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L’Italia preferisce le rivoluzioni “cosmetiche”, gattopardesche, in cui a cambiare  è solo l’apparenza, piuttosto che le riforme reali, osteggiate dal neocapitalismo in tutto il mondo e sostituite dal culto del nuovo fine a sé stesso. E così il Governo – anche quello del fu “prima gli italiani”- può privatizzare tutto il privatizzabile, senza che si sollevi una mosca.

L’Italia delle rivoluzioni a costo zero

Umberto Saba, in una frase spesso citata, affermava che gli italiani non hanno mai fatto una vera rivoluzione. Tuttavia, questa non è solo una semplificazione: è una semplificazione errata. Gli italiani, in realtà, di rivoluzioni ne fanno spesso, ma si tratta di cambiamenti puramente estetici, dove a mutare profondamente è solo l’apparenza.

Questo continuo rinnovamento di facciata riflette l’ossessione per la moda e le tendenze, elementi chiave della cultura nazionale. Come intuì magistralmente Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si simula il cambiamento affinché tutto resti invariato.

Ciò che davvero manca agli italiani è la capacità di intraprendere riforme strutturali. E questo non è un problema solo italiano: oggi il neocapitalismo globale ostacola le vere riforme, promuovendo invece un culto del nuovo fine a sé stesso, privo di sostanza.

Invece di migliorare uno Stato imperfetto, ma capace di creare un incredibile sviluppo economico e, più importante, un notevole progresso sociale e culturale, la mia generazione e quelle successive hanno preferito demolirne le basi, sedotte dalle sirene del liberismo.

In pochi decenni, movimenti diversi – dai sessantottini ai radicali, dai sostenitori di Berlusconi ai liberali del Partito Democratico – hanno contribuito all’abbandono di ideali e istituzioni fondanti: il comunismo, il cattolicesimo, la lira, le grandi e piccole imprese nazionali. Persino la scuola ha subito un colpo, a partire dall’eliminazione del latino e delle materie umanistiche, così come la ricerca scientifica.

I nostri centri storici sono stati svenduti a investitori esteri o trasformati in Airbnb, mentre il galateo è stato dichiarato politicamente scorretto, in quanto percepito come un retaggio patriarcale. Perfino la nostra lingua, cuore dell’unità nazionale, è stata sacrificata all’anglicizzazione, con l’introduzione continua di termini stranieri.

Oggi viviamo un momento particolarmente delicato. Sui giornali e nei social network non mancano attacchi allo Stato e all’identità italiana, accompagnati dall’esaltazione di un presunto progresso globale che dipingerebbe il resto del mondo come infinitamente migliore rispetto a noi.

Questo clima è il segnale evidente che gli speculatori internazionali sono impazienti di concludere la loro opera: indebolire definitivamente l’economia italiana e annientare la nostra indipendenza culturale. Il loro obiettivo è dirottare le risorse acquisite verso nuovi mercati da sfruttare in Medio Oriente, Asia e Africa. La strategia è chiara e mirata.

Un precedente lo abbiamo già vissuto con l’ingresso nell’euro. Ricordo bene l’euforia di molti italiani, convinti che avrebbero raggiunto lo stesso benessere dei tedeschi senza fare sacrifici, senza adottare il loro rigore, che richiederebbe secoli per essere assimilato.

Si pensava che un governo e una banca centrale nordici avrebbero portato competenza e integrità, senza chiedere nulla in cambio. Riusciranno nuovamente a farci cadere in questa illusione?

Gli italiani rischiano ancora una volta di essere i primi a richiedere o accettare la privatizzazione (leggi: svendita a speculatori esteri) di ciò che rimane del sistema pubblico, in nome di una crociata contro la burocrazia e i fannulloni.

Potrebbero rinunciare a politica e partiti nazionali, sedotti dal mito della democrazia diretta o mediatica, modello importato dagli Stati Uniti e dominato dai miliardari. E potrebbero cancellare le loro tradizioni per timore di essere etichettati come nostalgici o arretrati.

In realtà, ci sarebbero molte riforme da attuare, ma queste richiedono sacrifici, impegno, organizzazione, lucidità e solidarietà. Richiedono un forte senso di appartenenza e i risultati si vedranno solo tra molti anni. L’alternativa è gettare tutto al vento, sperando che i nuovi padroni abbiano a cuore i nostri interessi più dei loro

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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