Volere la Luna, la Palestina e la censura di Facebook

 Francesca Paruzzo

La storia delle guerre è sempre anche una storia delle censure del più potente nei confronti dei più debole e di coloro che provano a raccontarne le ragioniÈ ciò che sta accadendo adesso e che, in piccolo, coinvolge anche Volere la luna. Ma andiamo con ordine.

Che la guerra in Medio-oriente non sia cominciata con l’attacco del 7 ottobre scorso è indubitabile. E anche la censura, rispetto ai fatti che la riguardano, non è cosa nuova. Già in un rapporto del 2021, Human Rights Watch (Israel/Palestine: Facebook Censors Discussion of Rights Issues) ha messo in luce la prassi, da parte di Facebook, di rimuovere indebitamente post di palestinesi e di attivisti pro-palestinesi, che descrivevano le violazioni dei diritti umani commesse durante l’aggressione israeliana del maggio 2021. La polemica sull’invisibilizzazione dei contenuti sulla Palestina da parte delle piattaforme digitali non è quindi certamente nuova. In precedenza, nel 2019, anche l’organizzazione ImpACT International for Human Rights Policies, aveva accusato Israele di «sfruttare i suoi rapporti con l’azienda di Facebook per combattere i contenuti palestinesi nel cyberspazio».

Tuttavia, quanto sta avvenendo negli ultimi mesi rende particolarmente importante mantenere alta l’attenzione sulle conseguenze di tali politiche. A quasi un anno di distanza dagli attentati terroristici del 7 ottobre 2023 e dalla repressione, ancora in corso, operata da Israele nella striscia di Gaza (tale da portare la stessa Corte penale internazionale di giustizia a qualificarla come genocidio) e in Cisgiordania, la censura quotidianamente perpetrata da parte delle principali piattaforme digitali (prime tra tutte Facebook e X) porta con sé l’effetto di soffocare «le voci a sostegno dei palestinesi di Gaza» (di nuovo così Deborah Brown, direttrice associata per il settore Tecnologia e diritti umani di Human Rights Watch, nell’ultimo rapporto Meta’s Broken Promises: Systemic Censorship of Palestine Content on Instagram and Facebook). Profili sospesi, impossibilità di interagire con post, video o storie, che vengono resi invisibili fino al cosiddetto shadow ban (ossia, quella pratica utilizzata dai social networks per cui i contenuti postati da un determinato utente vengono nascosti agli altri), difficoltà a seguire o taggare account, restrizioni all’uso di determinate funzionalità come le live di Instagram o le dirette Facebook e contenuti cancellati per violazioni degli standard della community, con impossibilità da parte degli utenti stessi sia di partecipare alla formazione delle «regole del gioco»– in molti casi nemmeno pienamente conosciute o conoscibili– sia di rivendicare diritti nei confronti di questi stessi intermediari o di contestare le decisioni da loro assunte.

Così è successo negli ultimi giorni anche per gli articoli di Valentina Pazé (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/09/11/gaza-linformazione-negata-e-lennesimo-tradimento-dei-chierici/e Sergio Labate (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/09/25/israele-loccidente-e-il-trionfo-della-barbarie/) pubblicati su questo sito. Rimossi dal social network di Meta perché apparentemente (e incomprensibilmente) qualificabili, ai sensi degli (oscuri) standard della community come spam, ossia un’attività volta a utilizzare «link o contenuti fuorvianti per indurre le persone a visitare un sito web o rimanerci». Cancellati, quindi, senza appello. Nonostante la richiesta di riesame della rimozione, rimasta del tutto inevasa.

Si è detto come ciò rappresenti, da tempo, una modalità abituale di funzionamento di tali piattaforme. Venuta meno l’illusione secondo cui la rete, aperta, globale e decentralizzata, avrebbe dovuto realizzare un modello informativo accessibile e orizzontale, capace di garantire uno sviluppo della comunicazione disintermediata e di restituire potere agli individui, ciò a cui si assiste oggi è che il web, spesso, lungi dal consentire di ampliare la sfera di libertà e di rafforzare la partecipazione democratica, pur permettendo in linea teorica il più ampio accesso al pluralismo informativo, non ha consentito a queste condizioni di affermarsi in pieno. Quell’equilibrio tra fruitori e distributori dell’informazione, che avrebbe dovuto garantire al nuovo sistema di comunicazione di essere al servizio dell’individuo e della sua libera determinazione, ha lasciato spazio a una società in cui le tracce digitali che il singolo produce e distribuisce con ogni sua opinione o comportamento online sono costantemente monitorate da parte dei pochi soggetti in grado di ordinare tale mole di informazioni: appunto, le piattaforme digitali. Queste ultime si pongono così nella condizione di incidere e stravolgere l’assetto concreto dell’esercizio della libertà di informazione: impongono regole e limiti alla circolazione delle idee, filtrano le informazioni accessibili da parte di ciascun utente e definiscono contenuti di diritti e libertà costituzionali, nonché le procedure per il loro godimento.

Si assiste in questo senso a una privatizzazione de facto della censura dei contenuti, considerati – discrezionalmente e arbitrariamente – non conformi alle policies e ai termini di servizi di tali piattaforme. Policies e termini di servizio che, proprio poiché discrezionalmente e arbitrariamente posti (nonostante i più recenti interventi normativi operati dal legislatore europeo), sono destinati quotidianamente a mutare. Proprio con riferimento allo sterminio in corso a Gaza, il Wall Street Journal (Inside Meta, Debate Over What’s Fair in Suppressing Comments in the Palestinian Territories), ha reso noto che Facebook, a partire dai fatti del 7 ottobre, ha «abbassato la soglia dei suoi algoritmi per rilevare e nascondere i commenti che violano le Linee guida della community dall’80% al 40% per i contenuti provenienti dal Medio Oriente, e del 25% per i contenuti provenienti dalla Palestina».

Il rischio di tutto ciò, oggi, è che, se è vero (come è vero) che quello cui stiamo assistendo è «il primo genocidio nella storia dell’umanità trasmesso in diretta» (così l’ex portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente UNRWA, Chris Gunnes), le violazioni dei diritti umani che, in conseguenza di ciò, vengono quotidianamente perpetrate finiscano per essere semplicemente rimosse con un click; oscurate, in questo senso, da intermediari digitali che decidono se e cosa silenziare ed eliminare e che nei fatti impediscono quella pluralità di punti di vista imprescindibili per rendere i singoli partecipi di una pratica sociale condivisa. Il tutto, con effetti sul modo di percepire e interpretare la realtà e, quindi, di produrre cambiamenti nella stessa struttura del discorso pubblico

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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