Taluni analisti parlano di palese bluff. Altri prendono la minaccia sul serio. Molta parte della questione pare anche – e forse soprattutto – legata alla gittata dei missili da crociera Storm Shadow/SCALP EG (di fabbricazione inglese) e dei balistici tattici statunitensi ATACMS. Joe Biden e Keir Starmer si sarebbero in qualche modo accordati, o starebbero pensando di farlo, per dare il via libera a Kiev di poter usare missili “europei” (non quindi gli ATACMS americani) sul territorio russo in profondita.

Dicono gli esperti che il bluff presunto nascerebbe proprio da qui: ossia dal semplicissimo fatto che i due missili citati hanno un raggio di azione tra i duecentocinquanta e i trecento chilometri. Quindi difficilmente potrebbero colpire obiettivi strategici e città nei dintorni della capitale o la stessa Mosca. Peraltro, stando ai resoconti di autorevoli siti che seguono la guerra giorno per giorno (anzi, ora per ora), molti di questi missili già presenti in Ucraina sarebbero stati utilizzati contro le truppe russe del fronte sud-est.

Dunque toccherebbe a Londra e Washington aprire nuovamente le porte degli arsenali per riarmare le truppe del presidente Volodymyr Zelens’kyj e, nel contempo, far fare al conflitto un salto negativissimo di qualità: sia che si tratti di missili europei, sia che si tratti di missili a stelle e strisce, siamo comunque in presenza di armamenti di paesi della NATO che colpiscono non più il fronte interno ma direttamente la Russia. Ciò potrebbe essere compreso in una nuova tattica di guerra dopo i fatti di Kursk.

Ma i progressi ucraini su quel versante si sono praticamente arrestati e la zona cuscinetto è sguarnita di truppe, visto che le giovani reclute vengono mandate a rinforzare la linea difensiva che protegge la città di Pokrovsk dalla conquista russa: l’ultimo ponte è saltato, i riforzi non arrivano e la presa della città viene considerata da tutti imminente. Il suo valore strategico è oggettivo: si tratta di uno snodo per il rifornimento dell’esercito su vasta scala e, mancando questa via di comunicazione, molta parte delle divisioni ucraine rischia di essere indebolita strutturalmente.

Tornando però alla questione dell’escalation bellica, la mossa di Biden sembra quasi un tentativo di recuperare del consenso tanto presso l’elettorato interno che si accinge al voto di novembre per le presidenziali, e sembra al medesimo tempo una prova di connessione sempre più stretta con una Gran Bretagna separata da un’Unione Europea la cui politica estera è, effettivamente, piuttosto inesistente: ancora di più se si guarda agli avvicendamenti bellici. Ma gli effetti dell’economia di guerra si fanno tuttavia sentire nel Vecchio continente.

Alle prese con una crisi verticale di voti, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiaramente espresso il suo NO al consentire che Kiev possa usare armi di lunga gittata in territorio russo. Putin, dal canto suo, considererebbe qualunque azione intrapresa con armi dei paesi NATO in Russia una svolta nella guerra che condurrebbe Mosca a ritenersi libera di attaccare il territorio dell’Alleanza atlantica. Se si arrivasse ad un punto di svolta del genere, nessuno dei paesi europei sarebbe più al sicuro. In particolare quelli più vicini all’Ucraina, quelli che più di tutti hanno sostenuto lo sforzo bellico, a parte forse l’Ungheria orbaniana.

La cosiddetta “sicurezza globale“, che viene invocata da più parti come una priorità delle responsabili e virtuose potenze mondiali nella fase di espansione del neo-multipolarismo moderno, è una circonlocuzione attorno alla quale ruota qualcosa di ben più sostanzioso, in termini di affari e di interessi economici, finanziari e di industria bellica, rispetto al principio etico-politico di una garanzia di stabilità multilaterale e sovraregionale.

Allo Xiangshan forum Pechino lancia un messaggio chiaro alla Casa Bianca: nessuno può pensare, nell’attuale contesto, di escludere Pechino dal ruolo dirimente di interlocutore tra le parti in guerra, di mediatore e di pacificatore. Da un lato sembra una rassicurazione per lo stabilimento di un bilateralismo tra le due superpotenze. Dall’altro, probabilmente, sembra invece una real politik intesa come elemento deterrente nel confronto tra NATO e Russia e, se guardiamo al Medio Oriente, tra USA-Israele da un lato e Hamas-Iran e Russia dall’altro.

Ecco che non sono più soltanto le dichiarazioni di Biden sui missili a lunga gittata a preoccupare; ma lo è anzitutto lo scenario di globalizzazione della guerra perché globali sono gli interessi che la sovraintendono e la sovrastano, dirigendola verso gli obiettivi che hanno gli Stati Uniti da un lato e quelli che hanno invece Russia e Cina dall’altro. La presenza del vice assistente segretario al Pentagono, Michael Chase, allo Xiangshan forum, così come quella di esponenti del Cremlino e pure di Kiev, dimostra al mondo che Pechino cerca quel ruolo di mediazione che rivendica da tempo.

Tuttavia, la guerra in Ucraina è, lo si voglia o no, un punto su cui poggia l’ipocrisia delle grandi potenze emergenti e riemergenti: perché per conservare intatte le prassi istituzionali e per mostrare ai popoli del mondo che esistono validi motivi per impegnare ingenti risorse nei conflitti piuttosto che nel rafforzamento degli stati-sociali, serve la guerra; serve il bellicismo proprio come protesi della politica, come arma che spinge al riarmo pratico ed all’istillazione di una mentalità da guerra permanente fatta per la difesa dei valori democratici e liberali da un lato, delle nazionalità e dell’indipendenza dall’altro lato.

Siccome gli esperti affermano che, tanto i missili europei quanto quelli americani, non sarebbero risolutivi per il mortifero decorso dello scontro in atto ad Est, se ne converrà che il cinico gioco tra le parti punta, almeno da parte occidentale, ad alzare i toni per provocare una reazione russa che giustifichi ulteriori investimenti nell’armamento militare: rimane, del resto, sempre sul campo la necessità espressa a gran voce dalla NATO di destinare anche qualcosa di più del due per cento del prodotto interno lordo dei paesi aderenti all’Alleanza in spese esclusivamente volte al riarmo ossessivo-compulsivo.

La politica cinese mira, abbastanza evidentemente, a rafforzare quell’”imborghesimento” che le veniva attribuito soprattutto dai detrattori di un socialismo reale asiatico, da un compromesso tra teorizzazione di un marxismo costretto a piegarsi alle dinamiche delle Rivoluzione culturale prima e del capitalismo di Stato poi, e un piano pragmatico di macroeconomia rinnovata, di confronto col resto del mondo. La guerra mondiale a pezzi è un ulteriore salto in avanti per una rimodulazione tutt’altro che graduale di una serie di compromessi simili a quello cinese.

Tra princìpi e realtà, tra idee e rapporti di forza tanto tra le classi quanto tra i poteri che tentano di dirigerle e dominarle. La riforma economica cinese, a partire da almeno un trentennio a questa parte, ha tenuto insieme ideologia e attuazione di una politica massiva di conversione produttiva: puntanto molto sulla tecnologia più avanzata anche (e forse soprattutto) in chiave militare con scopi dichiaratamente difensivi e, in realtà, miranti quanto meno alla definizione di una deterrenza al pari di quella statunitese.

Nonostante i motivi delle guerre a cui vengono costretti i popoli siano chiari, e si basino tutti quanti sull’interesse imperialista delle singole potenze, la narrazione governativa, ossia l’informazione corrente e diffusa, mostra i conflitti come il prodotto di una necessità politica, sociale, persino indegnamente civile: difendere la libertà degli ucraini dalla tirannia putiniana, salvo fare dello Stato di Kiev un protettorato della NATO nel caso di ritirata e sconfitta della Russia. Eventualità che, almeno stando all’oggi, sembra tutt’altro che concretizzabile e anche solo lontanamente ipotizzabile.

Se c’è un elemento caratterizzante un po’ trasversalmente l’impegno delle grandi potenze nelle guerre attuali, tanto in Ucraina quanto in Palestina e, più latamente, nei conflitti regionali africani e nella prospettazione di quello latente nell’area di Taiwan, questo è il bisogno di adattare le vecchie sovrastrutture statali alla struttura economica globale che cambia in continuazione e che, quindi, vede le politiche locali alla rincorsa di quella mondiale che, infatti, passa, nel giro di pochi decenni, dal bipolarismo ex Guerra fredda all’unipolarismo statunitense; per poi arrivare oggi al nuovo multipolarismo.

Il liberismo ha indotto, ed è in larga misura stato strutturato in questa dimensionalità, la politica a considerare i nuovi nazionalismi come principio di una concorrenzialità mercatista (e quindi anche in regime di economia di guerra) oltre i propri confini: per cui nascono le contraddizioni tipiche del vuoto vaso di coccio europeo tra pseudo-sovranisti al governo e sostegno pieno all’Alleanza atlantica che occupa il nostro territorio con le sue basi, che condiziona la nostra politica estera, che ci fa, da sempre, colonia della grande Repubblica stellata.

Tutte le lotte nazionalistiche che sembrano prendere il sopravvento con movimenti di destra nei vari paesi, sembrano poi ridimensionarsi nel momento in cui, laddove arrivano a governare gli Stati, devono confrontarsi col potere molto più alto dell’economia e della finanza governate nel nome della competizione globale che fa della guerra il metro di confronti in merito. C’è, quindi, un tasso di cinismo ultraelevato che rimpicciolisce l’ideologizzazione della politica ma che, al contempo, la può – proprio per questa insufficiente capacità di reazione sovrastrutturale – eterodirigere dove meglio crede.

Lo si è potuto chiaramente vedere nell’intromissione letteralmente economica della Cina in tanta parte dell’Africa; così come nelle guerre petrolifere degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia. La Russia, non da meno, ha posizionato le truppe della Wagner in molti Stati subsahariani per controbilanciare le presenze francesi e americane. Non si può nemmeno più parlare di “minaccia per la pace mondiale“. Non esiste una pace mondiale. Esiste una guerra moderna fatta per macroregionalismi e macrointeressi che corrispondono a quei determinati setttori.

Pur contestualizzate in questo scenario molto più inquietante di quello che si potrebbe attendere, le parole di Biden su Putin e sulla Russia, unitamente a quelle di Starmer, sono di una gravità inaudita: rischiano di precipitare il conflitto in una esponenzializzazione incontrollabile e far saltare quel minimo di contenimento dello stesso che si regge soltanto sulle fragilità reciproche. Dell’Occidente e dell’Est Europa. Vista in questa cornice, esiste davvero una differenza in politica estera tra Kamala Harris e Donald Trump? La domanda sarà retorica per alcuni, semplicisticamente banalizzante per altri. Ma proviamo a darci una risposta…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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