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Giuseppe Giannini

Lo scorso inverno partecipai ad uno dei vari incontri promossi dalla FIOM che, cercando di coinvolgere amministratori, operai, ed interessati, provò a sensibilizzare i governi locali e la cittadinanza sulla questione Stellantis. Nello specifico l’area di riferimento era quella dello stabilimento di Melfi. La fabbrica lucana ha costituito in questo trentennio un’opportunità per migliaia di lavoratori del settore. Ne hanno giovato l’indotto e l’economia della cittadina e dei comuni limitrofi da sempre contrassegnati da scarse possibilità. È doveroso precisare che in questi territori si accede al lavoro solo tramite raccomandazione. Dietro il versamento di decine di migliaia di euro a dirigenti, sindacalisti filo-aziendali e intermediari (le Agenzie di Lavoro), qualcuno afferma anche di richieste sessuali, in tanti hanno barattato il proprio futuro.

C’è da dire anche che nello stabilimento è stato imposto un modello produttivo con una mole complessiva di lavoro superiore agli altri del settore: un’organizzazione che ha reso normale il lavoro notturno e diminuito anche le paghe (gabbie salariali). La riduzione dei diritti è giunta a compimento con il jobs act renziano, il contratto a cd. tutele crescenti e l’abolizione dell’articolo diciotto. La contrattazione aziendale peggiorativa e sostitutiva è diventata la norma. Sono aumentati i carichi di lavoro e con essi la riduzione delle pause; di conseguenza la salubrità, le malattie professionali e i rischi per gli operai. In una terra contrassegnata dalla migrazione, scomparso il lavoro agricolo di sussistenza, finite le assunzioni pubbliche, rimanevano solo i fondi “compensativi” europei. In mancanza di impianti e infrastrutture, e con una classe politica e dirigente incapace di avere una visione, che fa della propria sopravvivenza il motivo di quella inazione che rende tutti ricattabili pur di spartirsi le briciole (un lavoro precario discontinuo e sottopagato qualunque), ecco che la venuta dell’allora Fiat fu la salvezza per tanti in cerca di occupazione. Al pari degli impianti petroliferi nella Val d’Agri la ricchezza prodotta però, se l’ha resa attrattiva per i capitalisti di ventura, ha provocato inquinamento e l’aumento esponenziale delle malattie. Inoltre, non è riuscita a superare quell’arretratezza culturale, sociale, di opportunità, che fanno rimanere indietro il Sud e le sue regioni.  La Basilicata è terra che, dal dopoguerra sino agli inizi degli anni ’80, si è retta perlopiù sul carrozzone pubblico. Durante quel lungo periodo di governi democristiani, e parentesi socialiste, i porta-voti hanno trovato lavoro pur non avendo particolari requisiti o titoli. Sono tanti i casi di persone che, con un diploma di scuola inferiore (in alcuni casi la terza media) hanno avuto accesso a posti di lavoro sicuri in enti pubblici (alla Regione, nella Comunità montana, ma anche negli uffici di collocamento). Un eccesso di spesa pubblica, stimolata dal clientelismo, che come quanto avvenuto a livello nazionale ha contribuito ad aumentare a dismisura il debito pubblico.

Finita l’epoca delle elargizioni, in concomitanza di eventi nazionali – Tangentopoli, le stragi mafiose – e internazionali – la caduta del Muro di Berlino, e dei regimi socialisti, l’accelerata al turbocapitalismo rappresentata dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla svolta austeritaria del Trattato UE – l’interventismo regolatore statale si è ridimensionato. Eppure la mano pubblica è sempre stata benevola con la proprietà, dalla famiglia Agnelli, a Marchionne, fino all’attuale a. d. Tavares. Invece la classe operaia non andrà in Paradiso. Una volta, negli anni ’60 e ’70, le lotte della classe che combatteva volevano mettere in discussione la ripetitività, e con essa l’alienazione della catena di montaggio, sia pur all’interno di un lavoro garantito e fisso. La sconfitta fu rappresentata dalla “marcia dei quarantamila” del 1980. Da lì iniziò quel distacco tra salariati e stipendiati che perdura ancora oggi. Lontani ricordi di un mondo del lavoro regolato dal capitalismo nazionale. La storia del nuovo millennio ha ribadito che non esiste più un lavoro sicuro. Gli operai della Fiat in Italia erano centosessantamila, ora sono la metà. Mirafiori è passata da settantamila addetti negli anni d’oro ai diecimila di oggi. Il gruppo Stellantis ha perso oltre quarantamila operai in cinque anni su un totale di duecentoquarantamila. In Italia negli ultimi dieci anni sono usciti undicimila operai. Ulteriori chiusure e licenziamenti sono alle porte. La politica dei governi è incapace (volutamente) di porre un freno allo strapotere dei CEO. Oggi l’orgoglio nazionale finge di prendersela con l’amministratore straniero, che non fa altro che continuare quel processo di risanamento dei conti sulle spalle della collettività, iniziato dal suo predecessore cittadino svizzero Marchionne, il quale per sfuggire al fisco spostò la sede fiscale e legale all’estero, usufruì dei regali del governo Renzi e poi uscì da Confindustria.

Ricordiamo anche quanto successo nello scorso decennio: gli accordi separati, il reparto confino per gli operai della FIOM ritenuti scomodi, le discriminazioni. Tuttavia, rispetto ai competitor l’allora FCA ritardò gli investimenti sull’elettrico (sulla cui opportunità, impatto ambientale e affidabilità delle vetture è lecito discutere) e, considerate anche le crisi degli ultimi anni dovute all’approvvigionamento delle terre rare e all’aumento dei costi conseguenti all’economia di guerra, lasciò al successore una situazione complicata. Certo, il contesto internazionale condiziona tutte le aziende automobilistiche, a cui c’è da aggiungere l’impasse che accompagna ogni rivoluzione industriale – il passaggio all’auto elettrica appunto, con la riconversione degli stabilimenti e la formazione delle competenze – ma dietro è possibile intravedere i soliti interessi dell’avidità capitalistica. In base ad essa è consentito truccare sulle emissioni nocive o corrompere i sindacalisti come avvenuto negli USA. Ed è in base alla logica proprietaria che vengono privilegiate le ambizioni degli azionisti a discapito dei lavoratori. Lo stipendio mensile di Tavares è pari alla somma di quello di mille operai. Adesso per risparmiare sulle spese promette lo spostamento altrove delle produzioni. Qualcuno dice che voglia prediligere i francesi visti i suoi trascorsi da dirigente della Peugeot. Cosi, tra contratti in solidarietà, cassa covid e cassa integrazione a rotazione, gli operai di Melfi negli ultimi anni hanno lavorato pochi giorni a settimana. E sappiamo che gli ammortizzatori sociali attuali, vincolati ai contratti aziendali, garantiscono un salario insufficiente. E poi le trasferte forzate in Francia e l’incentivo ai licenziamenti. Per non parlare di quegli operai che negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Mirafiori hanno superato i quindici anni di cassa integrazione a rotazione. E lui ha avuto il coraggio di aumentarsi del 50% la retribuzione: guadagna 39,5 milioni di dollari all’anno!

Interpellato dal governo non ha chiarito come intende procedere il gruppo, lamentando il costo energetico troppo alto in Italia. Mentre da un lato i mancati investimenti faranno perdere i fondi previsti dal PNRR per la riconversione, dall’altro la richiesta di incentivi è sempre puntuale: strategia tipica di chi utilizza ogni strumento al fine di garantire i profitti privati, anche il venir meno agli accordi sottoscritti (come negli USA), e di scaricare sul pubblico le perdite. Un quadro desolante. Ad ogni modo può essere l’occasione propizia per mettere in discussione il tipo di produzioni e con esso il mondo del lavoro. Innanzitutto la riconversione, privilegiando il trasporto pubblico. Quindi il rendere meno impattante possibile il trasporto privato. Il lavoro poi dovrebbe essere distribuito diminuendo le ore effettive e le giornate, ma sempre garantendo un salario adeguato all’indicizzazione, capace di assicurare l’esistenza libera e dignitosa di cui parla l’articolo 36 della nostra Costituzione. E, visti i decenni di aiuti statali all’azienda, a questo punto perché non pensare alla gestione nazionale dell’impresa? E infine il rispetto di quell’articolo 41 della Costituzione, che dovrebbe vincolare ogni attività in vista dell’utilità sociale. L’alternativa,  veramente rivoluzionaria, potrebbe essere quella del controllo e della gestione dei lavoratori sulla produzione. Dato il ritardo culturale di certo sindacalismo che ancora parla in maniera astratta di difesa del lavoro, bisognerebbe liberarsi da ogni fatica necessitata. Solo i lavoratori sono i soggetti legittimati a decidere cosa, quanto, e come produrre

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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