La nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere è stata di nuovo sottoposta a un fermo amministrativo di 60 giorni. Questo episodio evidenzia le crescenti difficoltà per le Ong nelle operazioni di soccorso. Tra detenzioni imposte, regolamenti restrittivi e la controversa collaborazione con la Guardia Costiera libica, emergono serie problematiche riguardanti la protezione dei diritti umani e la sicurezza dei migranti in mare. Per comprendere l’impatto di queste nuove normative sulle operazioni di salvataggio, abbiamo intervistato Fulvia Conte, coordinatrice MSF per la ricerca e il soccorso in mare

di Daniela Galiè

La sera del 23 settembre, le autorità italiane hanno nuovamente disposto un ordine di fermo contro la nave di ricerca e soccorso Geo Barents, operata da Medici Senza Frontiere. Il provvedimento, emesso in base al decreto Piantedosi, prevede una sospensione di 60 giorni e si fonda sull’accusa che l’imbarcazione non abbia seguito le istruzioni della Guardia Costiera libica durante un’operazione di soccorso in mare. È la quarta volta che la nave di MSF subisce un simile blocco, nonostante stesse adempiendo al dovere legale di salvare vite umane.

Le autorità italiane continuano a riconoscere legittimità alla Guardia Costiera libica, nonostante le gravi accuse di crimini contro l’umanità sollevate da parte delle Nazioni Unite e altre organizzazioni per i diritti umani.

Questi ripetuti provvedimenti amministrativi che hanno colpito la Geo Barents, come anche altre imbarcazioni di ricerca e soccorso, rilanciano con urgenza il dibattito sulle politiche italiane e europee in materia di soccorso nel Mediterraneo e mettono in luce un ulteriore irrigidimento delle misure contro le organizzazioni umanitarie, contribuendo a un clima di crescente criminalizzazione delle migrazioni e delle operazioni di salvataggio.

L’attuale quadro normativo, anziché agevolare gli interventi di salvataggio, rende l’operato delle Ong sempre più complesso e pericoloso. Le sanzioni, unite all’assegnazione di porti di sbarco lontani dalle zone di soccorso, ritardano il trasferimento dei naufraghi in un luogo sicuro, aggravando l’emergenza e aumentando il rischio di ulteriori perdite di vite durante la traversata.

Le politiche italiane, incapsulate nei vari provvedimenti, di cui il decreto Piantedosi rappresenta l’ultimo sviluppo, evidenziano una crescente tensione tra l’esigenza governativa di controllare i flussi migratori e l’obbligo morale e giuridico di salvare vite in mare. Le Ong, pur cercando di adempiere al loro mandato umanitario, sono sempre più spesso oggetto di fermi amministrativi e sanzioni che ne limitano l’operatività, compromettendo così uno dei principi fondamentali del diritto marittimo: il dovere incondizionato di soccorrere chi è in pericolosenza eccezioni e senza condizioni.

Per comprendere le implicazioni di queste nuove normative e il loro impatto sulla operazioni di salvataggio, abbiamo intervistato Fulvia Conte, coordinatrice MSF per la ricerca e il soccorso in mare.

Nella nostra intervista, Fulvia ci offre una panoramica dettagliata delle sfide quotidiane affrontate dagli operatori delle missioni di ricerca e salvataggio: come si concilia l’obbligo morale e legale di soccorrere vite umane in mare con le rigide disposizioni imposte dalle autorità italiane?

«Il decreto Piantedosi – ci spiega Fulvia – si inserisce nel contesto normativo italiano sviluppato negli ultimi anni, sotto governi di diverse estrazioni politiche e inasprisce notevolmente le pene, criminalizzando le persone migranti e complicando ulteriormente le operazioni di soccorso. Tra le varie disposizioni, il decreto stabilisce anche che, dopo un’operazione di soccorso, le navi debbano dirigersi verso il porto assegnato senza possibilità di deviazioni. È importante sottolineare che il decreto non vieta esplicitamente alle navi di effettuare più di un soccorso, poiché anche questa disposizione sarebbe in aperto contrasto con il diritto internazionale. Tuttavia, accade frequentemente che, nonostante una nave abbia già completato un soccorso e ricevuto un porto di sbarco, venga avvistata un’altra imbarcazione in difficoltà. In questi casi non si è mai messo in discussione l’obbligo di intervenire. Tuttavia, qualora la richiesta di deviazione venga respinta, ci troviamo di fronte a una scelta cruciale e paradossale.

Da un lato, abbiamo l’opportunità immediata di intervenire, contravvenendo agli ordini del MRCC italiano, ma con il rischio di sequestro e di una prolungata inattività che comprometterebbe ulteriori operazioni di salvataggio. Dall’altro lato, c’è l’obbligo di proseguire verso il porto, lasciando così quell’imbarcazione priva di assistenza

Affrontare tale scelta è inaccettabile e il decreto Piantedosi, che impone la direzione verso un porto assegnato, anche se distante, amplifica questa disumanità».

Un altro aspetto particolarmente controverso del decreto Piantedosi è l’imposizione della collaborazione con la Guardia Costiera libica: in che modo quest’obbligo compromette l’efficacia delle operazioni di soccorso, mettendo a rischio la sicurezza dei naufraghi?

«La questione del coordinamento con la Guardia Costiera Libica, pur apparendo complessa, presenta una chiara implicazione: ci viene richiesto di conformarci a ordini emessi da un’autorità libica che contravviene esplicitamente al diritto internazionale. Tali operazioni non solo si rivelano rischiose e aggressive, ma spesso si trasformano in situazioni mortali. Numerosi video e testimonianze documentano le manovre intimidatorie dirette contro le organizzazioni non governative. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che queste azioni contro di noi, non sono paragonabili in termini di violenza e pericolosità alle operazioni condotte dalle stesse autorità libiche durante le intercettazioni di naufraghi. In alcuni filmati, si osservano motovedette libiche speronare gommoni, distruggendoli e facendo precipitare in mare decine di persone, molte delle quali purtroppo perdono la vita. Coloro che vengono intercettati sono sottoposti immediatamente a frustate e torture, pratiche che si rivelano letali. Numerose sentenze, sia a livello nazionale che internazionale, confermano che la Libia non è un porto sicuro. Tra le più recenti, la Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, supportato anche da dichiarazioni e missioni di fact-checking condotte in ambito europeo e dalle Nazioni Unite. Ogni anno vengono emesse sentenze che condannano comandanti per aver favorito o permesso il ritorno di naufraghi in Libia, ad esempio mercantili che hanno collaborato con la guardia costiera libica. In alcuni casi, sono stati invece assolti naufraghi che hanno tentato di evitare questo ritorno, persuadendo il comandante. Nonostante queste evidenze, i centri di coordinamento, soprattutto italiano e maltese, continuano a cooperare con le autorità libiche. Attualmente, vi è persino un gruppo della Guardia Costiera Libica in formazione a Vicenza. Nel migliore dei casi, si obbligano Ong e altre navi a collaborare; nel peggiore, i centri stessi coordinano i respingimenti, in violazione dei trattati internazionali sottoscritti.

Questo obbligo di coordinamento con le autorità libiche è paradossale, oltre che illegale e facilmente contestabile in base alla normativa europea e marittima, che definisce il soccorso come concluso solo quando le persone vengono portate in un luogo sicuro. La Guardia Costiera Libica non può quindi eseguire soccorsi, in quanto le sue azioni equivalgono a respingimenti illegittimi

Dunque l’interferenza libica compromette la sicurezza dei naufraghi, come dimostrato in recenti sentenze, tra cui l’ultima riguardante la Geo Barents, che ha sospeso la detenzione amministrativa della nave e ha rigettato l’accusa secondo cui l’intervento dell’Ong avrebbe aggravato la situazione del salvataggio, evidenziando piuttosto il contrario».

È cruciale mettere in luce la questione della cooperazione italo-libica nel quadro della crisi migratoria. In che modo l’appoggio dell’Italia si concretizza in un sostegno diretto a operazioni che mettono a repentaglio i diritti umani e la vita di chi fugge?

«Va sottolineato con forza come l’Italia continui a sostenere e finanziare la Libia, fornendo motovedette, addestrando il personale della Guardia Costiera libica e dotandola delle risorse necessarie. Quelle stesse motovedette, fornite dall’Italia, con a bordo personale formato e finanziato dal nostro Paese, sono poi le stesse che minacciano le operazioni di soccorso in mare, intercettano le persone e le riportano indietro verso la Libia.

Ad esempio, durante uno degli ultimi interventi di soccorso, avvenuto solo quattro giorni fa, abbiamo subito l’ennesima intimidazione da parte della Guardia Costiera libica, come è accaduto anche in quest’ultimo soccorso e, in maniera ancora più pericoloso, a marzo. In quell’occasione, una motovedetta ha tentato di abbordare il nostro battello RIB, ostacolando per oltre due ore il soccorso di 45 persone a bordo, in una situazione di estrema pericolosità, con l’imbarcazione che stava prendendo acqua.

La motovedetta in questione apparteneva alla classe P300, donate proprio dall’Italia alla Libia e costruite dai Cantieri Navali Vittoria. Su queste motovedette è ancora visibile una piccola targa che porta la bandiera italiana e il nome del cantiere di provenienza. A bordo, si trovano uomini con volti coperti, armati, vestiti con uniformi militari non ufficiali, pronti a minacciare con la forza, a riprendere le persone soccorse e riportarle in Libia, sequestrando anche i nostri mezzi. Questo è il risultato concreto del supporto finanziario e operativo che continuiamo a fornire».

In un panorama caratterizzato da un crescente allarme riguardo alle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale, è fondamentale analizzare le implicazioni delle politiche europee. Quali ne sono le conseguenze sulle operazioni di soccorso e sulla vita delle persone migranti?

«Le preoccupazioni sono elevate, soprattutto se consideriamo l’andamento della situazione nel Mediterraneo centrale. Da un lato, si assiste a una totale assenza di missioni governative di ricerca e soccorso, che si accompagna a sforzi sempre più intensi per criminalizzare e rendere difficoltosa l’operatività delle organizzazioni della società civile. Dall’altro lato, si osserva una crescente criminalizzazione della migrazione, evidenziata anche dalla mancanza di pubblicazione di dati sui soccorsi effettuati dalla Guardia Costiera italiana e dalla Guardia di Finanza. È importante sottolineare che questi dati, pur non essendo pubblici, rappresentano probabilmente oltre la metà degli arrivi totali in Italia, mentre solo l’8-9% delle persone che giungono nel nostro Paese viene tratto in salvo dalle Ong.

Le nostre preoccupazioni sono giustificate dai numeri: ogni anno parliamo di migliaia di morti. Secondo la Iom, nel corso di quest’anno sono stati registrati oltre 2.000 decessi e ciò rappresenta solo una parte di una realtà molto più complessa. Sappiamo che ogni giorno scompaiono nel mare imbarcazioni “fantasma” o che i naufragi non vengono sempre segnalati. Un episodio emblematico è il ritrovamento di 12 cadaveri, di cui 11 recuperati dalla Geo Barents a luglio di quest’anno; tuttavia, non è mai stato chiarito da quale barchino provenissero, suggerendo che esistono molti altri casi simili che non sono mai stati segnalati o resi pubblici.

Tuttavia, le preoccupazioni espresse vanno oltre l’agibilità e la capacità di operare, estendendosi, come sempre, alla vita delle persone in movimento, in particolare a quelle che fuggono dai lager libici e da situazioni insostenibili e pericolose nei loro paesi d’origine. Esaminando le politiche di esternalizzazione delle frontiere e le complesse dinamiche degli accordi europei, come il sostegno finanziario alla Turchia affinché trattenga i migranti, le violazioni dei diritti umani associate all’agenzia europea Frontex, le azioni intraprese dalla Grecia e il recente accordo dell’Italia con l’Albania, appare un quadro allarmante, tutto costruito sulla pelle delle persone migranti. Sfortunatamente, sembra che nessuno si prenda la briga di guardare in faccia coloro che affrontano i rischi più elevati, individui che quotidianamente mettono a repentaglio la propria esistenza. Attualmente, sia a livello europeo che italiano, non esiste alcun tentativo, neppure formale, di garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone migranti.

In questi ultimi salvataggi abbiamo soccorso 210 persone di diverse nazionalità, tra cui Siria, Palestina, Egitto, Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia e di questi sopravvissuti molti sono minori non accompagnati, numerosi bambini piccoli e donne incinte. Sin dal primo giorno, molti hanno raccontato di aver subito violenze, torture e abusi, esperienze drammatiche che purtroppo si ripetono spesso. In questo gruppo, le sofferenze sembrano aver lasciato un segno particolarmente profondo, secondo le valutazioni dei mediatori culturali

In questo contesto critico, il coordinamento con altre organizzazioni umanitarie è fondamentale, sia da un punto di vista operativo che informativo. Attualmente, oltre venti Ong dispongono di navi, ognuna con caratteristiche distintive, predisposte per varie tipologie di soccorso. Inoltre, sono attivi aerei della società civile che giocano un ruolo cruciale nel garantire che le informazioni necessarie arrivino a chi opera sul campo: sia a autorità competenti, sia a mercantili e Ong. Tuttavia, ciò che realmente chiediamo è la concretizzazione di un meccanismo di collaborazione efficace e capillare, affinché siano le istituzioni europee e italiane a prendersi le loro responsabilità, mettendo tutte le parti coinvolte nelle condizioni di garantire un’operatività ottimale, per massimizzare il numero di vite salvate, affinché la dignità e la sicurezza delle persone migranti non sia solo un obiettivo auspicabile, ma una priorità condivisa».

Le foto nell’articolo sono di Mohamad Cheblak

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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