Maria Chiara Acciarini

Anche se la data della legge – 8 agosto 2024 – richiama alla mente la cattiva abitudine del Parlamento di concludere il percorso di approvazione di provvedimenti di dubbia popolarità riguardanti le scuole nel momento in cui sono chiuse, il titolo induce a pensare che in realtà essa non riguardi direttamente il sistema di istruzione. Le parole “Istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale” rievocano piuttosto “l’insieme dei fattori produttivi e delle relative imprese coinvolti nella realizzazione di una determinata produzione”. Esistono varie filiere produttive e il termine “formativa” dovrebbe al massimo riferirsi alle specifiche formazioni professionali utili per operare nei vari settori.

Purtroppo, però, ci si deve subito ricredere. La legge – confusa nel titolo e anche nel testo – agisce sulla struttura stessa del sistema d’istruzione prevedendo specifici percorsi sperimentali di durata quadriennale all’interno del secondo ciclo della scuola secondaria, appositamente attivati nella speranza di rispondere alle esigenze dei territori e, soprattutto, delle associazioni padronali. Il risultato è molto chiaro: per una parte delle studentesse e degli studenti il tempo scuola si riduce drasticamente di un anno e si riempie di ore di formazione professionale e di PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, nome sotto il quale si cela la molto contestata alternanza-scuola lavoro), mentre vedono salire in cattedra esperti provenienti dal mondo del lavoro e dalle professioni.

Domenico Chiesa ha già spiegato con molta efficacia, in queste pagine (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/07/4-anni-piu-2-negli-istituti-tecnici-e-professionali-come-tornare-a-una-scuola-di-classe/), gli effetti di tale scelta. Si abbandona l’idea di una durata quinquennale di tutta la scuola secondaria di secondo grado, proprio quando ormai ci si stava lasciando alle spalle, per motivi generazionali, l’anno integrativo obbligatorio – ai fini dell’iscrizione a tutti i corsi di laurea – per i diplomati del liceo artistico e del liceo magistrale, che un tempo duravano quattro anni, e quando anche gli istituti professionali erano definitivamente approdati al percorso quinquennale.

Di colpo si torna a prevedere il “doppio canale” Da una parte gli studenti dei licei, divisi in biennio e triennio, di fronte ai quali si aprono tutte le porte dell’istruzione superiore, universitaria e nondall’altra gli studenti degli istituti tecnici e professionali, di durata quadriennale, per i quali è previsto, innanzitutto, l’accesso agli altri rami della “filiera”: gli istituti tecnologici superiori (ITS Academy); i corsi di IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore; i centri di istruzione e formazione professionale. Ora, se può essere anche condivisibile l’idea di una valorizzazione e di un ampliamento dell’istruzione terziaria non universitaria, non si capisce perché l’obiettivo non possa essere raggiunto senza ridurre la durata del percorso del secondo ciclo dell’istruzione secondaria. Il fatto è che si vuole così tornare indietro di molti anni, al tempo in cui la separazione dei ragazzi e delle ragazze avveniva dopo le scuole elementari: da una parte chi andava all’avviamento, dall’altra chi andava alla scuola media.

Capisco che a queste considerazioni si possono fare due obiezioni. La prima è che si tratta di una “sperimentazione”. Forse si spera – e potrebbe anche accadere – che le scuole garantiscano alla proposta del ministro Valditara lo stesso insuccesso che ha avuto il Liceo Made in Italy. È difficile per ora fare delle previsioni, perché non è ancora chiaro di quali risorse aggiuntive (pubbliche, ma soprattutto private) potranno godere le scuole che si avventurano su questa strada. La legge prevede, in ogni caso, un finanziamento finalizzato pari a 10 milioni di euro per il 2024; di 5 milioni per ciascuno degli anni 2025 e 2026. L’altra obiezione, formalmente corretta, è quella che prima del 1962, anno in cui fu approvata la legge che istituiva la Scuola media unica, i ragazzi e le ragazze compivano la scelta in età più precoce. Tuttavia, tenendo conto della differente articolazione e durata della vita di oggi, la differenza fra gli 11 anni di allora e i 14 di oggi è molto limitata.

Accorciare il percorso di un segmento della scuola secondaria superiore e prevedere una stretta integrazione con il mondo della produzione rappresenta un rischio per l’avvenire dei giovani italiani. Si è più volte detto e scritto che le competenze richieste dal mercato del lavoro mutano sempre più velocemente e spetta alla formazione professionale, che la legge appena partorita tende a confondere nelle caratteristiche e negli obiettivi con il sistema di istruzione, favorire l’aggiornamento delle competenze. Alla scuola spetta e spetterà sempre il compito di fornire un’istruzione di base che permetta alle persone di rientrare in formazione lungo tutto l’arco della vita e di essere in grado di vivere meglio il tempo non occupato dal lavoro.

Le imprese non possono pretendere che il sistema scolastico offra loro i lavoratori che hanno esattamente – e spesso solo – le competenze che in quello specifico momento economico sono necessarie. I datori di lavoro possono anche sognare di poter disporre di un lavoratore o di una lavoratrice à la carte, da assumere e licenziare senza problemi, privilegiando il lavoro povero e rifiutando di occuparsi della formazione sul lavoro, ma la società italiana non può accettare un depauperamento dell’offerta formativa, che rischia di non essere più in grado di valorizzare le attitudini, le capacità, le aspirazioni delle giovani generazioni. Il problema, inoltre, rischia di investire pesantemente l’Università i cui iscritti provengono nella misura del 30% circa dagli istituti tecnici e professionali. Un primo rischio è evidente:

se la sperimentazione avesse successo, il numero delle nuove matricole potrebbe diminuire in modo significativo.

Ma, soprattutto, quale rapporto si potrà correttamente istituire fra la “filiera” e l’università? La propaganda governativa ha ripetutamente sostenuto che la scelta del percorso ridotto non impedisce di proseguire gli studi nelle istituzioni accademiche. Oggi per iscriversi all’università occorre avere un diploma che corrisponde a un percorso quinquennale. Del tutto residuali, in ogni ateneo, sono le disposizioni che riguardano coloro che hanno alle spalle la frequenza di una scuola quadriennale e che si riferiscono essenzialmente a coloro che provengono dagli istituti magistrali e dai licei artistici del vecchio ordinamento. Ovviamente è legittimo pensare che le norme riguardino una parte minuscola delle nuove iscrizioni. Così si esprime, ad esempio, il regolamento dell’Università di Torino: «Nel caso di possesso del diploma di scuola secondaria superiore quadriennale, il Consiglio del corso di studio, definisce l’entità del debito formativo corrispondente alla mancata frequenza dell’anno integrativo. In tal caso l’assolvimento del debito, che sarà soggetto a specifica verifica, dovrà completarsi prima della conclusione degli studi universitari». Anno integrativo, debito formativo: saranno queste le norme che, nella propria autonomia, gli atenei sceglieranno di adottare nei confronti dei giovani, provenienti dalla prima parte della “filiera”, che vogliono iscriversi all’università? Il testo approvato dal Parlamento sembra andare in una diversa direzione quando stabilisce le regole di accesso all’esame di stato e sopprime, a certe condizioni, il sostenimento dell’esame preliminare e la frequenza dell’“apposito corso annuale” da parte di coloro che hanno frequentato l’ultimo anno della filiera. Come si concilieranno le differenti disposizioni? Grande è la confusione sotto il cielo. Certo, il problema non si pone oggi, ma quattro anni passano in fretta. Le università debbono far sentire la propria voce, anche perché il rischio di un abbassamento del livello di preparazione dei nuovi iscritti esiste e non può essere ignorato. Come non può essere ignorata la necessità di chiarezza per le scuole che vogliono adottare la sperimentazione e per i ragazzi e le ragazze che scelgono di addentrarsi nell’intricata “filiera”.

Bisogna cercare di contenere i danni di un provvedimento che, nel suo dichiarato obiettivo di aderire pedissequamente alle richieste del mercato del lavoro, rischia di danneggiare la scuola, l’università e soprattutto i giovani

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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