L’acqua, che mette in ginocchio l’Italia con la siccità e le alluvioni, è al centro delle contraddizioni dell’Antropocene: è bene pubblico, affare privato, risorsa strategica, causa di migrazioni. Può essere anche un grande pozzo di lavoro, per incanalarla, conservarla, depurarla, dissalarla. Un lavoro necessario.
In questi giorni è sott’acqua gran parte dell’Europa centrale, dalla Polonia all’Austria per effetto di Boris, il nubifragio più violento dell’ultimo trentennio, dalla Vistola al Danubio e poi di nuovo l’Italia, con Faenza, l’Emilia e le Marche di nuovo alluvionate per la terza volta in poco più di un anno. Negli stessi giorni, il Brasile, in gravissima siccità, è devastato da un incendio inarrestabile, grande due volte la Svizzera. Le previsioni per i prossimi decenni indicano un tempo atmosferico molto più caldo e soprattutto un susseguirsi crescente di siccità, alluvioni, incendi, fuochi inarrestabili e naturalmente calore insopportabile. In Italia e in ogni luogo. Con una straordinaria lucidità di visione la studiosa inglese Gaia Vince ha indicato qualche anno fa i quattro fenomeni tremendi – fuoco, caldo, acqua, siccità – come i quattro cavalieri dell’Antropocene. Essa intende quella linea di pensiero, che attribuisce agli umani la capacità – perversa capacità (forse un po’ ambiziosa, piena di sé) – di far saltare il banco, con le proprie forze, chiudere l’Olocene e aprire, a furia soprattutto di fossili, carbone, petrolio e gas, l’era dell’Antropocene.
Ammesso che sia possibile, almeno da parte di persone timide come chi scrive, non schierarsi in partite come “Antropocene sì, Antropocene no”, l’aumento di fenomeni disastrosi, in crescita accelerata, impossibili da sventare, in ogni angolo del mondo, dei quattro mascalzoni – acqua, fuoco, calore, siccità – è un fatto che non è possibile negare. Possibile è solo farli conoscere ai distratti e alle distratte.
L’acqua che ha sommerso nel 2023 in maggio la Romagna era ampiamente temuta, dopo un semestre di siccità e caldo anomalo; forse non era localizzata, forse non era previsto che succedesse proprio lì, o forse sì. Gli storici, gli ambientalisti, i meteorologi sono al lavoro per dare risposte esaurienti. Si sa ormai che lo spargimento di acque dei fiumi di Romagna, 23 corsi d’acqua, tra torrenti e fiumi 1 , in due successive inondazioni a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, 1-3 e 14-15 maggio del 2023 è il risultato di mesi senza pioggia e di alte temperature in Appennino e nella Pianura Padana, interrotto improvvisamente da acquazzoni e violente tempeste, il tutto in un territorio ricco e coltivato ma ormai arido. Un fenomeno inconsueto, ma fisicamente, geograficamente e geologicamente ineccepibile. Capiterà ancora. Non in Emilia Romagna forse, dati gli interventi di risistemazione territoriale, non subito almeno. Gli Appennini sono però lunghi e larghi e il caldo eccessivo, sommato alla mancata pioggia causerà altri episodi simili, presto. Altre catene montuose ne accompagneranno o seguiranno fedelmente la traccia, ammesso che non abbiano già fatta sentire la propria forza.
La città di Milano è spesso in balia di tre fiumi, che un tempo erano pressoché dimenticati dai milanesi: Seveso, Lambro, Olona; ora però uno dopo l’altro o tutti insieme esondano, mandando la città, impreparata, sott’acqua. Nella prima settimana di settembre 2024 tutto ciò è avvenuto un’altra volta. Poi, ancora, nella settimana successiva.
Gli esperti delle Nazioni Unite, dopo gran dibattimento, hanno definito e poi ripetuto, molto recentemente, la loro dottrina: ritengono che il riscaldamento attuale della Terra abbia origini umane e che il suo rapido aumento in corso sia causato da un uso crescente di materiali fossili i cui inevitabili residui sono stati studiati attentamente e indicati sotto il nome collettivo di gas serra; essi infatti costituiscono una sorta di coltre (effetto serra) che ricopre il globo e la mantiene calda in modo eccessivo, con conseguenze difficili da tollerare. Ne deriva la convinzione generalmente diffusa che sia indispensabile ridurre e poi interrompere l’uso di energie e attività connesse ai fossili, per rallentare o nel caso migliore fermare la corsa verso il caldo soffocante che altri uffici studi, extra Nazioni Unite, prevedono da molto tempo. Il nuovo clima, comporterebbe nel giro di pochi decenni l’impossibilità di svolgere attività agricole, se non addirittura di sopravvivere.
Nel 2015, tra novembre e dicembre, a Parigi, nel corso di una importantissima riunione indicata come COP 21 gli scienziati – e i politici dopo di loro – si sono accordati sulla necessità di non superare di un grado centigrado e mezzo (2 gradi al massimo) la temperatura media dell’epoca immediatamente precedente alla civiltà industriale e delle macchine, pena il disastro generale. Gli Stati più forti e ricchi si sono preoccupati e pentiti delle loro colpe industriali e macchinistiche (servendosi delle quali hanno conquistato il resto del mondo per i lunghi secoli successivi) e hanno convenuto, con qualche lamentela, di ridurre un po’ per volta, in sostanza ritoccare, la produzione e l’uso di minerali fossili, considerati responsabili dell’aumento di CO2. L’aumento di CO2 e del resto dei gas serra ha portato conseguenze anche nel modo meno sviluppato, con effetti disastrosi.
Gaia Vince 2, una studiosa e giornalista inglese, di cui si è fatto cenno prima, ha sviluppato un notevole interesse in merito. Nella parte più interessante del suo discorso non si occupa tanto delle dibattute beghe sull’effetto serra, ma delle conseguenze future e riesce a spiegare bene dove andremo a sbattere, noi umani, tra non molto; e come sarebbe possibile evitare che finisca tutto, o finisca troppo male. Del suo libro, “Il secolo nomade”, hanno scritto e parlato molte persone esperte. Assai utile è un’intervista per la Stampa di Francesca Mannocchi che è probabilmente servita da primo contatto italiano con Vince, per suscitare l’interesse collettivo. Detto in breve, nel libro viene accolta l’idea di una trasformazione dell’assetto geografico-abitativo della popolazione sulla Terra, dovuta all’eccessivo calore, con un rapido (poche decine di anni) e obbligato abbandono delle terre prossime all’Equatore, comprese quelle cosiddette temperate, quelle abitate, quelle ricche, quelle che hanno dato origine alla civiltà che conosciamo. La salvezza si otterrà mediante uno spostamento verso i poli delle attività umane, agricoltura compresa. Nel caldo eccessivo diffuso, mari e oceani si gonfieranno e ricopriranno coste e città. Un mondo diverso, con Venezia sott’acqua e così pure la Florida e Los Angeles, è quello che ci si prospetta e si dovrà imparare ad abitare, accogliendo nei paesi ricchi e geograficamente fortunati, miliardi di altri esseri umani rifugiati dai paesi in preda alla siccità o travolti dalle piene di mari e fiumi, per vivere insieme una vita diversa e degna. I temi suggeriti sono dunque due: il disastro ambientale conseguente al caldo – un caldo indotto, in gran parte innaturale ma umano – e il trasferimento di miliardi – miliardi! – di sfollati ambientali. Il tutto subito, entro cinquant’anni; e noi tutti, sopravvissuti, apprenderemo la politica, le leggi, le invenzioni, la società, la cooperazione, l’accoglienza, amichevole se non a braccia aperte, per tutti i figli le figlie dell’uomo, quale che sia la loro origine e il colore della pelle. L’annata del Covid 19 potrebbe essere servita come insegnamento a molti di noi. “Se po’ fà”, direbbero a Roma. L’alternativa è la guerra: l’ultima guerra. O se si preferisce, tante ultime guerre, su scacchieri diversi e poco diverse tra loro. Gaia Vince scrive un magnifico programma, con qualche tocco fantastico; ma ci sarà molto da lavorare per apprenderlo e metterlo in pratica.
I cat bond
La finanziarizzazione delle catastrofi
Siamo arrivati alle obbligazioni catastrofali per vie traverse. Latelevisionedomenicale aveva trasmesso notizie incerte su allagamenti e straripamenti in Marocco, con molti morti e dispersi e contemporaneamente riferiva di un intero bosco che era stato raso al suolo da acqua e vento in Cadore. Nel frattempo, in simili eccessi meteo, anche la città di Milano era finita sotto il suo fiume favorito, il Lambro. Cosa scrivevano di tutto questo i grandi giornali? Quelli nazionali si occupavano di Cernobbio & Cernobbio, nel caso migliore, e di ripicche governative indiscrete (sempre le stesse) in quello deteriore. Restavano altri pochi e i quotidiani internazionali. Così si è cercata qualche notizia su Le Monde, francese e su The Financial Times, inglese. Nel giornale parigino era spiegata la vicenda di Copenaghen, capitale in procinto di riuscire a eliminare i prodotti fossili da sé stessa, con le proprie forze; si è saputo anche dell’esistenza di una serie di mille altre città con oltre 500 mila abitanti che avevano deciso di agire in autonomia, collegate tra loro, contro l’effetto serra. Copenaghen era la capofila ma, al momento di chiedere un prestito al proprio governo, anche la capitale danese era costretta a prendere tempo, aspettare, applicando in sostanza proprio l’atteggiamento perdente. Le novità nel movimento delle città mondiali sono raccontate con attenzione particolare sul Sole 24 Ore di giovedì 12 settembre da Elena Comelli, che esplora tutti i vicoli e le cifre che riguardano le mille città, senza offrire vere speranze.
Sul quotidiano di Londra e, perché no, della City, indicato prima, si faceva cenno in quella domenica di inizio settembre alla rinuncia sostanziale delle case automobilistiche europee di tentare di raggiungere il tutto elettrico nei prossimi dieci anni; uno dopo l’altro i programmi erano rivisti se non accantonati: la sensazione era che il pubblico fosse assai riluttante nell’acquisto di motori elettrici sulle auto da sostituire a quelle in uso e in strada. Nella stessa pagina si spiegava l’andamento – a metà anno – del cat bond, allora del tutto sconosciuto a chi scrive.
Dunque il cat bond, in cima alla pagina e subito sotto, le auto. Quanto alle auto, nessuna novità; lo sapeva con precisione ogni passante che non fosse di Copenaghen. Ma il cat bond? La traduzione, prima di tutto: in linguaggio di Piazzaffari (non bocconiano) è obbligazione catastrofale. La Grande Finanza, avendo scelto meritoriamente di non rinunciare ad alcun possibile profitto, ma piuttosto cercare ogni occasione possibile per farlo crescere, ha creato la possibilità di scommettere e speculare anche sui disastri ambientali – rari terremoti e frequenti inondazioni, sugli incendi devastanti, sulle siccità – in modo che la comunità o il paese che ha subìto il trauma possa imparare la lezione e si convinca ad assicurarsi e ricevere, nel caso di un eventuale futuro disastro, un risarcimento, una consolazione, un sussidio per interventi di prammatica (o un compenso per la giocata vincente; scegliete voi). Le comunità, gli Stati, forse i privati, possono acquistare effetti assicurativi contro i disastri ambientali (che anche alla City sanno essere in crescita, dato l’andamento climatico); pagare un premio e… aspettare. Qualcosa avverrà. A quel che si capisce, il premio può essere negoziato e venduto a un finanziere speculatore (o un consorzio, una colleganza, una società di speculatori) che, nel caso di un guaio generale, di lutti e lacrime riceverà, magari in un altro continente, alla City, a Piazzaffari, un gran compenso risarcitorio, forse con un telegramma listato a lutto. Il cat bond è dunque un’obbligazione di recente ideazione ma, nel caso le cose procedano secondo i piani previsti, crescerà e frutterà molto. La povera Greta Thumberg, dal canto suo, aveva avvertito da anni: “Fate qualcosa, o sarà troppo tardi…”, ma non le hanno dato ascolto.
Acqua, una storia naturale
Bene pubblico, affare privato, bene comune: tutti i dilemmi per capire la risorsa e come gestirla
Il viaggio intorno a l’acqua fa tappa a Roma, a partire dal Tevere. Il suo compito di fiume per bene sarebbe quello di portare acqua alla città e riportare via quella ormai usata. Lo svolge male, con sempre più svogliatezza, con sempre meno impegno. Serve ormai solo a dividere la città in due: di qui il Colosseo e i Fori, di là Trastevere, i Prati e San Pietro. Sotto i ponti sono segnate le date di svariate piene: l’acqua del fiume è arrivata fin qui; le date sono perlopiù precedenti all’arrivo dei piemontesi, quelli di Porta Pia, che poi hanno costruito i muraglioni, lungo il Tevere, in città, per imbragarlo, una volta per tutte.
Per limpida, per cupa che sia, per tutte due le caratteristiche insieme, l’acqua del Tevere è difficile da spiegare a un pubblico che sa a malapena nuotare. Da qualche tempo però c’è un’idea che mi scorre (oops!) per la testa: se da un giorno all’altro l’acqua di Roma fosse finita, se il solito Tevere – cioè il biondino delle canzoni – ne offrisse ancora un po’ con le sue deboli forze, originate in Umbria, in Toscana, ma nient’altro, solo fanghiglia; e niente acqua commerciale, non acqua nei tubi, nelle riserve, nei bacini, non acqua nelle condotte, niente acqua nei rinomati alberghi romani, nelle bettole pittoresche, nei b&b, veri e sedicenti che siano, nelle cucine, nei bagni delle famiglie, poca, pochissima acqua nelle botteghe, cinesi o nostrane, ormai incapaci anch’esse di vendere acqua in bottiglia, sia pure a qualsiasi prezzo, sia pure alla borsa nera.. Una catastrofe, sembra proprio l’inizio di una distopia di terz’ordine.
Però… però non si tratta di distopia se solo due anni fa ha fatto così impressione l’immagine potente di un Tevere ormai prosciugato da cui emergono anfore romane e scheletri di motorini nel film “Siccità” di Paolo Virzì e ci sarebbe qualcosa da discutere sul serio. Il fatto è che un quarto almeno dell’umanità vive, giorno per giorno, anno dopo anno, in queste condizioni, in mille e mille città; sono tutte persone vere che di fronte al pericolo incombente della sete non sanno che fare; si chiedono a quale Signore-Padrone-Ras del territorio rivolgersi, come inventare un possibile rimedio; infine, quale divinità invocare nelle preghiere per ottenere qualcosa da bere, da dare da bere ai piccoli figli, ai vecchi, per vivere una vita decente, una vita qualsiasi. Dunque, l’acqua, l’acqua mancante, per miliardi di persone. I più fortunati, costretti a bollire l’acqua da bere, tanto per tenere lontano la diarrea e malattie consimili. Meglio partire, andarsene. Per cercare acqua pulita, un po’ di denaro per comprarne.
Lo scritto sull’acqua, comunque lungo, (largo o stretto che sia) dovrebbe, in sintesi, articolarsi in tre parti: 1) L’acqua è di tutti, è vita, come l’aria, come la luce; 2) L’acqua è un bene economico; è per tutti; tutti coloro, beninteso, che hanno di che pagarla: poi se l’acqua è un bene economico, va spiegato quanto costa produrla, chi per essa lavora, chi paga, chi la vende e chi profitta; 3) L’acqua da bere è poca, non basta mai, dato il progresso e quindi gli usi crescenti, dato l’aumento delle persone viventi, con sempre nuove necessità, data anche la povertà che impedisce a grandi masse di comprarla al prezzo aumentato. Come fare allora per averne di più, per coprire ogni esigenza, ogni legittima sete? Per evitare ogni spreco, occorre sviluppo: fare l’industria idrica, secondo libertà e coscienza e servirsi della scienza per moltiplicare gli esiti, favorirne il recupero, nella convinzione generale che l’acqua è il maggior problema della civiltà attuale e che il compito generale è affrontarlo, dedicandovi tutto, scienza, buona politica, democrazia e ogni risorsa possibile.
I due primi punti, l’acqua è un diritto, l’acqua è una merce, appaiono in netto, irrimediabile contrasto. Ma forse non c’è solo la scelta fondamentale, filosofica, tra acqua come diritto e acqua come merce. Esistono altri aspetti contradditori, vitali, pratici, anche se ancor più difficili da risolvere. L’acqua è contesa – è facile capirlo – tra ricchi e poveri: è la storia del mondo. C’è poi un’altra materia, propedeutica, da studiare prima; oltre alla storia dei secoli, una “scienza” di tipo scolastico: quanta è l’acqua? Quale è il suo stato? L’acqua è liquida, ma quella solida e quella gassosa sono ancora acqua? Se è così, come si cambia lo stato? Quanto tempo ci vuole a passare da uno stato all’altro?
In un certo senso si tratta di una doppia premessa: che qualcuno ci dica di quanta acqua, alla fine, ragionevolmente, possiamo disporre, per adesso e per dopo; e allora, noi, tutti insieme, Onu in testa, ci daremo, da fare. D’altro canto studiare tutte le guerre per l’acqua del passato e quelle preventivabili per il futuro è un modo per capire la storia e su questa base cercare, senza tregua, di porvi subito rimedio. C’è dunque una decisiva premessa: quanta è l’acqua sulla Terra?
Un aspetto è da sottolineare subito. L’acqua è quella che è, dolce o salata che sia. Non si può prendere acqua da fuori Terra, come non si può esportarne, fuori Terra, una parte, in cambio di beni preziosi o profumi inebrianti. Nessuno la costruisce per noi umani, nessuno ce la vende, l’acqua limpida e fresca, a noi viventi, a noi abitanti di Terra: Fauna e Flora però non possono farne a meno, non sopravvivono senza. Insomma, quella che c’è, c’è. Non c’è forza, non c’è volontà che possa distruggere l’acqua. Possiamo soltanto rubarcela tra di noi, o pretenderne il possesso. Si può però cambiarne lo stato. Per esempio, da dolce a salata (e viceversa).
Quanto precede determina un’importante conseguenza: se l’acqua dolce o potabile è poca e sembra non basti per l’intera popolazione mondiale, assai cresciuta nel numero, di cinque, sei miliardi in un secolo, per le vite più lunghe e le minori malattie; il cibo aumentato, l’elettricità per conservarlo e conoscenze per saperne di più, con le tante nuove e complicate e impellenti necessità, come fare a non sprecarla? Occorre finalmente affidare al mercato, al potere economico – al denaro – la scelta tra chi ne ha per bere e si disseta (e ha perfino acqua, e tanta, quanto basta per coltivare, produrre merci, giocare, e dare, quella che avanza, in beneficienza) e tutti gli altri? Oppure si può evitarlo, si può fare altrimenti? Si può ridistribuire l’acqua, si può fare un po’ per uno? E come? Si può forse spostare l’acqua con grandissime navi, si possono forse costruire lunghe condotte per portarne quanta ne serve là, dove c’è un pubblico assetato? E ancora, su un altro piano: sarebbe possibile far ‘crescere’ la quantità necessaria? ‘Produrre’ acqua fresca, potabile? Si può, per dirla tutta in una volta, potabilizzare l’acqua salata, del mare, dell’oceano? Perché in effetti, l’acqua salata è tanta ma è cattiva: cattiva da bere, cattiva da usare. Qui in sostanza è di nuovo il punto tre che emerge: oltre a non sprecare l’acqua dolce, quella che vale, oltre a rigenerarla, non inquinandone le falde, si può, in altre parole, fabbricarne, tecnologicamente, dell’altra? Prima di sviluppare questo punto occorre tornare a quella che si era indicata come considerazione generale: Quale è il rapporto tra l’acqua e la povertà?
La considerazione generale è connessa alla faccenda della sedicente proprietà dell’acqua, nella questione idrica, l’umanità presenta due partiti, come in quasi tutte le vicende della storia umana: i ricchi e i poveri 3. I ricchi sono quelli che hanno e ripetono sempre il credo: l’acqua è mia, gli altri si arrangino. Comunque, i ricchi si dissetano prima degli altri, possono scegliere il come, il quando e cosa bere e decidere della quantità della loro sete che possono attenuare o placare prima che gli altri, i cosiddetti poveri, di solito disorganizzati, comincino a dissetarsi. Non solo, ma il secondo partito ha spesso il compito di lavorare sodo per procurare ai signori del primo partito, l’acqua che sono convinti sia tutta completamente di quelli, per avere in cambio qualche sorso di sopravvivenza.
In ogni caso, per quanto riguarda la quantità di acqua esistente, in attesa di ulteriori studi, le conoscenze attuali, ormai risalenti da decenni ma sempre prese per buone, indicano in 1,4 miliardi di km cubi l’acqua esistente su Terra. Per il 97,5% è acqua salata: gli oceani, i mari. Il resto, 35 milioni di km cubi, pari al 2,5% del totale, è acqua potabile. Non tutta raggiungibile e disponibile a volontà. Notoriamente il 70% o poco meno di quest’ultima (acqua potabile) è in ghiacciai o nevai permanenti, soprattutto ai poli, cioè in Groenlandia, nell’Antartide. Il resto, per farla breve, è distribuito malamente sulla Terra, ancor più spesso sottoterra. Fiumi, laghi, paludi, contano poco, ormai. Un aspetto confortante, ma solo un po’, è che l’acqua esistente è, come si è detto, sempre la stessa, per liquida, solida o gassosa che sia; non salata ma dolce, potabile. Il tempo per passare da uno stato all’altro varia da minuti, a stagioni, a secoli. Le conoscenze umane possono solo accelerare o rallentare i tempi naturali dei cambiamenti.
Com’è ampiamente noto e come si è già ricordato, il ciclo dell’acqua sulla Terra è appunto un ciclo. Esso continua a trasformare l’aspetto esteriore, la natura apparente dell’acqua: liquida, gassosa, solida, poi ancora liquida, gassosa, liquida, solida, in modo continuo, senza perderne una goccia. L’acqua della Terra per i prossimi secoli e forse millenni (più in là è inutile speculare) è questa ed è data una volta per tutte. I tempi per il ciclo sono diversi e assai complicati, spesso: giorni, mesi, decine di anni. Questo non significa che dal nostro punto di vista di umani vada tutto bene e non vi sia niente da eccepire, da ripensare, da cambiare.
L’acqua salata non si beve, non si può usare in agricoltura, corrode gli impianti industriali, è inutilizzabile nel ciclo elettrico. L’acqua dolce, quella buona da bere, serve per tutti gli usi, ma è poca, sempre meno, par di capire, per lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost, lo strato di ghiaccio e sabbia che contiene i ghiacciai più antichi in Groenlandia e dintorni e in Atlantide. Dopo lo scioglimento dovuto al calore, l’acqua ex ghiacciata finisce prima o poi in mare e diventa salata. Si possono inventare agricolture e macchinari che funzionino bene (o quasi bene) con acqua salata? La risposta è sì, ma non sùbito, ci vorrà del tempo, tante conoscenze e studi, tanta indispensabile democrazia.
Per ora, per dirne una, risulta che l’acqua sia sempre molto mal distribuita in Terra, tanto che intere plaghe sono assetate e le persone che vi abitano cercano uno scampo altrove, dove almeno ci sia acqua bevibile per ogni persona. Il signor “Altrove” però è scontento. L’avvento di gente assetata o comunque di gente diversa, dagli usi strani, strani cibi, strane preghiere, disturba, fa disordine e preoccupa molto il signor “Altrove”. Di acqua bene comune meglio non parlare. Il signor “Altrove” direbbe, senza pensarci troppo: “acqua bene comune sì, ma a casa loro”. Il signor “Altrove” è un grande egoista, ma talvolta, senza rendersene conto, ha ragione. Spesso sarebbe possibile fabbricare acqua da bere, affrontando i costi, spesso elevati, là dove l’acqua dolce manca, ma c’è molto sole.
L’emigrazione legata alla povertà d’acqua, alla fame, è solo l’ultimo capitolo di una storia molto antica, verrebbe da dire: la storia della Terra, segnata di sponde di fiumi rivali, da ponti sgraditi, da dighe che tolgono l’acqua alle popolazioni sottostanti. L’acqua cambia di stato nei tempi che le sono necessari e guidata dal calore, dai venti, dalle correnti marine che a sua volta dipendono dalle diverse stagioni, dovute in buona sostanza all’inclinazione dell’asse terrestre… C’è insomma un concorso di eventi naturali e in parte di mano umana.
Torniamo al primo punto di partenza, determinante. Acqua bene comune, “Acqua per tutti”. Non è solo un’affermazione di principio; dovrebbe essere soprattutto un programma e un obbligo umano. Uno dei saggi studiosi che insiste, senza smettere di lottare, è Riccardo Petrella. Il 22 marzo 2024, tradizionale (e ripetitiva) Giornata mondiale dell’acqua, Petrella ha dato alle stampe un breve saggio – tre pagine o poco più – sullo stato attuale dell’arte-acqua, tutt’altro che tranquillizzante. “I leader mondiali – ha scritto Petrella – hanno abbandonato il diritto all’acqua per tutti… almeno 50 litri per persona. L’acqua per tutti fu l’obiettivo fissato dal primo Decennio internazionale dell’acqua promosso dalle Nazioni unite (1891-1991). Non fu raggiunto. L’obiettivo del Secondo decennio internazionale dell’acqua (2005-2015) divenne più ‘modesto’: fornire acqua potabile alla metà delle persone che non vi avevano accesso. Anche questo fallì. Le ambizioni del Terzo decennio in corso (2018-2028) sono diventate molto modeste: garantire semplicemente il diritto all’acqua al maggior numero possibile di persone!”. I ’leader mondiali’ hanno, già nel 1992, cambiato la natura del ‘diritto all’acqua’. Non è più l’accesso garantito a un minimo vitale di acqua pubblica e gratuita, ma l’accesso all’acqua potabile su base equa e a un prezzo abbordabile, gestito da aziende private, anche quotate in borsa, sulla base di un contratto noto come ‘delega al settore privato di un servizio pubblico’ “. Come si può notare il diritto all’acqua non esiste più, ma è piuttosto la tutela pubblica degli affaristi dell’acqua, i cui interessi d’impresa passano prima della sete delle persone povere e senza più diritti.
Non basta distribuire 50 litri al giorno di acqua potabile – ammesso che tanta sia la base individuale e indispensabile dell’acqua comune – a ogni persona vivente, ogni giorno, sia in questa o quella città opulenta e attrezzata del nostro mondo benestante, sia nel resto della Terra, dove occorre piuttosto raggiungere persone assetate in aree lontane, scomode e ardue in termini idrici, con programmi appropriati e sicuri. L’Istituzione internazionale e democratica dell’acqua comune, magnifica istituzione, inventata ad hoc da ambientalisti di varia cultura, come Vandana Shiva 4, mai entrata in funzione sul serio, forse mai nata, dovrebbe essere tale da dissetare anche il più lontano degli umani, garantendogli l’acqua necessaria oggi e anche domani, nell’isola sperduta in cui vive, sull’irraggiungibile sua incontaminata montagna. Per tutti, per tutte.
La discussione tra l’acqua come diritto o come merce è però molto vivace. In un libro non troppo recente “Acqua e comunità”, 1997-2003, il primo dei due studiosi sopra indicati, Colin Ward, descrive la propria convinzione che i problemi dell’acqua e di chi ne possa disporre si devono e si possono risolvere meglio da parte degli utilizzatori stessi, riuniti in comunità paritarie. Ciò che conta è partecipare, condividere quel che c’è, discutere, e poi risolvere insieme i problemi comuni, come la gestione dell’acqua usata e l’eliminazione dei residui inquinanti senza devastare l’acqua di tutti, in modo saggio e partecipato; consapevole e collaborativo. Posizioni simili sono diffuse tra gli esperti, gli studiosi e i politici, forse con eccessiva cautela. L’acqua comune, gestita dagli utenti, con reciproca fiducia e buonsenso, in comunità non troppo grandi, ma capaci di agire e farsi valere. Ciò che è inusuale è che Ward esponga nel suo libro “Acqua e comunità” 5con assoluta sincerità anche la posizione contraria, dovuta a uno altro studioso, Garrett Hardin, assai noto soprattutto per via di un suo saggio, The Tragedy of Commons apparso su Science nel 1968 e letto e riletto, commentato, discusso e studiato decine di volte. Il saggio non si riferisce all’acqua ma alla possibilità di collaborare e condividere i frutti.
“Immaginate – Ward riassume così la tesi avversaria – un antico pascolo comunitario nel quale ogni allevatore era libero di far pascolare il proprio bestiame. Il sistema poteva funzionare ragionevolmente bene per secoli perché i conflitti tribali, il bracconaggio e le malattie mantenevano il numero sia degli animali che degli uomini ben al di sotto di quanto il terreno potesse sopportare. Ma arriva il giorno in cui l’agognata stabilità sociale viene raggiunta. A questo punto la logica intrinseca ai beni comuni genera senza alcuna pietà la ‘tragedia’. Il risultato è che il pascolo pubblico viene sfruttato in modo devastante”. In sostanza la tesi di Hardin è che l’unico modo per gestire l’acqua, come ogni altro bene comune, è quella di far pagare quella che si usa, in modo che non venga sprecata…e non si innesti la tragedia finale.
Si arriva dunque al secondo punto che è facile da capire, molto difficile da non praticare. L’acqua è un bene economico che occorre comprare e vendere, da chi lo produce a chi se ne serve. L’acqua si beve e serve nell’alimentazione e nella pulizia del vivere (in altre parole: gabinetti), serve in agricoltura, nell’allevamento, in pressoché tutte le attività industriali, nelle centrali idroelettriche e così via. Nell’edilizia, poi, l’acqua è indispensabile anche, soprattutto, come oggetto da contenere, animare, superare. Si parla, insomma, di bacini, cascate artificiali e condotte, ponti di ogni forma e modello; canali e dighe; laghi e fiumi da usare e conservare. Sono tutte operazioni che comportano un lavoro, un impegno di mezzi e quindi un costo. Il finanziamento dovrebbe essere pubblico e così la proprietà dei mezzi impiegati. Ma cosa fare subito e cosa è possibile rimandare? Cosa serve subito e cosa bisogna rimandare? L’acqua scarsa diventa facilmente, a parole, un motivo di preoccupazione per la popolazione assetata e di potere per la classe dirigente, che si attribuisce la scelta di chi dissetare e con quali risultati. C’è d’altro canto un altro conto da fare: se l’acqua è tanta o troppo poca, dati i molteplici usi, saranno comunque molte persone a svolgere il proprio lavoro per garantirla. I conti più attendibili indicano un alto numero, in miliardi, di addetti all’indispensabile lavoro dell’acqua. Un abbastanza recente studio delle Nazioni unite, World Water Jobs 2016, offre un panorama sorprendente in proposito. Le analisi contenute nel rapporto consentono di ritenere oltre 1,4 miliardi di lavori, pari al 42% del totale della forza lavoro attiva globale, in larga misura connessi all’acqua. Inoltre vi si ritiene che 1,2 miliardi di lavoratori, pari al 36% del totale della forza lavoro in attività, utilizzino abitualmente l’acqua. A conti fatti, il 78% delle attività che costituiscono l’intera forza lavoro mondiale, dipendono, in qualche forma, dall’acqua.
Per venire infine al terzo punto: se l’acqua è poca, spesso sporca e sprecata, mal distribuita, ecco un altro grande impegno, o grande affare per chi lo vive così, occorre ripulirla per l’uso civile, dopo averne fatto uso una prima volta. Occorre non sperdere, non sperperare l’acqua pulita, studiare a fondo le alternative – agricole, industriali, civili, umane – migliorando la resa dell’acqua scarsa, riabilitandola perfino in agricoltura (imparando le famose tecniche di irrigazione a goccia, sperimentate lontano, in altre culture). Infine mettendo a punto un modo di produzione di acqua dolce utilizzando, con efficienti sistemi di desalazione, la grandiosa miniera dell’acqua da bere: il mare.
La dissalazione consiste in un paio di tecniche ormai acquisite – evaporazione oppure osmosi inversa – e però ancora molto costose in termini di energia e di difficili conseguenze minori (come l’aumento della salinità marina là dove ci si libera del sale superfluo). Scienza e tecnica, lavorando appaiate, non mancheranno di migliorare e rendere vantaggioso la scambio di dare e avere nel campo dell’acqua dolce dal mare. Occorre però non sprecare, neppure l’acqua sporca, ma tenerla il più possibile per farne di nuovo uso, in modo appropriato. Dopo tutto sarà ancora una volta la scienza a darci una mano, a fare la sua parte. Fare altra acqua bevibile, trasformando il mare, rigenerare l’acqua usata una prima volta per un nuovo utilizzo, nell’agricoltura, nell’industria, è certo la grande impresa dei prossimi decenni, un’industria importante come e più di quella del secolo scorso e di quello precedente, quella di carbone, petrolio e gas. Senza, naturalmente, consegnare tutto agli industriali del petrolio e dell’auto. Vedremo, insomma. Prosit ai bevitori del futuro.
Resta il discorso della ripartizione, nota da sempre agli umani e agli altri animali tra le chiare e fresche acque da bere e le fosche e ribollenti acque salate dell’Oceano. Le prime sono ai poli, nei ghiacciai e sottoterra, e poi nei fiumi e nei laghi. Le seconde sono negli oceani e nei mari. L’acqua pulita si contamina se viene in contatto con quella salata che assorbe la prima e la fa propria, cambiandone la natura.
Com’è ampiamente noto e come si è già ricordato, il ciclo dell’acqua sulla Terra è appunto un ciclo, continua a trasformare l’aspetto esteriore, la natura apparente dell’acqua: liquida, gassosa, solida. L’acqua della Terra per i prossimi secoli e forse millenni (più in là è inutile speculare) è questa ed è data una volta per tutte. I tempi per il ciclo sono diversi e assai complicati, spesso: giorni, mesi, decine di anni.
Riassumendo: l’acqua salata non si beve, non si può usare in agricoltura, corrode gli impianti industriali, è inutilizzabile nel ciclo elettrico. L’acqua dolce, quella buona da bere, serve per tutti gli usi, ma è poca, sempre meno, par di capire, per lo scioglimento dei ghiacciai, determinato, assai probabilmente, dal cambiamento climatico, per lo spreco dei ricchi delle città ricche. L’emigrazione legata alla povertà d’acqua, alla fame, è solo l’ultimo capitolo di una storia molto antica, verrebbe da dire: la storia di Terra, segnata di sponde di fiumi rivali, da ponti sgraditi, da dighe che tolgono l’acqua alle popolazioni sottostanti. L’acqua cambia di stato nei tempi che le sono necessari e guidata dal calore, dai venti, dalle correnti marine che a sua volta dipendono dalle diverse stagioni, dovute in buona sostanza all’inclinazione dell’asse terrestre… Dunque se finora si è trattato di governare l’acqua esistente; adesso occorre andare oltre; imparare a modificarne i tempi e le condizioni.
Per ripetere numeri abbastanza noti, in complesso l’acqua su Terra, H2O, liquida, solida, aerea, (naturalmente sia dolce che salata) sarebbe pari a 1,4 miliardi di km3; l’acqua dolce o potabile) sarebbe invece di 35 milioni di km cubi, pari al 2,5 per cento del totale. Quest’ultima però si ripartirebbe in tre categorie assai disparate come peso: lo 0,3 per cento in laghi e riserve; il 30,8 per cento in acque sotterranee, e simili, tutto compreso; 68,9 per cento in ghiacciai e strati di ghiaccio e permafrost di Antartide e Groenlandia. Per sua natura l’acqua superficiale tende a evaporare, formare nubi e poi precipitare di nuovo sulla Terra, sul terreno solido e soprattutto su oceani e mari, data la superficie preponderante sotto forma di acqua-pioggia non salata. La pioggia è potabile, o così si crede (escludendo le piogge acide, famose nel secolo scorso). Attualmente – da molti anni ormai e in modo crescente – il ciclo dell’acqua liquida-aerea-liquida-solida-liquida- aerea e così via è condizionato dal notevole aumento di gas serra che provoca temperature più elevate, causando la riduzione sostanziale dei ghiacciai e di conseguenza di acqua dolce in molti luoghi della Terra. Il cedimento dei ghiacciai dell’Himalaya per il cambiamento climatico ha in buona misura causato l’impoverimento dei fiumi di India, Cina, Pakistan, Nepal, Birmania e una grave riduzione di agricoltura e allevamento in gran parte del continente. Una parte delle popolazioni sono prive di cibo, oltre che di acqua pulita e quindi qualche membro della famiglia è costretto a partire per andare lontano a cercare lavoro (e guadagno) per sé e aiuti per la famiglia.
Metà della forza lavoro globale è addetta in otto industrie dipendenti dall’acqua e dalle risorse naturali: agricoltura, forestazione, pesca, energia, intervento su risorse intensive, riciclo, costruzione, trasporti. Questo riparto include lavori nella sanità, nel turismo. Le analisi del rapporto stimano in più di 1,4 miliardi di addetti, pari al 42% del totale dei lavoratori attivi al mondo. Inoltre aggiunge che 1,2 miliardi di addetti pari al 36% della forza lavoro globale è connessi con l’acqua. Insomma il 78% delle attività che compongono la forza lavoro complessiva sono connessi all’acqua. L’industria è un’importante offerta di lavoro nel mondo e impiega un quinto della forza lavoro mondiale. Industria e manifattura conta per il 4% dell’uso di acqua globale è la previsione è che entro il 2050 la manifattura da sola potrebbe aumentare l’uso di acqua del 400%. L’uso di acqua potabile è cresciuto globalmente dell’1% l’anno dal 1980, soprattutto per la crescita della domanda da parte dei paesi in via di sviluppo. In molti dei paesi altamente sviluppati l’uso di acqua potabile è stabile o regredisce un po’. Una rapida urbanizzazione e il miglioramento delle condizioni di vita fanno crescere la domanda di acqua, cibo (soprattutto carne) ed energia da parte di una popolazione in crescita globale condurrà inevitabilmente alla creazione di lavori in certi settori (per esempio offerta municipale di acqua) e la perdita di lavori altrove. “Come la fame, la privazione dell’accesso all’acqua è una crisi silenziosa vissuta dai poveri e tollerata da chi ha le risorse, la tecnologia e il potere politico per porvi fine”. Quello che precede è un passo della sintesi “Al di là della scarsità/ Il potere, la povertà e l crisi idrica globale” di Lo sviluppo umano – Rapporto 2006 UNDP, pubblicato da Rosenberg & Sellier per conto dell’UNDP – United Nations Development Programme.
Conclusione dedicata a Telkes Maria
Siamo nel 2045 (oppure 2056). L’acqua da bere non basta. Quella disponibile costa molto o è pessima. I paesi più forti o fortunati si assicurano quella che possono prendere, infischiandosi di tutti gli altri. I più deboli sono alla sete. Alcuni spingono uomini e donne a emigrare, cercando fortuna e acqua. I paesi più fortunati hanno un lago da bere, ma non basta mai. Le rive del lago sono un’area proibita; chi si avvicina passa guai.
L’acqua esistente nella Terra è in una quantità data. La stragrande maggioranza è acqua salata, non potabile, inutile in larga misura agli usi civili e agricoli. L’acqua potabile è perlopiù costituita da ghiaccio, soprattutto ai poli terrestri. Il riscaldamento globale ha ridotto il ghiaccio esistente. La scienza e le tecniche stanno cercando da decenni soluzioni per ricostituire la scorta di acqua potabile, non sprecarla, conservarla per quanto possibile. In effetti solo la scienza può darci una mano, ma solo una scienza generosa e piena di calore umano. Allora entra in partita Giorgio Nebbia, studioso e politico italiano. Egli torna sulla più semplice via, sempre differita: si tratta di dissalare l’acqua del mare, utilizzando energia in gran misura presa dal sole. I paesi senza sbocchi al mare si sono trovati in grandi difficoltà e costretti a comprare acqua da paesi geograficamente più fortunati o più ricchi, o più svelti nell’operare il commercio. La Terra è piombata di nuovo nel vecchio dominio del petrolio, con un pugno di paesi in grado di decidere della fortuna – dell’abilità, del futuro – di tutti gli altri.
Qualcuno pensò che la situazione non era decisa per sempre (neppure quella del petrolio lo fu). Era possibile produrre e mettere in vendita o meglio: a disposizione acqua potabile che prima non c’era, producendola direttamente in mare, meglio se in mari caldi, per poi portarla a chi ne avesse bisogno: cioè tutti. Occorreva solo uno scambiatore, una pompa, una condotta sicura e un punto d’arrivo. La condotta non poteva essere troppo lunga, per evitare guai. Il macchinario, semplice di concezione, doveva garantire un funzionamento costante e non troppo oneroso; meglio se a energia solare. L’acqua nuova doveva seguire la domanda, pertanto doveva potersi spostare. L’unica soluzione era quella di produrre acqua chiara direttamente dal mare, da una piattaforma – una nave – sicura e mobile.
Di una simile soluzione aveva parlato Lo studioso Giorgio Nebbia in vari libri e articoli. Si poteva rilevare una delle tante navi petrolifere in disarmo, ripulirla per bene, dotarla di macchinari per dissalare l’acqua e di impianti per produrre energia dal sole (o dal vento) e se possibile immagazzinare una parte dell’elettricità disponibile; e infine scaricare l’acqua buona, a terra tramite un tubo in un circuito idrico, o tramite un tubo a uno spazio impermeabile, simile a una cisterna di servizio.
Perché l’ultimo passo dello scritto è dedicato a Telkes Maria? Maria Telkes? Proprio Giorgio Nebbia, scienziato italiano di prestigio, in uno dei suoi scritti, ha ricordato Maria Telkes 6 , una scienziata di Budapest, (là si scriveva prima il cognome e dopo il nome) emigrata e vissuta in Usa ai tempi della seconda guerra mondiale. Telkes era una valente tecnologa industriale. Aveva inventato un apparato che poteva essere utilizzato per bere e salvarsi dagli aviatori americani abbattuti in mare da tedeschi o giapponesi. L’apparato era progettato per far parte della dotazione degli aviatori. Consentiva di ottenere acqua bevibile dal mare con un sottile disco, una sorta di ombrello leggero, capace di immagazzinare calore sufficiente per mettere in funzione un apparato di piccole dimensioni, a sua volta capace di produrre un paio di litri di acqua dolce, salvando la vita di quell’aviatore finito in mare.
Nella nuova situazione di certo Telkes non si sarebbe tirata indietro, ma servendosi anche dei suggerimenti di Nebbia, con una discussione tra competenti, di alto spirito, di comprovata democrazia, avrebbe saputo risolvere i non pochi problemi tecnici per realizzare un o più navi a lei dedicate, con a bordo apparati capaci di trasformare l’acqua salata in acqua da bere. Ecco tutto.
NOTE E APPENDICI:
1 Tra i corsi d’acqua esondati in Romagna tra inizio e metà maggio 2023, da notare il Pisciatello spesso scambiato per il famoso Rubicone: cfr wikipedia
2 Gaia Vince è ricercatrice e divulgatrice scientifica britannica, suo il libro “Il Secolo Nomade, come sopravvivere al disastro climatico”, Bollati Boringhieri 2023, euro 27.
3 cfr “Atlas mondial de l’eau“, Salif Diop-Philippe Rekacewicz, Editions Autrement
4 Si debbono a Vandana Shiva i 9 principi che sono alla base della democrazia dell’acqua: L’acqua è un dono di natura; l’acqua è essenziale alla vita; la vita è interconnessa mediante l’acqua; l’acqua deve essere garantita per le esigenze di sostentamento; l’acqua è limitata e soggetta a esaurimento; l’acqua deve essere conservata; l’acqua è un bene comune; Nessuno ha il diritto di distruggerla; l’acqua non è sostituibile.
5 Colin Ward, 1997, “Acqua e comunità” in Italia Eleuthera
6 Cenni sulla biografia e sulle innovazioni di Maria Telkes si trovano anche su wikipedia oltre che in podcast in italiano e in inglese