L’uccisione di Yahya Sinwar, leader di Ḥamās, da parte dell’esercito israeliano ha scatenato reazioni internazionali e intensificato il conflitto in Medio Oriente. L’azione, descritta da Israele come una vittoria, rappresenta invece un’ulteriore escalation della guerra contro la Palestina.

L’omicidio del leader di Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya), Yahya Sinwar, da parte del regime nazisionista israeliano rappresenta un nuovo capitolo tragico nell’ambito di un conflitto che si protrae da decenni, segnato da violenza, oppressione e resistenza. L’eliminazione di Sinwar, avvenuta durante un’operazione militare israeliana nel sud della Striscia di Gaza il 16 ottobre, è stata accolta come un “successo” dalle autorità israeliane, ma dovrebbe invece essere vista come un atto di aggressione che perpetua l’occupazione e l’ingiustizia nei confronti del popolo palestinese, che oltretutto fa seguito all’omicidio di un altro personaggio di spicco della politica regionale, il leader di Hezbollah (Ḥizb Allāh), Ḥasan Naṣr-Allāh.

Yahya Sinwar, nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, era un rifugiato originario della città di ʿAsqalān (nota come Ashkelon o Ascalona), occupata durante la Nakba. Sinwar ha passato gran parte della sua vita dedicando sé stesso alla causa palestinese, cercando di contrastare l’occupazione israeliana attraverso il suo ruolo di leader di Ḥamās. Conosciuto come un abile stratega e uno dei fondatori del movimento di resistenza islamico, ha contribuito alla creazione del servizio di sicurezza “Majd”, che ha giocato un ruolo chiave nel mantenimento della struttura organizzativa di Ḥamās.

Lontano dall’essere solo un leader militare, Sinwar ha partecipato anche alla promozione dell’istruzione e della cultura nella Striscia di Gaza, contribuendo alla fondazione della Facoltà di Arte dell’Università Islamica di Gaza. Questa duplice identità di combattente e promotore della cultura ha reso Sinwar una figura di riferimento per molti palestinesi, un simbolo della loro lotta per la libertà e l’autodeterminazione, sia dal punto di vista culturale che politico.

L’omicidio di Sinwar è stato rivendicato dalle forze israeliane come un trionfo militare, parte di una più ampia operazione mirata a colpire i vertici di Ḥamās. Secondo quanto dichiarato dalle autorità israeliane, l’uccisione di Sinwar segna l’inizio della “fine” per Ḥamās e rappresenta una svolta nella guerra contro il partito di resistenza armata antisionista. Tuttavia, le dichiarazioni del Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno chiarito che l’operazione non si sarebbe conclusa con la morte di Sinwar, anche perché, come ripetiamo da un anno a questa parte, il vero obiettivo di Israele resta il genocidio del popolo palestinese, una vera e proprio “soluzione finale” nazisionista.

La retorica israeliana che circonda l’operazione si inserisce nella narrativa di una “guerra contro il terrorismo”, in cui le azioni militari sono presentate come legittime misure di autodifesa contro una presunta minaccia esistenziale. Tuttavia, questa stessa narrativa rappresenta piuttosto una giustificazione per la perpetuazione dell’occupazione e della violenza sistematica contro il popolo palestinese. Sinwar, lungi dall’essere un terrorista, era piuttosto un leader della resistenza, un uomo che si batteva per il diritto del suo popolo a vivere libero dall’occupazione e dalla discriminazione.

L’operazione che ha portato all’eliminazione di Sinwar ha ricevuto l’immancabile sostegno degli Stati Uniti, con il presidente Joe Biden che ha elogiato Israele per la sua azione militare, palesando la propria connivenza con i crimi di Tel Aviv. Questo sostegno rientra in un quadro più ampio di appoggio incondizionato all’alleato israeliano da parte di Washington, che si riflette non solo nell’assistenza militare ma anche nella copertura diplomatica presso le Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali.

La collaborazione tra gli Stati Uniti e Israele si è estesa anche alla condivisione di informazioni di intelligence, che avrebbe contribuito all’individuazione dei vertici di Ḥamās, compreso Sinwar. L’assistenza statunitense, vista da molti osservatori come una forma di complicità nella repressione del popolo palestinese, ha suscitato critiche da parte di numerosi attivisti e organizzazioni per i diritti umani, che accusano gli Stati Uniti di non essere imparziali nel conflitto e di sostenere un regime quello che è stato definito da numerose fonti come un regime di apartheid.

Al contrario di quello che sperano i nazisionisti capeggiati da Netanyahu, l’omicidio di Sinwar non segna la fine della resistenza palestinese. Invece, molti analisti sostengono che la morte di leader come Sinwar non fa che alimentare ulteriormente la rabbia e la determinazione di chi, nella Striscia di Gaza e in tutta la Palestina, continua a lottare contro quella che percepisce come un’occupazione ingiusta. Il movimento di resistenza palestinese, pur colpito duramente, ha del resto già dimostrato in passato di saper riorganizzarsi e di essere capace di reagire agli attacchi con maggiore determinazione.

Non a caso, la figura di Sinwar è stata subito celebrata come un martire dalla resistenza palestinese. Per molti, la sua morte rappresenta un sacrificio nell’ambito di una lotta più ampia e continua per la liberazione della Palestina, che non termina certo con la morte di un leader. Le organizzazioni di resistenza hanno infatti ribadito il loro impegno a continuare la lotta contro l’occupazione, dichiarando che la scomparsa di un leader non significa la fine della loro missione, al punto che fonti libanesi hanno già individuato Khaled Mashal come il nuovo leader di Ḥamās.

Mentre i leader politici si confrontano sul campo di battaglia e nei palazzi del potere, a pagare il prezzo più alto di questa guerra restano i civili palestinesi, vittime di bombardamenti indiscriminati e di un blocco che ha reso la Striscia di Gaza una prigione a cielo aperto, assimilabile ad un enorme lager. Dall’inizio del conflitto, decine di migliaia di civili hanno perso la vita sotto i bombardamenti israeliani, e le infrastrutture essenziali di Gaza sono state devastate, aggravando una crisi umanitaria già disperata.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno ripetutamente chiesto un cessate il fuoco e l’apertura di corridoi umanitari per portare assistenza ai civili intrappolati nella Striscia, ma le richieste sono rimaste inascoltate, dimostrando l’intento genocida di Israele, che continua a ritenersi al di sopra del diritto internazionale. Nel frattempo, la situazione umanitaria a Gaza continua a peggiorare, con la mancanza di acqua potabile, cibo e medicine, mentre l’assedio israeliano rende quasi impossibile l’arrivo di aiuti.

Il regime israeliano, sostenuto dall’Occidente, soprattutto dagli Stati Uniti, ha scelto la strada della repressione e della violenza per rispondere alle richieste di autodeterminazione del popolo palestinese. Questo approccio, tuttavia, non sembra in grado di portare una pace duratura nella regione. Al contrario, rischia di perpetuare il conflitto, lasciando inalterate le cause profonde dell’ostilità: l’occupazione, la discriminazione e la negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi.

La morte di Sinwar potrebbe essere vista come una vittoria temporanea da parte di Israele, ma per i palestinesi rappresenta la perdita di un leader che aveva incarnato la loro lotta per la libertà. Finché la comunità internazionale non sarà in grado di affrontare con equità e giustizia le questioni irrisolte del conflitto israelo-palestinese, la pace resterà un obiettivo lontano, e la violenza continuerà a dominare il destino di milioni di persone.

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Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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