Nelle ultime settimane la Tunisia ha vissuto una crescente ondata di proteste contro il governo autoritario di Kais Saïed, con migliaia di cittadini che si sono mobilitati per difendere i diritti civili e le libertà fondamentali. Le manifestazioni, tra le più affollate degli ultimi due anni, sono scoppiate in un clima di repressione sistematica nei confronti degli oppositori politici e delle organizzazioni per i diritti umani, in particolare in vista delle elezioni presidenziali programmate per il 6 ottobre 2024.
Le autorità tunisine hanno intensificato le vessazioni nei confronti dei dissidenti, limitando severamente il lavoro di giornalisti, attivisti e ONG. Amnesty International ha denunciato l’uso del sistema giudiziario come strumento di repressione, con l’arresto di almeno 97 membri del partito di opposizione Ennahda, accusati di terrorismo e privati del diritto di difesa. In questo contesto, molti candidati dell’opposizione sono stati esclusi dalle elezioni dalla commissione elettorale, rendendo evidente la manipolazione del processo democratico.
Kais Saied ha risposto alle proteste definendo i manifestanti «trombe rabbiose», minimizzando le preoccupazioni e affermando che la loro libertà di esprimersi e manifestare dimostra l’infondatezza delle accuse di dittatura. Tuttavia, le sue azioni raccontano una storia diversa. L’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni (Aail), composta da membri nominati direttamente da Saïed, ha ammesso solo tre candidati, incluso lo stesso presidente. Uno di questi, Ayachi Zammel, è stato arrestato con accuse di corruzione legate alla sua campagna elettorale, minando ulteriormente la credibilità del processo elettorale.
La situazione è ulteriormente complicata dalla limitazione della copertura mediatica indipendente. Diverse radio private sono state ammonite per i loro commenti sulle elezioni, mentre accrediti giornalistici sono stati revocati a professionisti che cercavano di fornire un’informazione obiettiva. Anche le organizzazioni di monitoraggio delle elezioni, come IWatch e Mourakiboun, sono state escluse dal controllo elettorale, sollevando seri dubbi sulla trasparenza del processo.
Il Paese sembra quindi sempre più avviato verso una deriva autoritaria, annullando definitivamente la speranza che il periodo post-primavera araba, in cui la Tunisia era vista come un modello di transizione democratica, aveva suscitato. Sin dalla sua ascesa, Saïed ha indicato chiaramente la direzione del vento: nel luglio 2021 ha rimosso il primo ministro, sciolto il Consiglio Superiore della Magistratura, modificato la Costituzione e ristretto le libertà civili, consolidando in questo modo il suo potere.
La retorica ostile del presidente si estende anche alla gestione della crisi migratoria. Accusando i migranti subsahariani di portare violenza e criminalità, Saïed ha alimentato teorie cospirazioniste di estrema destra, insinuando che il loro arrivo fosse parte di un progetto per alterare la composizione demografica del Paese e sostituire l’intera popolazione. Il 21 febbraio del 2023 Saied ha nello specifico pronunciato un discorso piuttosto violento, rivolto alla comunità di migranti subsahariani presente sul territorio, accusandola di «portare in Tunisia violenza, crimine e altre pratiche inaccettabili». Saied ha inoltre insinuato che l’arrivo di «orde di immigrati illegali fa parte di un progetto di sostituzione demografica per rendere la Tunisia un Paese unicamente africano, che perda i suoi legami con il mondo arabo e islamico».
Nonostante queste preoccupazioni, l’Europa, e in particolare l’Italia, continuano a collaborare con la Tunisia nel controllo dei flussi migratori, reputandolo un Paese “sicuro”. L’Unione Europea, oltre a firmare con Saied un Memorandum d’Intesa, ha investito oltre un miliardo di euro per rafforzare la guardia costiera tunisina e sostenere il bilancio del Paese. Questa esternalizzazione del controllo delle frontiere solleva interrogativi etici, poiché diverse testimonianze hanno denunciato violenze da parte della guardia costiera nei confronti dei migranti.
Solo pochi giorni prima della firma dell’accordo tra i leader europei e il presidente tunisino, almeno 1200 persone di origine subsahariana sono state prelevate dalla polizia tunisina nella città di Sfax e nei suoi dintorni, per venire poi abbandonate nel mezzo del deserto tra Libia e Algeria. Le deportazioni di massa nel deserto sono una pratica ormai consolidata, uno dei tanti modi per liberarsi dei migranti o farli desistere dall’idea di ritentare la traversata verso l’Europa.
La situazione richiama alla mente il controverso accordo del 2017 sui migranti tra Italia e Libia, il quale ha messo in luce, in poco tempo, gravi lacune riguardo ai diritti umani. Anche in questo caso sono già piuttosto lampanti i segnali che fanno presagire un esito simile.
[di Gloria Ferrari]