Oltre Trump e Harris, gli USA in balia di una borghesia fanatica che si crede investita di una missione universale, che invoca la protezione di Dio come un’esclusiva, nel nome di un popolo ipostatizzato organicamente come ‘eletto’ malgrado le innumerevoli fratture che lo attraversano e la guerra civile incorporata come regolatore sistemico.
Trump e Harris nella terra bruciata
Non sono un esperto del ‘nuovo mondo’, ma a parte qualche lettura per almeno dieci anni ho battuto gli States con ripetuti viaggi: non per lavoro o studio e neppure come semplice turista. Piuttosto come osservatore/esploratore. Ricavandone diverse immagini, ma una su tutte dominante: il contrasto abissale tra le core area degli stati costieri e l’America centrale e/o periferica: arcipelago di rovine a perdita d’occhio immerse nella grandiosità del paesaggio. Mondi socialmente e antropologicamente irriducibili.
Il comandante in capo
Fa impressione la full immersion di Kamala Harris nel ruolo di ‘comandante in capo’. Persino spietata nel rivendicare il monopolio globale della potenza militare nella sua insuperabile capacità ‘letale’. Tono che più bellicoso e intimidente non si potrebbe. Vero e proprio ‘terrorismo democratico imperiale‘, con la superpotenza militare-tecnologica come argomento di persuasione.
Del resto sono stati gli americani Yankees a inventare e praticare all’insegna del più smaccato utilitarismo, già nell’800, la guerra di sterminio etnica (genocida) e la vessazione delle popolazioni civili con la ‘terra bruciata’ del generale Scherman, Quando in Europa, in identico periodo, la guerra (certo la guerra interstatale, non quella sociale) inclinava semmai a forme convenzionali con minimo impatto sulle popolazioni civili.
Se si vuole evitare che la marea informe dei ‘barbari’ avanzi fagocitando il mondo civile è necessario anticiparli con dosi preventive e massive di legittima letalità. E’ un modello al quale Israele si è applicata con metodica determinazione.
Il paradosso di Kamala
Il linguaggio puro del suprematismo culturale ‘nordico-occidentale’, per estremo paradosso, sulla bocca di una figura che oltre a essere donna riassume in sè, ma solo biologicamente, i cromosomi negletti dell’oriente e del meridione, in quanto asiatica e afro-caraibica.
E in effetti il neo-suprematismo occidentale marca una differenza radicale rispetto all’imperialismo ottocentesco praticato dalle nazioni-impero europee. È un occidente in salsa melting-pot, una forma di endo-cosmopolitismo multirazziale, nel quale i gruppi e le minoranze etniche restano segregate in invalicabili barriere ma in una cornice civile che esclude, almeno nel centro dell’impero, ogni forma biologica di suprematismo e dove è il mercato, nel suo astratto egualitarismo, a decidere chi prevale.
Sulla tomba dei Black Panther
Sembra un secolo da che l’America vide il sorgere e il sanguinoso tramonto di leader di colore carismatici e rivoluzionari come Malcom X, Bobby Seale ed Angela Davis, col loro tentativo di innervare una lotta di classe anti-coloniale nel centro dell’impero.
Gente che veniva dal proprio gruppo e ne interpretava la rabbia. Finiti nel dimenticatoio come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Come i pugni neri alzati in Messico da John Carlos e Tommie Smith, oggi sostituiti, alle olimpiadi, da atleti sfavillanti, donne, uomini e gay, che celebrano i loro trionfi fasciandosi nella bandiera a stelle e strisce.
Come se Black Lives Matter fosse il ricordo sbiadito di un altro secolo. Obama salì al potere mettendosi alla prova come leader sfidante, almeno recuperando la memoria dei movimenti antagonisti nella narrazione democratica dell’emancipazione, prima di adeguarsi alla gestione del sistema.
Dopo la sua elezione la condizione sociale dei neri non cambiò più di tanto. Cionondimeno quel giovane nero infine vincente li rese orgogliosi, tanta era la novità. Kamala Harris invece è semplicemente un membro integrato e affidabile dell’establishment, cooptato alla presidenza senza il passaggio delle primarie e brevi manu, anche per rappresentare le ‘minoranze’ nella costituente elettorale democratica.
Senza il sostegno delle quali il blocco di potere democratico non ha alcuna speranza di prevalere. E come spesso accade coi nuovi conversos, ovvero gli ultimi cooptati dei gruppi negletti, l’ideologia del gruppo storicamente dominante viene abbracciata con toni estremi ed enfatici. Integralistici, più che integrazionistici. Più realisti del Re.
Fanatici
Una borghesia fanatica che si crede investita di una missione universale, che invoca la protezione di Dio come un’esclusiva, nel nome di un popolo ipostatizzato organicamente come ‘eletto’ malgrado le innumerevoli fratture che lo attraversano e la guerra civile incorporata come regolatore sistemico.
Dove passare dalle armi della critica alla critica con le armi è un attimo. Anche considerato che ogni individuo/gruppo si sente ispirato da un Dio a sua misura, in un mix religioso di fanatismo ed anarchia new age che non ha paragone in nessun paese occidentale.
Chiodo scaccia chiodo.
Fargo e Morgan, cioè la finanza unita alle ferrovie, ebbero facile gioco nello sgominare i cow-boy e la romantica cavalleria contadina che aveva sterminato le tribù nomadi dei nativi delle pianure.
Nazionalismo bianco
Il nazionalismo white di Trump, che si alimenta di isolazionismo e modi da saloon, agli antipodi di quella cultura elegiaca e cavalleresca della ‘causa persa’ che restò come un residuo nei vecchi stati confederati sconfitti, rimane comunque. per quanto degenerata e incattivita, una figurazione del romanticismo reazionario che anima i gruppi decaduti da una posizione dominante.
Trump ha riattivato le fratture sociali e razziali andando a ritroso: dagli anni ’60 alla guerra civile. L’America interna, quell’America omogenea e comunitaria quanto povera e scalcinata che Vance celebra nella sua Elegia, divenuta col tempo, almeno a partire da mezzo secolo ad oggi, la costituente repubblicana prendendo il posto delle classi agiate del nord, sta a quella costiera e cosmopolita esattamente come i contadini confederati del sud guidati dagli Junker terrieri stavano agli yankee del nord.
È la sindrome dell’invasione e della sostituzione. Quando giravo per gli States mi dilettavo a consultare le statistiche demografiche di ogni località che toccavo. In molti casi le mutazioni intervenute dopo i ’90 nelle zone miste (ad esempio mex-tex) erano impressionanti, con il gruppo bianco sbalzato in breve volgere di tempo dalla maggioranza assoluta a una infima minoranza.
Eguali e contrari
Perchè neri, ispanici, asiatici, ebrei, arabi, caucasici, nativi, ma anche donne, gay e altri transgender votano democratico ? Essi non hanno nulla in comune l’uno con l’altro, essendo che ognuno vive in modo totalmente segregato tenendosi sulla diffidenza se non sull’astio dichiarato. Genti che fanno massa di voto senza alcun elemento solidaristico di comunanza e reciprocità, usi e costumi condivisi, ideologie. Senza empatia.
Tra il nero che vive negli slum o nelle campagne dell’Alabama, il bianco povero baraccato nei mobil-home, il gay benestante che popola le località residenziali più amene, come il nativo nelle riserve, la borghesia dei suburbi ben recintati, ci sono abissi che più profondi non si potrebbe. Abissi che restano e che nessun programma politico pensa di rimuovere.
La motivzione nella preferenza per i democratici è uguale e contraria a quella del nazonalismo bianco che si riversa sui repubblicani: il timore d’essere sopraffatti e privati della cittadinanza civile. Chi emigra in America non ha più un retroterra e rompe ogni rapporto col mondo d’origine, desidera sopra ogni cosa di diventare americano, cioè di partecipare della cittadinanza.
Fanno eccezione i latinos e soprattutto i messicani che non solo hanno un retroterra, geografico e linguistico, vicinissimo, ma considerano il sud-ovest degli States come la casa nella quale ritornano dopo che ne erano stati espropriati con la frode e la prepotenza.
Dalla via che l’imperialismo americano si basa sul controllo economico-politico e militare per via marittima, non sull’occupazione del territorio, come fu tipico per la Francia e l’Inghilterra, l’universalismo della cittadinanza si gioca interamente (e solo) entro i confini del centro metropolitano. Per endo-assimilazione.
Votato alla sconfitta
Trump caricò le batterie col risentimento dei bianchi ‘poveri’ e meno istruiti verso Obama, un uomo di sangue misto (quasi una rarità in Usa vigente la più assoluta segregazione nuziale) giovane, bello, atletico, smagato, colto e intelligente. Ma ebbe gioco nel battere la Clinton, non una figura negletta emancipata ma l’esponente di una dinastia bianca e alto-borghese altezzosa e presupponente, lontana dal popolo, che già Obama aveva battuto da sfidante facendo sponda sulla sua antipatia.
Con Biden, alla rivincita, sarebbe andato a nozze, data la sua decrepitezza (infatti, rebus sic stantibus, Trump ha corso il rischio d’essere ammazzato). Ma con Kamala è tutt’ altra musica. Già di suo Trump è dalla parte degli sconfitti. Vecchio, solitario, rancoroso, mentre quella sprizza energia positiva, balla, danza e ride che è un piacere. E comunque Trump non potrebbe mai vincere, in un modo o nell’altro. Troppo alta è la posta per il proseguo dell’era imperiale.
Liberal-socialismo?
La tesi del mio amico Francesco Somaini secondo cui la convergenza di un socialista come Sanders e una radical come Ocasio-Cortez nel mainstream democratico significherebbe l’introduzione di elementi di socialismo nel liberalismo americano (aspetti anche ritrovabili nella politica economico-sociale di Biden), proprio mentre il liberalismo è entrato a piene vele nel socialismo europeo, è intrigante ma bizzarra.
Il quantum di ‘socialismo’ immesso nelle politiche non va oltre una minima redistribuzione di reddito in una politica economica espansiva. Un po’ di keynesismo di ritorno, laddove nel new deal roosveltiano era ben più abbondante. Ma allora il partito democratico, vigente la segregazione dei neri, era soprattutto il partito dei bianchi poveri del sud. Mentre grande interesse era riservato alle politiche anticicliche di Mussolini e di Stalin.
Il New deal, fu in effetti una anticipazione di un approccio rosso-bruno ai temi dell’equilibrio sociale. Almeno sino al momento dell’entrata in guerra contro le potenze dell’asse con il pieno dispiegamento del complesso militare-industriale.
Anarco-fascismo ?
L’eventualità che gli Usa precipitino in un regime fascio-autoritario è abbastanza remota. Non solo per la debolezza del monopolio statale nella circolazione interna delle armi (in fondo lo stesso assalto manu militari a Capitol Hill fu un esempio carnevalizio di libertà americana, quasi equivalente al tentato golpe di Prigozhin in quel della Russia, tra vodka, caviale e musica slava), ma, rilevanza a parte del Congresso, per la struttura federale dello stato.
È del tutto improbabile che gli stati costieri e le core-area della finanza possano adeguarsi a legislazioni restrittive come quelle perorate dagli evangelici nella bible-belt. Anarchia e fascismo anche storicamente si mescolano nello stesso brodo, ma poi non possono stare insieme in un costrutto stabile.
Suprematisti veri o presunti
Una volta assodata la penetrazione del liberal-liberismo nei socialisti del continente, piuttosto che guardare quanto di improbabile socialismo ci sia nei democrat americani, conviene osservare quanto nazi-fascismo ci sia nelle destre stigmatizzate dal mainstream con becero semplificazionismo come ‘populiste’ e ‘sovraniste’. In America e in Europa.
A questo proposito i riferimenti simbolici, per quanto impressionanti, non devono ingannare. Il nazi-fascismo fu una ideologia imperiale e razzista, in quanto postulava la pretesa di un dominio mondiale della razza superiore. Interprete della frustrazione delle nazioni tardive nell’unificazione e del loro revanchismo mirava a spodestare le nazioni-impero democratiche che dettavano legge nella spartizione del mondo acquisendone a sè il suprematismo e portandolo all’ennesima potenza.
Questa volontà di dominio appare assente nelle destre nazionaliste attuali, tanto in America che in Europa. L’elemento prevalente è piuttosto l’arroccamento difensivo, il timore del contagio all’insegna di una comune xenofobia e della perdita identitaria, il localismo e la tradizione minacciata da economicismo e globalismo. Una critica da destra della forma-impero nella sua forma ‘suprema’ tecnologica-globale-finanziaria.
Per molti aspetti il neo-nazionalismo delle destre si alimenta del romanticismo della ‘causa persa’ che Schivelbusch ha analizzato come proprio delle culture dei vinti (La cultura dei vinti, Il Mulino, 2006). Una rielaborazione del lutto che può inclinare al nazionalismo aggressivo per quanto difensivo, ma anche, insieme, alla pacifica convivenza. E’ ciò che ha riguardato anche la Russia dopo il collasso dell’impero sovietico. E non per caso una parte delle destre si trova in qualche sintonia con la mistica della Russia putiniana.
Democrazia a una dimensione
Come ha illustrato Schivelbusch per circa trent’anni la ferita della guerra di secessione rimase sanguinante e Iniziò a suturarsi solo con la guerra ispano-americana del 1898 e, ancor di più, con l’ingresso nella prima guerra mondiale.
È in questi frangenti, che non a caso sono fatti coincidere con l’inizio della scalata imperiale americana, che si forma una nuova coesione nazionale basta sul contrasto civiltà/barbarie, democrazia/autocrazia, occidente/oriente. In uno scritto che vale come manifesto dell’epoca (il 1917) si disse che la “Germania deve essere messa in ginocchio, deve essere schiacciata se si vuole salvare la civiltà”. E ancora: “Questa non è una guerra di conquista o ritorsione. E’ un conflitto fra libertà e autocrazia, fra democrazia e monarchia, una protesta contro lo spirito del dispotismo…“.
Lo ‘spirito di crociata’ e l’istanza demonologica di nemici di volta in volta assoluti come collanti di una nazione altrimenti percorsa da ogni genere di fratture. ‘Libertà versus autocrazia’. Sembrano discorsi scritti per l’oggi, allorchè i Democratici, da sempre propensi a una politica interventista, tanto più da Kennedy in poi, hanno fatto propri i temi suprematisti della guerra di civiltà che i neo-con hanno elaborato dopo il collasso dell’Urss per legittimare le guerre bushiste di ritorsione e predazione.
Democratici e vecchi neo-con repubblicani uniti nella lotta: contro il nemico interno, nelle sembianze autoritarie di Trump, l’anomalo, e contro i tre quarti dell’umanità aggiogati alle ‘autocrazie’, Il suprematismo imperiale ha dismesso il ciarpame della razza per usare come una spada il linguaggio di una autodefinentesi ‘democrazia’, solo certificata da certe modalità formali dello Stato di diritto. Un nuovo spartito, ma la sete di dominio è sempre la stessa.
Una terza via
Con queste trasmutazioni in corso è fuori tempo ragionare con categorie novecentesche. Onde la sinistra popolare (sedicente tale) non avrebbe altra via che allearsi alle borghesie illuminate dalla democrazia per isolare e battere in un unico fronte le destre populiste/sovraniste, cioè il fascismo aggiornato.
Con un accordo più che implicito per il quale il ‘centro democratico’ ha l’esclusiva della politica sovrana, cioè estera, e la ‘sinistra democratica’ si accoda zelante a spigolare quel poco di sociale che nell’orticello di casa è concesso.
Nè con Donald, nè con Kamala, ma una critica di entrambi e del monopolio imperiale. Una terza via, piuttosto, che può essere socialista, democratica, europea, multipolare e internazionalista, nonchè nazionalmente responsabile.
Se il neutralismo che viene imputato a Conte, con sommo scandalo, interpreta questa esigenza, allora sarei per seguirlo sulla retta via.
* Grazie a Fausto Anderlini