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Lunedì il governo del Senegal ha presentato un piano di sviluppo della durata di 25 anni che ha come principale obiettivo quello di porre le basi per la sovranità economica della Nazione, migliorando così la prosperità e le condizioni di vita della popolazione. Il piano punta a rendere il Senegal autosufficiente dal punto di vista energetico, aumentando l’accesso all’elettricità dall’84% al 100%, attraverso lo sviluppo dei giacimenti di petrolio e di gas nazionali e alla revisione dei termini dei contratti con le compagnie straniere. «Puntiamo a costruire un’economia diversificata e resiliente» ha affermato il presidente Bassirou Diomaye Faye, eletto con una schiacciante vittoria sette mesi fa con la promessa di migliorare le condizioni di vita degli abitanti del Senegal, restituendo allo Stato dell’Africa occidentale la sua sovranità e indipendenza dall’egemonia occidentale. Secondo Faye, «La nostra economia è stata neutralizzata da un modello di sfruttamento delle materie prime senza alcuna significativa trasformazione o valorizzazione locale, lasciando il nostro settore privato nazionale troppo debole e i nostri giovani talenti alla disperata ricerca di opportunità».
Il nuovo piano economico appena presentato, dunque, è l’inizio di quel percorso di rinnovamento promesso da Faye per avviare lo sviluppo di Dakar, dopo anni di sfruttamento coloniale. La trasformazione e i cambiamenti radicali all’insegna dell’indipendenza (anche monetaria) e dell’autonomia strategica promessi dal segretario del PASTEF (Patrioti Africani del Senegal per il Lavoro, l’Etica e la Fratellanza) – il partito dagli ideali panafricanisti ricostituito a marzo con la vittoria dello stesso Faye – rappresentano una vera e propria “rivoluzione” per il Senegal. La prima fase del piano economico costerà 30,1 miliardi di dollari e sarà attuata nel periodo 2025-2029, grazie ad un mix di finanziamenti pubblici, privati e di partenariato pubblico-privato. Questa prima parte del programma economico si basa su un tasso di crescita medio del 6,5% e un aumento del carico fiscale medio al 21,7%, come spiega l’agenzia di stampa britannica Reuters. Nell’ambito di questa strategia per la sovranità economica e l’indipendenza energetica, che rappresenta un punto fondamentale del programma elettorale di Faye, il governo del Paese africano ha istituito ad agosto una commissione di esperti del settore legale, fiscale ed energetico per rivedere i suoi contratti di petrolio e gas e lavorare per riequilibrarli nell’interesse nazionale. L’iniziativa è stata messa in atto subito dopo che la nazione è diventata produttrice di petrolio a giugno, quando l’australiana Woodside Energy ha avviato la produzione nel suo campo di petrolio e gas di Sangomar. Entro la fine dell’anno è previsto anche l’inizio della produzione di gas naturale liquefatto (GNL).
La presentazione del piano, tuttavia, avviene in un contesto difficile per il nuovo governo senegalese, ossia a circa un mese dalle elezioni parlamentari anticipate. A settembre, infatti, il presidente ha dovuto sciogliere il parlamento, in quanto messo in difficoltà dall’Assemblea nazionale – dove il partito di Faye ha solo 26 seggi – che gli impedisce di mettere in atto le riforme promesse nel programma elettorale, tra cui la lotta alla corruzione, il ripristino della «sovranità nazionale» e la stessa rinegoziazione dei contratti minerari con le società straniere. «Sciolgo l’assemblea nazionale per chiedere al popolo sovrano i mezzi istituzionali per realizzare la trasformazione sistemica che ho promesso di realizzare», aveva affermato Faye nel suo breve discorso, fissando la data delle elezioni il prossimo 17 novembre.
Anche il Senegal rientra in quei Paesi dell’Africa Subsahariana che stanno lottando per affrancarsi dall’egemonia occidentale e in particolare dall’influenza francese (Dakar ha ottenuto l’indipendenza da Parigi nel 1960): le nazioni del Sahel, infatti, sono teatro di un grande fermento politico, economico e geostrategico che ha portato, dal 2020 in avanti, anche a diversi colpi di Stato con l’intento di sostituire i governi filoccidentali con giunte militari ostili alle ingerenze politiche europee – e in particolare francesi – e americane nell’area. Tra i Paesi dove si sono verificati i golpe rientrano Burkina Faso, Mali e Niger. Questi tre Stati hanno dato vita all’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) con l’obiettivo di affrancarsi dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) e soprattutto di costruire una comunità libera dal controllo di potenze straniere. Allo stesso tempo, in diversi di questi Paesi le truppe francesi e americane sono state espulse, mentre le nazioni dell’Africa occidentale guardano con sempre maggiore interesse alla Russia con la quale stanno stringendo accordi economici e militari. In Senegal, la “rivoluzione” è avvenuta con elezioni regolari, segno che la popolazione africana è animata dalla voglia di rinnovamento e di riscatto. Tuttavia, la strada del cambiamento iniziata a Dakar lo scorso marzo è messa in difficoltà da un’opposizione che evidentemente strizza l’occhio all’interesse di multinazionali e Paesi stranieri, rallentando così potenzialmente quella trasformazione promossa da Faye e da Ousmane Sonko (attuale primo ministro) all’insegna dei principi del panafricanismo e del socialismo.
[di Giorgia Audiello]