Negli Stati Uniti anche le politiche di diversità, equità e inclusione diventano divisive. E le aziende le ridimensionano

Valentina Neri

La catena di negozi di articoli per la casa Lowe, il colosso dei macchinari agricoli John Deere, la casa automobilistica Ford, l’università del Kentucky, l’iconica casa motociclistica Harley Davidson. Sono realtà molto diverse tra loro ma, negli ultimi messi, hanno fatto tutte la stessa cosa: accantonare, o ridimensionare notevolmente, le proprie politiche di diversità e inclusione (diversity, equity&inclusion). Un indirizzo comune che, evidentemente, non è figlio del caso.

Cosa si intende per diversità, equità e inclusione

Quello di diversità, equità e inclusione (DE&I) è un concetto che negli ultimi anni si è conquistato una notevole popolarità. Più nello specifico, si parla di diversità quando la forza lavoro è eterogenea in termini di genere, età, etnia, orientamento sessuale, religione, presenza o meno di disabilità. Il principio dell’equità riconosce che persone diverse possono avere esigenze diverse. All’azienda spetta quindi la responsabilità di abbattere quelle barriere che possono ostacolarne alcune e avvantaggiarne altre. Infine, un ambiente garantisce inclusione quando fa sì che le persone si sentano accolte, valorizzate e libere di esprimersi.

Le aziende, soprattutto le più grandi, negli ultimi anni si sono affannate a costituire team, stilare policy interne (sulle assunzioni e non solo) e organizzare attività di formazione. Spesso e volentieri hanno colto anche l’occasione per mettere in mostra il loro marchio, partecipando a convegni sul tema o associandolo a iniziative dall’enorme risonanza mediatica, a partire dal Pride. Nel 2023, il 52% dei lavoratori interpellati dal Pew Research Center fa sapere di aver partecipato a una riunione o un corso di formazione sull’argomento. E il 56% ritiene giusto che il proprio datore di lavoro se ne interessi.

Perché ora anche il concetto di equità spaventa

Nei mesi che precedono le elezioni di novembre, però, addirittura il concetto di diversità, equità e inclusione – per riprendere un titolo della CNN – «sta dividendo l’America». Le critiche, ancora una volta, arrivano soprattutto dall’ala conservatrice. E assumono toni anche molto accesi.

Per Ryan P. Williams, a capo del think tank Claremont Institute, l’attenzione verso diversità, equità e inclusione altro non è che «un sistema che prevede conteggi razziali e ruoli di “oppressore” e “oppresso” assegnati arbitrariamente. Continuare a mettere in pratica la democrazia in questo modo avrà come risultato solo acrimonia, conflitti, risentimento e il collasso dell’America». Anche Elon Musk non ha perso l’occasione per descrivere tale sistema come «illegale e immorale». Non stupisce dunque che Tesla abbia omesso qualsiasi riferimento a diversità, equità e inclusione nel suo ultimo rapporto annuale 10-K presentato alla Securities and Exchange Commission (SEC). Tra i più accaniti influencer anti-diversità e inclusione c’è Robby Starbuck, bizzarro ex-regista di video musicali. Repubblicano, ma con una carriera politica mai decollata, fomenta quotidianamente i suoi oltre 600mila follower su X contro qualsiasi azienda osi esporsi in difesa delle minoranze.

Insomma, pare proprio che anche le politiche DE&I siano finite nel mirino della crociata contro la fantomatica ideologia woke. Quella per la quale l’impegno per i diritti civili si sarebbe estremizzato a tal punto da censurare unilateralmente qualsiasi altro punto di vista, finendo per danneggiare la società americana e i suoi valori. Potrebbe esserci anche questo clima ostile dietro alla scelta di decine di aziende di abbassare i riflettori sull’argomento

Si tirano indietro anche aziende tradizionalmente progressiste

Stupisce il fatto che a fare marcia indietro siano aziende come Ford. La stessa che per anni la Human Rights Campaign – storica organizzazione che difende i diritti LGBTQ+ – ha promosso a pieni voti nel suo Corporate Equality Index. A quella rilevazione la casa automobilistica non parteciperà più, ha annunciato il Ceo Jim Farley con una mail indirizzata ai dipendenti. «Siamo consapevoli che i nostri dipendenti e clienti hanno una vasta gamma di convinzioni», ha scritto. «L’ambiente esterno e giuridico relativo alle questioni politiche e sociali continua a evolversi». Un riferimento, neanche troppo velato, alla volontà di evitare malumori di ogni tipo esprimendosi su questioni percepite come divisive.

Proprio la Human Rights Campaign non è rimasta ferma a guardare. Nella home page del suo sito campeggia, a caratteri cubitali, una petizione che nomina una per una le aziende che hanno ridimensionato le proprie politiche per la diversità, l’equità e l’inclusione. «Le persone LGBTQ+ e i nostri sostenitori sono i vostri dipendenti e i vostri clienti. E abbandonarci avrà enormi ripercussioni sul nostro business, sulle vostre responsabilità fiduciarie e sui vostri profitti futuri», si legge. Un’argomentazione che non è solo “politica”. Le grandi società di consulenzaMcKinsey in testa, hanno pubblicato corposi report da cui emerge una tendenza netta: le aziende hanno una maggiore varietà etnica e di genere nel top management hanno anche più probabilità di avere performance finanziarie superiori alle altre

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: