Nota opportunamente Thomas Piketty ne “Il capitale nel XXI secolo” che la gerarchizzazione morale dei patrimoni è un esercizio piuttosto sterile in quanto a critica dell’accumulazione sempre più incessante e spietata nella modernità liberista dell’oggi e del prossimo domani. Non serve ad altro se non a rispondere ad una egotica, autoreferenziale purezza antiglobalista che non ci porta nulla in termini di approfondimento di una critica, se vogliamo, marxista o, quanto meno, di vecchio stampo keynesiano rispetto al capitale stesso.
Ciò nonostante, questa gerarchizzazione (anti)etica appena citata è comunque utile per inquadrare più genericamente il problema della lontananza che separa le fasce più indigenti e fragili delle popolazioni che sono sotto il giogo mercatista e profittuale da quel pugno di megaricchi che detengono la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’alta finanza con cui gestire le transazioni e che sfuggono le tassazioni progressive sui titanici patrimoni che detengono o che, apertamente, le impediscono con tutti i condizionamenti politici possibili.
L’esempio dell’Argentina di Javier Milei è, da questo punto di osservazione, uno dei più interessanti e, parimenti, inquietante: se la Covid19 aveva provocato uno sconquasso di non poco conto nella forbice che già si era aperta, nei primi quindici anni del nuovo millennio, tra gli oltre due miliardi e mezzo di salariati, più tutto l’indotto precario e disoccupazionale in forte crescita, e il ristretto perimetro di multimiliardari possidenti dalla Silicon Valley fino alle remote lande dei paradisi fiscali, il presidente “anarco-liberista” è riuscito a fare di peggio.
Una ripetuta narrazione giornalistica, non solo di opposizione, rende piuttosto bene la drammaticità in cui oggi versa la popolazione: non le odiate sinistre, ma l’Istituto nazionale di statistica (INDEC) del paese andino certifica che l’aumento della povertà è sintetizzabile in percentuali che sono più del doppio – per l’appunto – di quelle registrate durante la pandemia. Quasi il 53% delle persone si trova attualmente sotto la soglia della sopravvivenza, non avendo quindi i mezzi sussistenziali per provvedere al fabbisogno quotidiano.
Rispetto soltanto a sei mesi fa, l’aumento è stato vertiginoso: un +11,2% di poveri che, prima della fine del 2024, è destinato ancora a crescere. La ricetta privatizzatrice a tutto spiano di Milei ha ridotto l’Argentina sul lastrico nel nome di una separazione sempre più netta tra lo Stato e l’economia. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale è propalatore di una teorizzazione e di una pratica così tragicamente eccentrica nel sostenere un capitalismo pure liberista ma che, in tutta oggettività, necessita comunque di compensazioni para-sociali.
Per quanto il peso degli Stati sia aumentato nel corso del XXI secolo, rispetto a cento anni fa, e per quanto la messa in stato di accusa delle economie di mercato sia oggetto della critica politica e del dibattito conseguente che conduce alla formulazione di nuove leggi e nuovi provvedimenti in merito, le estremizzazioni alla Milei sono possibili perché il portato della crisi globale – a partire dagli effetti climatici che si riversano sulla qualità della produzione e, in particolare, sulla quantità – è lo spettro che si aggira per le sale dei consigli di amministrazione delle grandi aziende.
La disperazione del disequilibrio planetario, il ritorno del multipolarismo e i conflitti che ne vogliono regolare – cinicamente sulla pelle di milioni e milioni di persone – una nuova stabilità, seppure temporalmente definita entro termini piuttosto ristretti e ciclici (come si conviene a tutte le fasi critiche del sistema capitalistico), sminuiscono paradossalmente il potenziale offensivo del “ritorno allo Stato” e aumentano la capacità di influenza privata là dove invece vi sarebbe più bisogno di ossigeno pubblico.
Le promesse di Milei, infatti, si rivelano per quello che sono sempre state: pura propaganda politica, ed anche di bassissimo livello populistico, per favorire un sistema di convergenze di interessi dei grandi capitali che speculano su una crisi sociale da cui ormai rimane ben più poco da spremere. Il sistema salariale argentino è praticamente saltato. Quello pensionistico è stato tagliato di centinaia di milioni di dollari; eppure il presidente ha la sfrontatezza di affermare che, se non avesse agito in questa direzione oggi l’inflazione sarebbe esplosa a livelli inimmaginabili e la povertà, invece di essere poco oltre la metà della popolazione, sarebbe al 95%.
Milei può provare a giustificare le sue politiche antisociali in qualunque modo, ma sono i fatti che contano. E i fatti ci dicono che quasi sette minori su dieci in Argentina non hanno di che mangiare giornalmente, rischiano una denutrizione da Terzo mondo africano, da zone iperdepresse del pianeta e che, di conseguenza, la stessa agenzia dell’ONU per l’infanzia ha lanciato un allarme, naturalmente inascoltato dal governo di Buenos Aires, sulla continua diminuzione delle risorse destinate alle scuole, alle famiglie più povere, ai bambini in generale.
Grande nemico del iperliberismo mileista è lo sviluppo di qualunque idea di nuovo stato-sociale nel XXI secolo. Non c’è dubbio che i rapporti di forza tra struttura economica e sovrastruttura statale siano notevolmente cambiati, anche facendo riferimento solamente a pochi lustri fa; ma, dalla crescita delle risorse destinata alla spesa sociale, tratto distintivo di buona parte del secolo scorso, a partire dagli anni Venti e Trenta, si è oggi prodotta una inversione di tendenza che pone questa stessa spesa sociale come variabile dipendente dalle fluttuazioni del mercato.
La funzione regolatrice è quindi stabilita unicamente, tanto dal FMI quanto più focosamente da Milei, nelle dinamiche che stabilizzano o alterano i rapporti tra gli Stati in conseguenza dell’andamento di una economia che guarda esclusivamente al rafforzamento di un potere finanziario che detta legge ai governi che, a loro volta, sono pronti a proteggere i privilegi mercatisti con il riarmo incessante cui stiamo assistendo. Il fallimento dell’istituzionalità del potere è uno degli elementi chiave di un XXI secolo in cui la torsione è tutta a favore dell’economicità del potere medesimo.
Secondo Milei il prodotto inflazionistico sarebbe, in qualche modo, un regolatore delle dinamiche interne e produrrebbe, alla fine, un effetto di stabilizzazione attraverso la revisione del monte salariale e, quindi, dei prezzi. Peccato che tutto questo processo meccanicistico del capitale avvenga a nocumento delle classi già fortemente colpite dalle precedenti crisi sociali e che – lo affermano gli economisti praticamente di qualunque scuola di pensiero – la primissima difficoltà connaturata all’affidarsi agli effetti inflazionistici sia proprio quella dell’irrefrenabilità dell’inflazione stessa.
Il rischio che vada letteralmente fuori controllo è un dato di fatto, più volte constatato nella storia del capitalismo mondiale: dall’Europa all’America. La teorizzazione iper-privatizzatrice di Milei, resa nella pratica dai suoi decreti di smantellamento della banca di Stato, di tutti i settori pubblici prima attivi, di un restringimento piuttosto importante delle risorse destinate alle pensioni e ad ogni settore della vita sociale, non produce gli effetti che pretenderebbe di portare con sé “naturalmente“. L’inflazione, di per sé, è uno strumento cavernicolicamente adoperabile da un anarco-capitalismo che di per sé è già un ossimoro.
Una contraddizione in termini che contrasta con una redistribuzione della ricchezza che Milei non vuole, perché l’obiettivo della sua presidenza è favorire esclusivamente i capitalisti, i finanzieri, il grande padronato, la grande economica industriale che esporta le sue ricchezze oltre confine, dopo averle prodotte sfruttando a basso costo la forza-lavoro locale. L’inflazione non riesce nemmeno più, a quanto è dato osservare proprio dai dati forniti dal FMI e dalla Banca Mondiale, ad avere quella funzione molto idealizzata (e rimasta tale) di essere stimolo al prelievo dalle risorse inutilizzate.
Non è più tempo di scoperte di giacimenti auriferi e argentiferi: anche le risorse africane si stanno via via esaurendo e, quindi, la compensazione tra aumento del costo della vita e risorse degli Stati per reggere il peso delle crisi cicliche del capitale si assottiglia sempre di più. Keynes definiva, del resto, l’oro come una sorta di “reliquia barbara“, un anacronismo economico-finanziario cui affidarsi in tempi di esponenziale criticità locale e globale. Ma presidenti come Milei non sembrano badare a tutto questo. Le banche centrali hanno avuto, fino ad ora, il ruolo di contenitrici dei grandi fallimenti: quello della Lehman Brothers tra tutti…
Ma gli azzardi anarco-capitalistico-liberisti come quello di Mieli non è detto che abbiano, proprio dai grandi centri di protezione del sistema economico globale, un riscontro simile a quello del passato. Il crack di uno Stato come l’Argentina, oggi, sarebbe un fatto eclatante che destabilizzerebbe l’intero continente americano. Le banche non creano ricchezza sociale; molto più banalmente, redistribuiscono la ricchezza. Se stampano riserve monetarie non si è autorizzati a ritenere ciò un aumento dei capitali nazionali cui attingere in caso di crisi.
Mieli conosce molto bene questi meccanismi e tutti ciò che sta facendo va nella direzione tanto del compiacimento presso le grandi aziende e multinazionali quanto dell’inserimento dell’Argentina in un contesto di “occidentalizzazione” totale di una economia che fa del dollaro la divisa prima, l’emblema politico e finanziario di un capitalismo imperialista che sostiene le guerre sparse per il mondo come propaggine di una crisi endemica da cui non sa venire fuori con i mezzi della contrattazione tra le parti e con la classe lavoratrice.
I prestiti fatti dalle banche centrali (anche dalla BCE) hanno un impatto sulla politica dei singoli Stati. I prestiti fatti dal Fondo Monetario Internazionale a Buenos Aires hanno, quindi, un peso che non ci si può scrollare d’addosso così facilmente. Sono vincoli ineludibili e a cui si deve dare soddisfazione nei tempi prestabiliti. Dopo la crisi del 2007-2008, per cercare di ovviare ad una serie di contraddizioni difficilmente aggirabili nel breve termine, si sono adottate quelle che gli economisti hanno definito come “politiche monetarie non convenzionali“.
Un insieme di rischi e di azzardi legati ad un ristretto tempo dato ai prestiti e alle crescite monetarie in relazione ad un uguale aumento degli attivi economici. Sulla durata si gioca la nuova sfida del capitalismo e della finanza bancaria. A questa situazione emergenziale, indotta dalla bolla speculativa esplosa nel biennio prima citato, è corrisposta successivamente una nuova politica delle banche centrali che ha ridato fiato alle tempistiche e concesso prestiti spalmati su semestralità o annualità.
Ma, nonostante gli sforzi, la drammaticità della crisi non è venuta meno e nemmeno è diminuita. Le contraddizioni internazionali spingono verso soluzioni politiche estreme: dal finto protezionismo trumpiano all’anarco-capitalismo mileiano. Dalle guerre imperialiste della NATO e di Putin a quelle regionaliste in Medio Oriente, fino ai tatticismi asiatici e alle tragedie nazionali africane. La destabilizzazione globale, dunque, non promette niente di buono per chi punta sull’immiserimento delle classi sociali più deboli. Milei non può attendersi altro se non la fine della sua presidenza in un indecoroso, indegno e umiliante fallimento.
Un fallimento che sarà pagato da milioni e milioni di argentini, ancora di più di quanto oggi stiano pagando le folli privatizzazioni del presidente più scriteriato e scapigliato della storia del subcontinente andino.
MARCO SFERINI