La percezione della criticità della situazione mondiale è il minimo comune denominatore più diffuso, ripetuto, condiviso dai media mainstream. E da mesi ormai quanto succede/succederà con le elezioni USA domina le cronache, approfittando anche del livello deprimente delle politiche italiane ed europee. Le componenti di questa criticità sono tante, ma è facile constatare che il Medio Oriente (definizione perfettamente confondente per abbracciare realtà tanto diverse e contraddittorie) è al centro delle tante e differenti ‘diagnosi’ che hanno in comune aggettivi che rimandano a ‘complessità’ senza soluzioni visibili: salvo quella di proclamare l’impraticabilità di diplomazie che prendano anche solo come ipotesi la follia di considerare la guerra come via obbligata, e la sua sospensione una possibilità da considerare solo quando i ‘nemici’ sono sconfitti. La ‘complessità’ è presa come una giustificazione per mettere tutto ciò che succede in una delle ‘liste di attesa, fatali’ di cui tutti parlano come di un oggetto misterioso, ma di cui parlare senza trasparenza di dati. Le vittime sono infatti ben definite, e dichiarate inevitabili, perché sono espressione di disuguaglianze strutturali: coincidono – lo si verifica facilmente, e tutte le agenzie che vogliono lo sanno – con chi, di fronte ai tagli storici dei bilanci sanitari e alle attuali false proiezioni generali del bilancio, non può pagare.
Quanto segue prende spunto da un evento certo non banale come le elezioni americane, per quello che rappresentano nell’immaginario dello scenario internazionale in relazione a un aspetto che è centrale nella complessità globale. Nulla di nuovo: un pro-memoria, che ha come punto di partenza, infinitamente più evidente e tragico della complessità, la combinazione di due ‘evidenze’.
Da una parte lo scenario politico e giuridico del vero snodo del Medio Oriente: lo Stato di Israele, in nome di un ‘diritto di difesa’ universalmente riconosciuto almeno come ‘sproporzionato’ – e di fatto ormai acquisito come reale, progressivo, crescente, intollerabile (gli aggettivi usati anche dalle Nazioni Unite, e divenuti inevitabili anche per giornalisti non embedded) genocidio del popolo Palestinese – ha dichiarato sostanzialmente inesistente qualsiasi forma o espressione del diritto internazionale, e non mette limiti di tempo e di confini alla sua politica. Dall’altra parte la ‘cronaca’ (ormai puramente descrittiva: al di là dei numeri delle vittime, delle gradazioni di orrore, dell’essere spettatori di tutto ciò che non era neppure pensabile: sempre per essere eco di quanto è ‘evidenza’ quotidiana) del costo in-umano per il popolo Palestinese. Non si riesce più, perché in fondo non ha senso, a fare le somme, più o meno ben stratificate per bambini, donne…
La ‘complessità’ è banalmente semplice e perfettamente nota: lo Stato di Israele avrebbe cessato, o cesserebbe, oggi la sua azione (al di là delle rituali missioni di Blinken, che è un noto e convinto sionista) se la sua politica non fosse sostenuta dal ruolo nel Consiglio di Sicurezza, dalle armi, dai finanziamenti diretti degli Stati Uniti. Che sono chiaramente i protagonisti anche del silenzio sostanziale degli Stati Europei. Le elezioni americane non cambieranno nulla, per tutto quanto si può vedere. Anzi, la Palestina ha dovuto scomparire ed essere sostanzialmente proibita nelle campagne elettorali. L’alleanza indissolubile tra la democrazia USA – sempre meno credibile, ma che si continua formalmente a guardare come riferimento imprescindibile per un Occidente che ha abdicato alla sua autonomia culturale –, e una democrazia che ha perso da tempo qualsiasi tratto che ne giustifichi il ruolo di modello democratico per tutto il Medio Oriente, è in questo senso la dimostrazione più lampante del perché il diritto internazionale non è più credibile. Ed è destinato in questo senso a un presente-futuro non solo di impotenza, ma di profonda confusione di termini. Da parte di tutti.
Con la loro gestione, con pari responsabilità (e pari impunità), gli USA e Israele sono la dimostrazione quotidiana che chiamare ciò che succede in Palestina con il suo nome (ripetendo un esercizio già fatto in tanti paesi dello stesso Medio Oriente, dall’Iraq all’Afghanistan) è proibito, e che la accountability, la responsabilità è un puro gioco di parole, che è permesso-incoraggiato per tutti. Lo ‘spettacolo’ dei Brics (nella sua strutturale ambiguità considerati i modelli di non-democrazia presenti, ma con l’indicazione precisa che il 45% della popolazione mondiale ha una sua possibile autonomia di parola, e di iniziativa economica) ce lo ricorda, mentre gli USA approvano-appoggiano, chiamandola legittima difesa, la progressione di Israele verso la guerra anche con l’Iran (che non la distrae dal bombardare palestinesi, libanesi….).
Un pro-memoria non ha pretese di novità. Prova a dare nomi più precisi ad alcuni dei responsabili e protagonisti convinti di una complessità che è reale, ma che si vuol rendere permanente e sempre più irrisolvibile dando alle armi, anche nelle economie, un ruolo sempre più centrale. Distribuire qualifiche di nemici e terroristi è un vecchio gioco, obbligato nelle diverse forme di regimi non democratici, per mescolare le carte, e giustificare i termini e le pratiche più fuorvianti: come, per quanto qui ci riguarda, la programmata ‘complessità’ verbale e politica nel confondere un’opposizione allo Stato e a questo governo di Israele con atteggiamenti e comportamenti antisemiti: non sarà mai ripetuto abbastanza – e lo hanno molto autorevolmente ricordato libri importanti anche in Italia – che la storia e l’identità del popolo ebraico non coincidono con uno Stato come Israele.
‘Sicurezza’, da/contro qualcuno che si sceglie per escluderlo/negarlo, è la parola chiave per giustificare una gestione della complessità: non nel confronto delle diversità in vista di un progetto in cui le soluzioni sono un prodotto di democrazia, ma attraverso l’esclusione istituzionale di chi viene dichiarato diverso. Diventa in questo senso (a livello di paesi ed internazionalmente) sinonimo e giustificazione di tutte le guerre, e proibizione, a priori, di una pace che ha bisogno di disincanto per essere trasparente