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Prosegue la cessione di aziende strategiche, centrali per la sicurezza e l’autonomia nazionale, ai fondi finanziari statunitensi da parte del governo Meloni, in continuità con la posizione del precedente governo Draghi: dopo la vendita al fondo statunitense KKR della rete primaria e secondaria delle telecomunicazioni di TIM – azienda coperta da Golden Power a partecipazione statale – è ora il turno di ENI, il colosso energetico fondato da Enrico Mattei e controllato per il 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, attraverso Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP SpA). Come si legge nel comunicato ufficiale dell’azienda, infatti, il 24 ottobre “Eni e KKR hanno firmato il contratto per l’ingresso di KKR nel 25% del capitale sociale di Enilive”. L’operazione varrà quasi tre miliardi di euro da corrispondere in due fasi: la prima prevede la sottoscrizione di un aumento di capitale in Enilive riservato a KKR pari a 500 milioni di euro; la seconda, invece, “l’acquisto di azioni Enilive da Eni a fronte del pagamento di 2,438 miliardi di euro”. Enilive, fondata e controllata dalla multinazionale energetica italiana, si occupa principalmente di sviluppare e fornire servizi e prodotti progressivamente decarbonizzati per realizzare la transizione energetica.
Il Cane a sei zampe ha giustificato la scelta di fare entrare il fondo americano nel capitale sociale di ENI, spiegando che rappresenta un vantaggio per lo sviluppo del modello satellitare di Enilive e che, dal punto di vista finanziario, “ottimizza la struttura del capitale di Eni, riducendone la posizione finanziaria netta e mantenendo in capo a Eni il consolidamento e il controllo di Enilive”. L’amministratore delegato (ad) del gruppo, Claudio Descalzi, ha posto l’accento sulla svolta “green”, dichiarando in una nota che “Questo accordo rappresenta un nuovo e importante passo avanti nella nostra strategia di business legata alla transizione energetica. Enilive, insieme a Plenitude, è fondamentale per il nostro impegno nel fornire soluzioni energetiche decarbonizzate e ridurre progressivamente le emissioni generate dall’uso finale dei nostri prodotti: entrambe le Società hanno incontrato un grande interesse da parte di partner internazionali di primo piano e conseguito valutazioni di mercato importanti”. Ciò che, invece, non viene considerato è la cessione di una parte significativa della società a un fondo straniero, una tendenza che caratterizza sempre di più negli ultimi tempi non solo il Cane a sei zampe, ma l’intera “strategia” di gestione degli asset pubblici da parte dei governi italiani e, attualmente, del governo Meloni.
L’ingresso di fondi e cordate straniere in aziende chiave per la sicurezza nazionale rischia di comportare la perdita della residuale sovranità di Roma sulle sue politiche energetiche e infrastrutturali, permettendo ai fondi americani di incidere sulle decisioni delle compagnie italiane e di avere accesso a dati sensibili. Inoltre, porta avanti quel progetto di privatizzazione degli asset pubblici, pilastro della dottrina neoliberista, volto a ridurre l’influenza dello Stato nell’economia a favore dei grandi investitori finanziari. KKR e BlackRock – il più grande e potente fondo d’investimenti al mondo – rappresentano l’emblema della proiezione della finanza americana nei gangli economici e infrastrutturali del Belpaese. Lo scorso luglio, infatti, la stessa KKR ha acquisito la rete infrastrutturale di Tim, coperta dal Golden Power, lo strumento normativo che conferisce ai governi la facoltà di porre condizioni o veti in caso di tentativo d’acquisto di una compagnia strategica italiana da parte di una società straniera. L’esecutivo di Roma ha autorizzato la vendita al fondo statunitense, ritenendola idonea a proteggere l’interesse nazionale, nonostante tra i suoi partner e a capo del gruppo di analisi di scenario ci sia David Petraeus, generale dell’esercito americano e capo della CIA (Central Intelligence Agency) nell’amministrazione Obama.
Inoltre, lo scorso fine settembre, la premier Giorgia Meloni ha incontrato Larry Fink (ad di Blackrock) per discutere della possibile cessione di alcune aziende a partecipazione statale che il governo vorrebbe privatizzare. Da notare che la Roccia Nera – che nel 2024 ha registrato un patrimonio di 11.500 miliardi (oltre quattro volte il PIL italiano) – si è già da tempo insediata in molte realtà imprenditoriali e bancarie della Penisola. Secondo un articolo di Limes, infatti, nel 2011 deteneva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e delle Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (società che controlla Autostrade per l’Italia) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, di Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. È poi diventata primo azionista di Unicredit con il 5,24%.
Non sfugge, del resto, la complicità dell’attuale governo nel favorire tale penetrazione nei settori vitali del Belpaese: sarà forse anche per questo che Giorgia Meloni è stata insignita il mese scorso con il Global Citizen Awards, il riconoscimento del grande think tank statunitense Atlantic Council, il cui scopo è promuovere la guida americana nel mondo. Anche l’ad di ENI era stato insignito nel 2022 del Distinguished Business Leadership Award dalla medesima organizzazione, per il suo ruolo di leader nel settore energetico globale. Non stupisce, dunque, che sia il governo che i vertici di ENI favoriscano i fondi a stelle e strisce anche nella strategia energetica nazionale. Un approccio molto lontano da quello del fondatore di ENI, il quale aveva sfidato le grandi compagnie petrolifere americane per garantire la sovranità energetica italiana.
[di Giorgia Audiello]