la politica americana e, chiunque occupi la Casa Bianca, gli orientamenti generali non cambino. Prova ne è il fatto che lo stesso Trump, per quanto ostenti un atteggiamento da colomba sui rapporti con Mosca, nel suo mandato aveva assecondato interamente gli impulsi anti-russi del “deep state”. Le differenze sono dunque solo di facciata e, come i dibattiti presidenziali e le stesse elezioni, servono a tenere viva l’illusione di un sistema democratico in cui gli elettori hanno una qualche voce in capitolo sulle scelte dell’oligarchia che controlla il potere e sulle politiche che decidono delle loro esistenze e di buona parte del resto del pianeta.

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/10414-trump-harris-il-peggio-dell-america.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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