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Un rapporto denuncia le condizioni cui sono sottoposti lavoratori migranti nelle sedi in franchising di Carrefour in Arabia Saudita
Andrea Di Turi
I would fear going to work, avevo paura di andare al lavoro. Si intitola così un rapporto realizzato dall’organizzazione non governativa Amnesty International che punta il dito contro le condizioni di lavoro delle persone migranti nelle sedi in franchising in Arabia Saudita del colosso francese della grande distribuzione Carrefour.
Le accuse dettagliate nel rapporto, poco meno di una sessantina di pagine disponibili in arabo oltre che in inglese e francese, sono di vario genere. Ad accomunarle è il fatto che sono di notevole gravità e si possono in generale riassumere parlando di sfruttamento del lavoro, come recita appunto il sottotitolo del documento. Ma si avanza anche l’ipotesi che alcune pratiche potrebbero addirittura ricadere nell’ambito del lavoro forzato.
Le agenzie di reclutamento avrebbero ingannato i lavoratori
Secondo il rapporto, i lavoratori sarebbero stati prima di tutto ingannati dalle agenzie di reclutamento alle quali si erano rivolti nei rispettivi Paesi di origine per ottenere – ma si può tranquillamente dire comprare – il lavoro. Tra l’altro indebitandosi per pagare loro commissioni che, in media, superano i mille dollari. Una pratica vietata in Arabia Saudita. E contraria anche alle politiche di Majid Al Futtaim, holding con sede a Dubai che gestisce il franchising di Carrefour nel Paese.
L’inganno ha riguardato natura e benefici del lavoro. Ma anche il fatto che il datore di lavoro non era un’azienda internazionale, come probabilmente i lavoratori erano stati indotti a credere, bensì un’azienda di fornitura di manodopera saudita. Data la cattiva fama di cui queste ultime godono, molti lavoratori, scoprendolo solo dopo aver pagato le commissioni e non riuscendo quindi a recuperare il denaro sborsato, hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Piegandosi a condizioni che non avrebbero mai accettato se fossero stati informati correttamente in anticipo.
Lavoratori costretti a lavorare 16 ore al giorno
Poi c’è l’aspetto dell’iper-sfruttamento. I testimoni raccontano di aver dovuto camminare regolarmente per oltre 20 chilometri al giorno. Di essere arrivati a lavorare fino a 16 ore al giorno e a 60 ore la settimana, specie nei periodi più intensi (ad esempio durante il Ramadan). È capitato anche che i responsabili delle strutture dove si prestava il lavoro negassero i giorni di riposo settimanali, in violazione delle leggi saudite. Anche nel trattamento dei lavoratori non si andava molto per il sottile. Per non parlare delle condizioni degli alloggi messi a disposizione dalle aziende di fornitura di manodopera: c’è chi li ha paragonati a «una stalla».
Ma l’aspetto che pesava forse più di tutti, almeno stando alle testimonianze raccolte, è quello relativo alla paga. Contrariamente ancora una volte alle leggi, oltre che alle politiche aziendali, molti hanno denunciato che gli straordinari non venivano pagati il giusto. Col risultato che le ore conteggiate in meno a fine mese si traducevano a fine anno in buste paga molto più leggere del dovuto. Anche di centinaia di dollari. Il tutto in un contesto di paura e intimidazioni in cui le lamentele erano ignorate o, peggio, esponevano chi le sporgeva al rischio di ritorsioni. Fino alla minaccia di non essere pagati o di essere licenziati.
Le accuse di lavoro forzato ai franchising di Carrefour in Arabia Saudita
Poiché lavoro involontario e minaccia di sanzione sono due elementi chiave che rivelano che si è in presenza di lavoro forzato, è anche di questo che il rapporto di Amnesty accusa Carrefour. Mettendo in discussione l’adeguatezza e l’efficacia delle sue politiche di due diligence. Come ha dichiarato Marta Schaaf, a capo del programma Climate, Economic and Social Justice e Corporate Accountability di Amnesty, in base agli standard internazionali sui diritti umani Carrefour ha la responsabilità di garantire che non si verifichino abusi in tutte le sue attività. Compresi i suoi franchising.
A porre rimedio gli abusi, o quanto meno a garantire un risarcimento ai lavoratori, è chiamata comunque anche Majid Al Futtaim. La quale, tra l’altro, si fregia della Esg Label delle Camere di Commercio di Dubai per le sue pratiche Esg (sociali, ambientali e di governance). Mentre Carrefour è fresco partner delle Olimpiadi di Parigi 2024
La risposta di Carrefour e Majid Al Futtaim al rapporto di Amnesty
Carrefour e Majid Al Futtaim hanno risposto dichiarando di aver intrapreso diverse misure, fra cui indagini interne, audit indipendenti, revisione di policy. Carrefour, in particolare, ribadisce che il tema del rispetto dei diritti umani è una questione di grande importanza per il gruppo e al contempo una grande sfida. L’insegna francese cita dettagliatamente una serie di policy, codici, procedure e report con cui presidia e rendiconta la sua attività in materia di tutela e promozione dei diritti umani. Nonché standard e principi (fra cui il Global Compact dell’Onu) e convenzioni internazionali (come quelle principali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) a cui ispira la sua condotta. Ricordando anche che richiede ai suoi partner in franchising la mappatura dei rischi riguardo a diritti umani, salute e sicurezza e la definizione di un piano di mitigazione di tali rischi.
Ma evidentemente negli ingranaggi di tutto questo armamentario sostenibile, che almeno formalmente appare apprezzabile, qualcosa si è inceppato. O, comunque, non ha funzionato come avrebbe dovuto. Con l’aggravante che gli abusi sul lavoro in Arabia Saudita, lavoro forzato compreso, non sono una novità – specie per i lavoratori migranti – e sono ben documentati in termini di gravità e frequenza. Quando si lavora in Paesi “a rischio” come questo, insomma, in un’ottica di prevenzione e di responsabilità sociale, esercitare un surplus di attenzione pare quanto meno opportuno se non doveroso. Amnesty ha infatti dichiarato che resta l’interrogativo su come mai Carrefour e Majid Al Futtaim non avessero identificato o affrontato prima questi abusi.
Nel mirino anche del movimento BDS
La denuncia di Amnesty arriva in un momento in cui Carrefour è anche nel mirino del movimento BDS, che promuove iniziative di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per fare pressione su Israele affinché ponga fine all’occupazione dei territori palestinesi e all’apartheid nei confronti dei cittadini arabo-palestinesi. Il movimento, infatti, accusa l’azienda francese di essere «complice del genocidio e dell’apartheid» attraverso le sue attività