Reuters institute for the study of journalism ha lanciato l’allarme libertà di stampa in Italia, che si colloca al 46esimo posto tra 180 Paesi del mondo dell’indice della libertà di stampa di Reporters without borders, una posizione non certo invidiabile per una nazione fondatrice dell’Europa unita, membro del G7.
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L’Italia è finita sotto osservazione del Reuters institute for the study of journalism dell’Università di Oxford per i continui attacchi alla libertà di stampa. In un articolo pubblicato sul suo sito [1] l’Istituto, citando due rapporti indipendenti, ha lanciato l’allarme per le continue interferenze politiche nei confronti della Rai, le pressioni sui giornali d’opposizione e le minacce di azioni legali contro singoli cronisti colpevoli solo di avere criticato l’operato del Governo di destra. Reuters institute ricorda che il nostro Paese si trova attualmente al 46esimo posto come libertà di stampa nel mondo, su 180 nazioni, piazzandosi dopo Tonga, Fiji e Armenia, e scivolando indietro di ben cinque posizioni rispetto all’anno precedente nel Press freedom index, l’indice della libertà di stampa a livello internazionale compilato periodicamente da Reporters without borders [2], una posizione non certo invidiabile e di prestigio per una nazione democratica, moderna, cofondatrice dell’Europa unita e pure membro del G7.. Reuters institute fa al riguardo riferimento ad alcuni recenti episodi che appaiono poco edificanti, quali – tanto per citarne alcuni – la nota censura del monologo sul fascismo di Antonio Scurati, che doveva andare in onda in Rai in occasione della celebrazione della Festa della liberazione del 25 aprile scorso, le dimissioni di Carlo Fuortes da amministratore delegato della tivù pubblica per il suo rifiuto di accettare le nomine imposte dal Governo, l’aumento delle cause per diffamazione contro giornalisti critici verso i politici di maggioranza, le varie forme di intimidazione contro alcuni cronisti, tra cui Roberto Saviano, il sistema di gestione della Rai, troppo sensibile alle esigenze di Governo. In questo clima a volte i nostri giornalisti si vedono costretti ad autocensurarsi per conformarsi alla linea editoriale della loro testata giornalistica, pena il licenziamento o l’ostracismo professionale, oppure per evitare una causa penale per diffamazione o un’azione civile di risarcimento danni, senza dimenticare gli ultimi interventi legislativi, come la c.d. legge bavaglio, che vieta la pubblicazione sui giornali di intercettazioni e ordinanze di custodia cautelare, creando impliciti limiti alla libertà di azione dei nostri giornalisti e nei fatti una sorta di censura. A ciò si aggiunga la crisi economica che morde anche i media, costretti a dipendere sempre più dagli introiti pubblicitari, dai sussidi statali o dai soldi di finanziatori esterni a cui svendere la libertà di parola. Inoltre, i giornalisti che indagano sulla criminalità organizzata e sulla corruzione sono poi sistematicamente minacciati e talvolta sottoposti a violenza fisica per il loro lavoro investigativo; le loro auto o le loro case vengono a volte pure bruciate da strani incendi dolosi, mentre campagne di intimidazione sono orchestrate contro di loro, costringendo così alcuni di essi a vivere sotto protezione della polizia, come se abitassero in un paese del Sudamerica in mano ai signori della coca. Ci sono temi che invece non trovano proprio spazio nella comunicazione mainstream come lo stato dei servizi pubblici, sanità in primis, la questione della sicurezza sul lavoro, per non parlare poi di una narrazione a senso unico sulla politica estera che abbiamo fatto che abbiamo potuto tutti constatare con particolare riguardo agli ultimi importanti casi della guerra in ucraina e palestina. In definitiva le classi dominanti che controllano lo Stato hanno anche l’egemonia nella casamatta della comunicazione, e in tal modo i fatti e le prospettive che interessano i ceti subalterni vengono o tralasciati o letti attraverso la lente del ceto dominante. Tutto ciò a detrimento della pluralità d’informazione.
Non dimentichiamolo, la libertà di stampa fa parte della più ampia libertà di espressione; essa è garantita dall’articolo 21 della nostra Costituzione ed è un pilastro fondamentale dell’edificio democratico del nostro Paese. Un ordinamento istituzionale basato sulla separazione dei poteri, su libere elezioni, sulla garanzia dei diritti delle minoranze, sulla libertà di associazione e riunione, su un governo responsabile verso il Paese dipende dalla stampa libera, messa in condizioni di esercitare la sua funzione di controllo e di vigilanza, il suo ruolo di cane da guardia della democrazia, come si suole dire. Secondo il Press freedom index 2024 i primi tre paesi che possono vantare la maggiore libertà di stampa sono la Norvegia, la Danimarca e la Svezia, mentre agli ultimi tre posti troviamo Afghanistan, Siria ed Eritrea; fanno peggio di noi, tra le grandi nazioni mondiali, solo gli Stati Uniti (55esimi) e il Giappone (70esimo). Ma i giornalisti sono ovunque sempre più vittime di aggressioni e di omicidi. Dall’inizio dell’anno sono addirittura 65 i giornalisti uccisi nel mondo, colpevoli solo di volere raccontare ciò che accade loro intorno. L’ultima vittima accertata è stata Wafa Al-Udaini, uccisa il 29 settembre a Deir Al Balah, Gaza, insieme al marito e due figli a causa di un bombardamento aereo israeliano [3], un’altra voce libera zittita per sempre.
Note:
[1] Leggilo in https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/news/under-far-right-government-journalists-fear-press-freedom-italy-heading-down-slippery-slope.
[3] www.cpj.org/killed/.