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La censura e la repressione israeliana si abbattono nuovamente sulla libera informazione e il giornalismo indipendente: dopo avere chiuso le sedi del media qatariota Al-Jazeera, infatti, lo scorso 8 ottobre la polizia dello Stato ebraico ha arrestato il giornalista americano di origini ebraiche, Jeremy Loffredo, con l’accusa di «aiuto al nemico in tempo di guerra» e di «aver fornito informazioni al nemico». La colpa del giornalista ventottenne – che lavora per il sito d’inchiesta The Greyzone – è quella di aver rivelato i danni causati dagli attacchi missilistici iraniani, specificando dettagliatamente, in un video-reportage, i siti sensibili colpiti dai missili degli ayatollah, in particolare la base aerea di Nevatim e il quartier generale del Mossad a Tel Aviv.
La polizia lo ha arrestato insieme ad altri tre giornalisti a un posto di blocco in Cisgiordania: secondo la testimonianza di uno di loro, gli agenti li avrebbero bendati, malmenati e minacciati con le pistole, dopo che si erano rifiutati di consegnargli i loro telefoni. Successivamente i giornalisti sono stati portati in un centro di detenzione a Gerusalemme, ma mentre tutti sono stati rilasciati dopo undici ore, Loffredo è stato ulteriormente trattenuto e tuttora non gli è concesso di tornare negli Stati Uniti. Da parte sua, The Greyzone ha pubblicato una dichiarazione in cui respinge le accuse infondate della polizia israeliana contro Loffredo, affermando che il governo israeliano vede la libera stampa come un obiettivo legittimo: «Israele sta arrestando e processando un giornalista americano per aver fatto giornalismo. I suoi colleghi dei media lo difenderanno?», ha scritto su X il suo collega di The Greyzone, Aaron Maté.
A scagionare Loffredo dall’accusa secondo cui il reporter avrebbe violato le leggi israeliane sulla censura, è stato un giornalista della rivista israeliana Ynet, il quale ha spiegato che i censori militari avevano permesso alla rivista di pubblicare sia la notizia del suo arresto sia il video incriminato. In seguito a ciò, il giudice del tribunale distrettuale, Zion Sahrai, ha dichiarato che Israele «non poteva più giustificare la sua detenzione». Tuttavia, la polizia ha fatto ricorso contro la decisione del giudice sostenendo, tra le altre cose, di aver bisogno di più tempo per analizzare il telefono dell’accusato: «Crediamo che troveremo cose sul telefono e saremo in grado di collegarlo [al presunto crimine]» ha affermato un rappresentante della polizia. Nonostante ciò, anche la giudice del tribunale distrettuale di Gerusalemme Hana Miriam Lomp ha confermato che «La Corte di primo grado non ha commesso alcun errore quando ha ordinato il rilascio dell’imputato». Allo stesso tempo, però ha concesso alla polizia israeliana di proseguire l’analisi del dispositivo di Loffredo fino al 20 ottobre. Giorno in cui, forse, sarà consentito al giornalista americano di poter rientrare negli Stati Uniti.
La vicenda del reporter statunitense mette in evidenza, da un lato, come in quella che viene definita «l’unica democrazia del Medio Oriente» la stampa non sia libera – elemento cardine di una democrazia – e, dall’altro, come per Israele sia di vitale importanza nascondere i danni provocati dai missili iraniani. Quella di minimizzare i danni e le perdite causate dal nemico, infatti, è una vera e propria tattica di guerra psicologica, a cui l’intera stampa occidentale sta dando il suo supporto. I media delle nazioni “amiche” di Tel Aviv, infatti, hanno rilanciato all’unisono la versione israeliana secondo cui quasi nessun missile avrebbe centrato gli obiettivi. Al contrario, il reportage di Loffredo girato in Israele e intitolato “Indagini sul campo sugli attacchi dell’Iran a Israele”, riporta filmati in cui si vede l’impatto di almeno dieci missili iraniani sulla base aerea di Nevatim nel deserto del Negev. Si tratta di una base strategica perché – come spiegato nel reportage – oltre ad essere la più grande, da qui partono gli attacchi verso Gaza e, inoltre, la base ospita gli aerei più avanzati dell’aeronautica militare israeliana, tra cui i caccia stealth F-35 Lightning II prodotti negli Stati Uniti. Il giornalista americano spiega poi dettagliatamente come Tel Aviv sia il cuore delle operazioni militari e di intelligence israeliane: proprio in questa città, infatti, è presente il quartier generale del Mossad – il potente servizio segreto israeliano – in un centro densamente popolato, cosa che di fatto rende i civili degli «scudi umani». Sebbene «il sensore militare israeliano abbia impedito ai media di riferire la posizione dell’attacco missilistico», il reporter incriminato è riuscito a rintracciare attraverso indizi visivi provenienti da filmati che circolano online il punto in cui un missile iraniano ha colpito «a meno di 1.000 piedi» (300 metri) dal quartier generale del Mossad. Loffredo dice esplicitamente che nessun media israeliano ha riportato la notizia, in quanto le informazioni sono state censurate dai militari, mentre i GPS nell’area risultavano fuori uso.
L’accaduto mostra la crescente censura israeliana e quanto sia difficile fare il giornalista a Gaza e in Israele: secondo le Nazioni Unite, nei primi sette mesi di guerra nell’enclave palestinese sono stati uccisi più di 122 giornalisti. Inoltre, Tel Aviv ha impedito ai media stranieri di entrare a Gaza e ha bandito l’unico media che aveva propri inviati sul campo: Al-Jazeera. The Greyzone ha esortato il Dipartimento di Stato americano a intervenire per difendere un cittadino americano detenuto da Israele, dichiarando che «Gli Stati Uniti hanno l’obbligo di difendere i propri giornalisti che si limitano a rispettare il loro obbligo etico di informare il pubblico sui fatti pertinenti».
[di Giorgia Audiello]