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Il sisma elettorale americano oltrepassa l’Oceano Atlantico e, come era più che prevedibile, si rovescia tsunamicamente su una Europa liberal-liberista frastornata e impreparata persino ad una delle due ipotesi di risoluzione del voto presidenziale a stelle e strisce: la vittoria di The Donald e del suo apparato di potere finanziario che gli fa da sponda e dal quale pretende altrettanto appoggio.
Trema il governo tedesco per questioni interne, fa la voce grossa Macron che prova a suonare il campanello d’allarme. Il resto del Vecchio continente si divide tra indecisioni, chiusure a riccio o genuflessioni al populismo sovranista autocratico ed autoritario, come nel caso plateale dei governi italiano e magiaro. Così si ripropone lo schema di una Unione europea divisa e priva di una politica estera.
Anche nelle semplici relazioni bilaterali, la UE riesce a frazionarsi e ad inciampare su temi che riguardano gli equilibri globali, tra le potenze emergenti, nelle guerre che si combattono ai suoi confini, così come in quelle più lontane ma pur sempre afferenti al bacino del Mediterraneo. Forse, se fosse stata eletta Kamala Harris, tutta questa impreparazione e approssimazione sarebbe stata meno evidente.
Ma comunque, sul medio periodo, avremmo potuto assistere, dopo gli scambi di convenevoli della ritualità istituzionale, ad una nuova fase di completa inerzia europea, di completa condiscendenza nei confronti del segretariato generale della NATO, a favore di una ulteriore implementazione dell’economia di guerra, in (parziale) contraddizione con il dettato trumpiano sulla cessazione dei conflitti in meno di quarantotto ore.
Il disimpegno statunitense nel merito è un punto di principio (ammesso che si possa parlare di “princìpi” quando si cita il triumvirato Trump-Vance-Musk) che dovrà esssere verificato nei primi mesi della nuova presidenza MAGA e che, tuttavia, si connetterebbe molto bene a quell’aura sacrale che trascende un po’ tutto e che, ora dopo ora, prende sempre più vigore intorno al “Project 2025“, manifesto della centralità totalizzante da parte dell’esecutivo.
Si vagheggia, ma nemmeno tanto, una nuova repubblica presidenziale in cui ogni ambito federale finisca per dipendere direttamente dal Presidente e dal suo entourage. Le premesse ci sono tutte: manca soltanto ancora l’ultimo dato certo su una risicata maggioranza alla Camera e poi il pacchetto è completo. La Casa Bianca trumpiana, parte II, può divenire non uno dei poteri dello Stato, ma “il potere” per antonomasia.
Se, da un lato, questo post-democraticismo può rassicurare le frange più estreme della finanziarizzazione e dell’economia liberista, dall’altro spaventa il ceto medio e anche una grande industria che non è direttamente coinvolta negli affari enormi dei colossi della Silicon Valley e che fa delle esportazioni senza dazi il piano privilegiato su cui costruire la propria continuità produttiva con interi continenti: dall’Europa alla Indo-Cina.
Il Progetto 2025, nonostante sia ufficialmente fuori dall’agenda politica del Presidente in pectore, ha tutta la fisiognomica politica dell’antisocialismo, della marcata insensibilità xenofoba ed omofoba, dell’esclusivismo autoctono e della pregiudizialità nei confronti delle minoranze etniche: per primi i migranti che dovrebbero essere deportati tutti oltre i confini della nuova America di un Partito repubblicano ormai privato della sua storica anima conservatrice.
Proprio al conservatorismo classico, ormai almeno da un quindicennio, si è andato sostituendo un culturame di retrività forgiato sulla falsa riga dell’aggiornamento ad una modernità che viene interpretata e lasciata interpretare dalle masse popolari (quelle in cui Trump ha riscosso consensi inaspettati, in particolare tra la “working class” nera ed ispanica, come bene ha sottolineato Bernie Sanders nella sua critica al Partito democratico) come unica prospettiva di recupero dei diritti sociali.
Il piano inclinato dello sviluppo ineguale che ha caratterizzato, liberisticamente, l’Occidente in questi ultimi quarant’anni, dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso all’ingresso nella crisi pandemica e poi in quella ambientale e bellica, è stato ed è tutt’ora il miglior terreno su cui si sono costruite le fortune dell’estrema destra.
Lo scostamento netto tra la rappresentanza dei diritti sociali e quella dei diritti civili ed umani è stato messo in pratica nella convergenza tra centro e sinistra, nella saldatura tra interessi differenti di classe, nella composizione, per l’appunto, di un interclassismo che ha reso irriconoscibile la sinistra moderata e riformista nel perimetro di governo tanto in Europa quanto negli Stati Uniti d’America.
Quando Bernie Sanders rimprovera alla dirigenza democratica di non avere più alcuna connessione con la classe lavoratrice e, in questi ultimi anni, di aver perso qualunque aderenza con una drammatica realtà di crisi sociale che ha ampliato il suo spettro e si è estesa ad ancora maggiori settori della popolazione che, un tempo, parevano essere al sicuro dai contraccolpi di un neopauperismo, sostiene niente di più che la verità oggettiva nei rapporti tra politica e gente comune.
E qui sta la capacità della destra, che rappresenta i miliardari più concentrazionisti di ricchezze che vi possano essere, nel riuscire ad essere al contempo forza di conservazione e di rivoluzione: di una rivoluzione, per l’appunto, conservatrice, ma pur sempre di mutamento radicale si tratta. Perché gli States oggi si trovano drammaticamente davanti ad una svolta reazionaria.
Una svolta che determina una riorganizzazione sovrastrutturale di una politica tutta interna all’interesse privato. Ed è forse differente il contesto europeo? Possiamo affermare che la Commissione di Ursula von der Leyen è meno centristicamente liberista rispetto all’amministrazione uscente di Joe Biden e Kamala Harris? Tutt’altro. Semmai i segnali sono quasi in controtendenza: la UE guidata dal PPE trova nelle destre moderate che ne fanno parte degli interlocutori privilegiati.
Ed al contempo, proponendosi Giorgia Meloni come il punto di convergenza nella diatriba vecchiocontinentale tra orbaniani e asse franco-tedesco, il multilateralismo politico della destra si sostanzia di qua e di là dalle sponde oceaniche e trova un baricentro nella instabilità del ceto liberale a governare la fase della nuova espansione imperialista tanto ad est quanto ad ovest, tanto a sud quanto a nord del mondo.
Diventa sufficientemente evidente la capacità delle forze reazionarie e conservatrici di muoversi in una fase di rimescolamento delle carte globali e di saper indirizzare verso l’interesse privato ogni interesse pubblico: nonostante tutto ciò contraddica esplicitamente la minima tutela dei diritti sociali, il messaggio che Trump, Orbán, Meloni, Milei e altri leader di estrema destra riescono a far passare è quello di una alternativa al consociativismo delle classi dirigenti che hanno governato fino al loro arrivo.
In questo limite temporale, nelle tante scadenze di promesse non mantenute sul piano del recupero delle reti dei diritti del mondo del lavoro, della precarietà e dell’indigenza sempre più crescente, si misura la credibilità di un ceto politico e amministrativo che è stato acquiescente al grande capitale e che, quindi, non ha nemmeno tentato di riformare, di contenere, di limitare i danni dell’iperliberismo moderno.
Ecco perché Trump trionfa e schianta i democratici. Ecco perché Kamala Harris ottiene meno voti di Biden in quasi tutte le contee degli USA, salvo pochissime eccezioni; ed ecco spiegato il perché, tra i tanti altri motivi, per cui questa volta The Donald ottiene una vittoria indiscutibile nel voto popolare oltre che nella conquista dei grandi elettori.
Francis Fukuyama, uno dei più importanti studiosi di politologia al mondo, feroce sostenitore delle teorie liberiste, nel suo “La fine della storia e l’ultimo uomo” (UTET, 1992) sostiene: «Con il crollo mondiale del comunismo, noi ci troviamo ora in una situazione interessante, in cui i critici di sinistra delle società liberali non riescono stranamente a escogitare nessuna soluzione radicale per superare le forme più intrattabili di ineguaglianza. Per il momento il desiderio timotico del riconoscimento individuale si è difeso bene dal desiderio timotico di eguaglianza».
Prevale, quindi, l’egotismo di una vecchia generazione di capitalisti e altissimi finanzieri che ha creato le basi per una rimodulazione del multipolarismo che ha sorpreso persino le amministrazioni americane più conservatrici. Il reaganismo è, in questo quadro di cambiamenti veloci (e lenti al tempo stesso), uno stile di conservazione ormai datato: il trumpismo è un aggiornamento che può prendere spunto dal passato ma che, più di tutto si forma quasi spontaneamente.
Non nasce dal nulla, ma sembra così a prima vista. Parimenti al fenomeno berlusconiano in Italia, le qui premesse sono state tutte poste da un fallimento dell’onda lunga del centrosinistra di primo modello, quello del Pentapartito, crollato sotto il peso delle contraddizioni tra gestione del potere e gestione degli interessi ultrapersonali dei singoli esponenti di governo.
L’Europa allora aveva un ruolo ancora diverso rispetto a quello odierno: nasceva con il Trattato di Maastricht una idea di assenza di confini interni che non ha dato incentivo alla formazione di timidissime premesse per una unità dei popoli ma soltanto per la libera circolazione dei capitali, delle merci e delle monete.
Oggi, quell’Europa di allora è scivolata ancora di più nel versante dell’economicismo come unica risposta alle crisi epocali del nostro tempo: non ha altra possibilità se non continuare la guerra in Ucraina se vuole avere ancora un minimo di parvenza autonoma da una inversione di tendenza statunitense che con la seconda presidenza del tycoon arriverà quasi certamente.
Viene di conseguenza una domanda che, per qualche tempo, rimarrà tale, senza soluzione, senza scioglimento del dubbio che pone: ma l’Occidente liberale e liberista potrà essere ancora definito in quanto tale nel momento in cui l’Europa decidesse di seguire sulla falsariga il bidenismo, mentre prende campo la nuova stagione del trumpismo che lo sconfessa in tutto e per tutto?
Difficile poter pensare che a prevalere sia, sugli Stati Uniti, una posizione decisa e unitaria della UE. La frammentazione di cui si faceva prima cenno è anzitutto economica e poi si ripercuote nelle singole politiche nazionali, in alleanze tra paesi dell’Est contro paesi dell’Ovest: i fondatori liberali della vecchia CEE rischiano di essere oggi una minoranza in mezzo alla preponderante tempesta perfetta del sovranismo e del neonazionalismo.
Milei in Argentina è forse la punta estrema più acuminata di un processo di deperimento del ruolo pubblico dello Stato che a Trump non dispiace affatto. E, in fondo, è il principio della moderna epopea della torsione liberista globale: non più lo Stato che rappresenta gli interessi del capitale, ma semmai che ne diviene parte integrante, indistinguibile tra chi amministra e chi realmente tiene i cordoni della borsa.
La democrazia, nemmeno tanto lentamente, muore e l’autoritarismo è pronto a prenderne il posto, mettendosene la maschera su un volto arcigno che diventa, così, l’immagine rassicurante di un futuro radioso: quello del MAGA, a discapito del resto del mondo e, non di meno, dei propri storici alleati occidentali.
MARCO SFERINI