Alle bacchettate sulle mani non siamo ancora ritornati, ma qualcuno prima o poi ci penserà. Ci sia permessa l’iperbole (che speriamo rimanga tale), ma è piuttosto indotta dall’accelerazione repressiva e coercitiva che il governo sta inducendo, disegno di legge dopo disegno di legge, nell’interpretazione normativa di nuovi reati da un lato ed illeciti d’altro per creare un sistema di relazioni differenti tra cittadino e Stato, tra persone e istituzioni con annesse e connesse le loro rappresentanze negli enti locali e in quelli di base, come, ad esempio, le scuole.
Il ministro Valditara, infatti, prevede la reintroduzione del voto di condotta e, se pari al sei, l’assegnazione allo studente di un debito scolastico da recupare con tesina sulle malefatte; se pari al cinque, invece, sonora, diretta, inappellabile bocciatura. La versione ufficiale del governo è: si vuole contrastare il bullismo. In realtà si vuole colpire, pari pari come si fa nel DDL 1660 sulla sicurezza, il dissenso, l’organizzazione dello stesso e tutte quelle manifestazioni di protesta che possono confinare con la disobbedienza all’ordine scolasticamente costituito.
Tutto deve rientrare nella perfetta accezione di obbedienza che le destre hanno da sempre e che uniforma i cittadini al di sotto della cappa di una uguaglianza coatta, imposta e non spontaneamente cresciuta nella condivisione di comportamenti che sintetizzi la libera espressione delle singole particolarità: un compito cui la scuola della Repubblica dovere badare senza mezzi termini, consentendo così il pieno sviluppo dell’espressione personale entro il contesto della comunità di simili. Studenti con studenti, insegnanti con studenti e, perché no, anche il personale scolastico e le famiglie.
La linea di continuità è negativamente esemplare: al di fuori della scuola si reprime il dissenso, dentro la scuola si fa lo stesso. Da un lato con l’alibi dell’ordine pubblico e della facilitazione per i cittadini di evitare blocchi stradali, cortei, manifestazioni et similia che possono creare quei normali, naturali e ovvi disagi che, per esempio, uno sciopero porta con sé; dall’altro presupponendo di lottare contro il fenomeno, oggettivamente crescente, del bullismo e della mancanza di rispetto per i propri compagni di scuola e per il corpo docente. Ma questo tentativo di spacciare per prevenzione del disagio la repressione del disagio stesso con metodi da Stato di Polizia, non è facile da nascondere.
Almeno appare evidente a chi da sempre lotta per rendere più concreti i presupposti costituzionali in materia di libertà di espressione e di dissenso. La controcultura della destra di governo qui mostra il suo lato peggiore, più fascistoide: la riduzione di ogni contrarietà e di ogni criticità ad un problema di ordine pubblico e di inadeguatezza rispetto alla narrazione stabilita dall’esecutivo. Mentre dovrebbe essere Palazzo Chigi a domandarsi come mai nel Paese montano proteste, ad esempio, sulla crisi climatica e, se non proprio a prendere in considerazione tutte le istanze del movimento eco-ambientalista, quanto meno porvi una attenzione degna di sorta.
L’atteggiamento del governo Meloni, invece, riprende pari pari lo stile autoritario di premesse storiche, ed anche più attuali, dedite ad una pianificazione della trasmutazione della Repubblica da democratica e parlamentare a: premieristica, autonomistica speciale, repressiva e poliziesca. Con il mito della patria ci si gioca un po’ come si vuole e si insegna alle ragazze e ai ragazzi che il bene supremo non è la loro naturale singolarità che deve poter trovare nella quotidianità una collocazione spontaneamente naturale.
No, il bene più alto è l’obbedienza che torna ad essere una virtù a prescindere da tutto; dettata dal governo, istruita nelle leggi di un Parlamento addomesticato, applicata dagli altri organi preposti. Tutto deve poter viaggiare sui binari della congruità alla volontà dell’esecutivo. Nulla al di fuori deve essere contemplato, tollerato, anche solo permesso per un istante. Manifestazioni pacifiche, quasi ghandiane, contro le grandi opere saranno passibili di denuncia per organizzatori (leggasi quindi: sobillatori) e faranno rischiare a loro e ai partecipati fino a due anni di carcere.
Ogni forma di protesta democraticamente contemplata dalla Costituzione sarà d’ora in poi reprimibile con la durezza della forza di polizia e con quella del diritto penale. Mentre in Italia cresce il disagio dettato dall’ampliarsi del divario sociale, questo governo conservatore e reazionario (a un giorno anche questa libertà di espressione critica sarà giudicata illegale…) cambia la legislazione facendone un manganello da calare sulle teste e i corpi di coloro che si ribellano allo stato di cose presente e che vogliono dire la loro manifestando nell’ambito dell’organizzazione sindacale, politica, scolastica.
Si apre, quindi, se non sarà fermata prima di subito, una stagione di illiberalità che fa somigliare la Repubblica Italiana alle democrature di Visegrad, agli Stati che sono parte della “civilissima” Europa e che accompagnano al loro contributo economico in armi quello apparente di sostegno all’implementazione di una moderna concezione di convivenza tra i popoli. Questa tipologia di istituzionalizzazione della linea dura contro il dissenso è una contraddizione palese che fronteggia lo Stato di diritto e che, tuttavia, vi si comprende perché la democrazia permette, a maggioranza, che sia adottata.
Si ripetono i drammi del Novecento in cui, proprio dalla nascita dei regimi liberali e democratici, sono sorte le peggiori dittature e i più spietati totalitarismi. Le destre utilizzano da sempre la dialettica degli opposti e il pluralismo per inserirvisi e sfruttare le contraddizioni evidenti di un sistema che, se rispettato, perpetua la democrazia, se strumentalizzato la perverte e la converte in altro da sé medesima. Non possiamo lottare abbandonandoci alla rassegnazione del «Ci batteremo fino a che ce lo permetteranno».
La logica della lotta va rovesciata, capovolta a centottanta gradi: noi ci batteremo fino a che non impediremo loro di non consertici più di protestare. Se diamo per scontato che questa maggioranza relativa (come qualunque altra maggioranza relativa immaginabile) possa cambiare le regole della convivenza civile, sociale ed anche culturale del Paese, perdiamo di vista la bussola che deve dirigerci: la Costituzione repubblicana. Noi dobbiamo fedeltà alla Carta del 1948 e non al governo che, per quanto sia espressione del voto di fiducia del Parlamento, a sua volta espressione del voto popolare, non è un organo rappresentativo dell’interità popolare.
Quanto meno non lo è nell’oggettiva composizione della maggioranza che lo sostiene, fatta di forze politiche che vincono le elezioni ma che non hanno il diritto di prevalere sulle altre di minoranza e sulle opposizioni anche esterne alle aule che legiferano. Questo governo, da quando si è insediato, non ha fatto altro se non esercitare un’azione repressiva nei confronti di qualunque comportamento che fuoriesca dalla sua etica, prescidendo dall’etica democratica che emana dalla Costituzione e che è l’essenza caratteriale della Repubblica.
Questo governo tratta le differenze stigmatizzandole, parla attraverso i suoi ministri di “umiliazione come fattore di crescita” nella scuola (Valditara dixit…) ed esprime, ad ogni giro di pseudo ragionamenti, il pensiero unico dell’autorità che dispone e non che comprende, che sovrintende e non che collabora, che domina e non, invece, che si uniforma alla volontà popolare. Palese è, quindi, da almeno due anni il sempre più pericoloso tentativo di disequilibrare l’equipollenza dei poteri dello Stato a favore di Palazzo Chigi, svilendo il Parlamento delle sue funzioni e attancando senza sosta la Magistratura.
C’è un disegno organico che lega, pezzo per pezzo, il DDL 1660 sulla sicurezza ai provvedimenti scolastici sul voto in condotta, la punizione delle proteste, gli scioperi (magari per le stesse inefficienze di una scuola pubblica che per primo il governo dovrebbe recuperare a sé stessa dandole quella dignità che le spetta), il decreto Cutro e tutte le altre misure che vengono prese per gestire la quotidiana vita degli italiani entro i parametri dell’etica di uno Stato dove regna l’ordine attraverso la repressione di piazza, il contenimento delle criticità e il non affrontare scientemente le vere radici dei problemi sociali e civili.
In questi giorni la richiesta di referendum sull’accorciamento dei tempi per l’ottenimento della cittadinanza italiana è stata firmata da oltre seicentomila cittadine e cittadini. Un successo clamorosamente inaspettato per una campagna partita in sordina, bistrattata da quasi tutti i giornali e le televisioni; veicolata soltanto dal tam tam internettiano che, per fortuna, supplice a tutto questo ed anche alla difficoltà oggettiva dell’organizzazione di altri banchetti per le vie e le piazze d’Italia. Segno che la popolazione che si riconosce nei valori democratici, antifascisti, in un umanesimo di nuovo conio, è e vuole prendere parte al cambiamento.
Mentre il governo comprime i diritti, una larga parte del popolo italiano, certamente la maggioranza, seppure relativa, dimostra di prendere alla lettera il dettato costituzionale e di avere a cuore una condivisione delle esperienze sociali e non una stigmatizzazione preventiva e pregiudiziale nei confronti di chi è differente per origine etnica, per pigmentazione, per cultura, politica, credo religioso. Questa Italia che oggi sembra sopravvivere al melonismo, ha il dovere di aprire sempre più contraddizioni nella fragile classe dirigente governativa: a dir poco imbarazzante, e per usare dei molto timidi eufemismi.
Il problema delle compatibilità degli interessi sociali con quelli dell’industrialismo, che, obiettivamente, chi è al governo deve necessariamente interpretare (anche se esistono parecchie differenze tra l’interpretazione e l’acquiescenza…), verrà utilizzato ancora una volta come leva per una prosperità nazionale affidata esclusivamente al benessere dei capitali di impresa e non già alla qualità di vita della stragrande maggioranza della gente che lavora e produce per il profitto, purtroppo, di una manciata di ricchissimi.
Cercare di unire, quindi, lotte sociali e civili, bisogni materiali e ossigeno democratico è l’obiettivo principale di una sinistra di classe che dialoga, parla, interagisce con le altre forze politiche e non si isola in un autoreferenzialismo compiacente ed edonistico, privo di qualunque sbocco utile alla causa tanto del lavoro quanto della libertà e della tenuta laicamente repubblicana di questa Italia del nuovo millennio e dell’era meloniana.
Compito dell’oggi, quindi, è strutturare un ampio fronte costituzionale che reagisca compattamente alla sovversione antidemocratica del governo, lasciando al dopo le distinzioni e vivendole nell’oggi come parte di una autonomia che nessuno deve chiedere a nessun altro come baratto e rinuncia per la collaborazione reciproca e unitaria. Dobbiamo mandare via questo esecutivo e restiture all’Italia una Repubblica degna di questo nome, capace di essere ancora un compromesso tra le parti e, magari aprire il varco alla possibilità di fare del pubblico l’architrave delle nuove politiche.
Delle politiche di un governo finalmente progressista, antifascista, democratico in cui i valori della Carta del 1948 non trovino soltanto spazio, ma vi si possano completamente riconoscere. A partire dalla pace, dal disarmo, dalla condivisione dei diritti sociali con quelli civili ed umani. Lavoriamoci. Senza sosta.
MARCO SFERINI