Nel nord di Gaza siamo arrivati al trentunesimo giorno di blocco completo delle consegne di cibo e acqua. L’assedio militare continua invece da ormai 27 giorni, senza diminuire di intensità.
Gaza Nord, 31 giorni senza acqua e cibo
Mentre a Jabalia proseguono i bombardamenti accoppiati a incursioni via terra per portare avanti la pulizia etnica del campo profughi, Israele ha ormai da qualche giorno esteso la sua campagna di sterminio su Beit Lahiya, dove molti sfollati da Jabalia hanno cercato rifugio.
Dopo aver suscitato orrore nel mondo intero ammazzando, l’altro ieri, oltre 110 persone (tra cui decine di donne e bambini) con un singolo “bombardamento mirato” nel cuore della notte su un palazzo di cinque piani zeppo di sfollati, Israele ha subito ripreso ad uccidere indiscriminatamente con incessanti colpi di artiglieria, sparando sostanzialmente nel mucchio delle case.
Secondo fonti mediche, nella sola mattinata di oggi l’esercito occupante ha già ucciso almeno 45 persone nel solo nord della Striscia.
A fianco di questa guerra contro i civili, Israele continua la sua criminale e ossessiva guerra parallela contro le strutture sanitarie e la protezione civile. Da ormai nove giorni tutte le ambulanze e i mezzi di soccorso nel nord della Striscia sono fuori servizio, sequestrati da Israele durante l’attacco agli ospedali e portati vicino al cimitero di Beit Lahiya, sorvegliati da quadricotteri che sparano su chiunque provi ad avvicinarsi.
I morti e i feriti vengono raccolti dai civili sopravvissuti, che scavano con le mani tra le macerie e volontariamente rischiano la pelle pur di aiutare i loro vicini di massacro. Morti e feriti vengono quindi caricati su carretti tirati a mano che si dirigono verso l’ospedale Kamal Adwan, nonostante nei giorni scorsi sia stato assediato e bersagliato ripetutamente.
Purtroppo però nell’ospedale ad attenderli ci sono in tutto due soli medici: uno è un pediatra e l’altro è il direttore dell’ospedale, Hussam Abu Safia, cui l’altro giorno Israele ha ammazzato il figlio.
Tutti gli altri medici (circa 50 persone) sono stati rapiti da Israele il 26 ottobre, incluso un dottore di Medici Senza Frontiere, Mohammed Obeid: MSF da cinque giorni cerca in ogni modo di ottenere notizie sue e dei suoi colleghi, ma Israele non si degna neppure di rispondere; ed è così che due soli dottori si ritrovano a dover assistere circa 150 pazienti, molti bisognosi di operazioni chirurgiche che nessuno dei due medici è in grado di effettuare. Molti di questi feriti muoiono ogni giorno per mancanza di cure.
I ripetuti appelli del direttore dell’ospedale affinchè si consenta l’arrivo di personale medico non solo cadono nel vuoto più totale, ma hanno sortito l’effetto opposto. Cinque giorni fa Israele aveva acconsentito, durante il rapimento dei medici e l’evacuazione forzata dei pazienti, a lasciare che ONU e OMS consegnassero all’ospedale un modesto carico di medicinali ed equipaggiamento medico: beni di prima necessità come antisettici, bende, sterilizzatori e guanti.
Ieri mattina però, forse preoccupato di essere stato eccessivamente umano, l’esercito ha pensato bene di bombardare (senza alcun tipo di preavviso) il terzo piano dell’ospedale, dove tali provviste erano conservate, incendiandolo e incenerendo tutto quanto oltre a ferire quattro pazienti.
Non solo: per buona misura, ha anche nuovamente messo fuori servizio l’impianto dell’ossigeno e distrutto l’impianto di desalinizzazione dell’acqua che veniva usato per le dialisi, condannando così a morte i pazienti con insufficienza renale, senza parlare del fatto che Israele bombarda regolarmente le strade e gli edifici limitrofi all’ospedale, in modo da impedire l’accesso se non a rischio della vita.
Nonostante tutto ciò, il direttore Hossam Abu Safia è stato estremamente chiaro: ad andare via dall’ospedale non ci pensa proprio, resterà lì a fare tutto ciò che può umanamente fare, fino alle estreme conseguenze. Simile incredibile capacità di resistenza stanno dimostrando i circa 100.000 palestinesi ancora presenti nel nord della Striscia.
Nonostante abbiano ormai capito perfettamente che Israele è intenzionato a massacrarli tutti e che i governi del mondo sedicente “civilizzato” non muoveranno una foglia per impedirglielo, moltissimi preferiscono morire insieme sul posto piuttosto che abbandonare per sempre la loro terra.
Quando pensiamo che ciò che facciamo qui nel “civilissimo” Occidente per opporci al genocidio sia vano, pensiamo ad Abu Safia e pensiamo ai 100.000 esseri umani che si aggrappano alla loro terra a costo della vita: capiremo così che continuare a parlare della Palestina è semplicemente un dovere morale, il prezzo da pagare per rimanere vivi in un momento storico in cui si giocano le sorti dell’intera umanità.
Il martirio dei palestinesi lo ha chiarito: da una parte ci sono le persone dotate di umanità, che non vogliono perderla. Dall’altra, c’è la gente che continua a fingere che nulla stia succedendo, per non rovinarsi la carriera o anche solo per non guastarsi la partita a padel. Gente che non ha alcuna umanità da perdere: la morte altrui non li tocca solo perchè sono morti pure loro.
* Articolo originale con link e fonti è su Alessandro Ferretti Blog